Le semplici cose della vita nella
poesia del primo Biumi
Una poesia, quella del primo Enea Biumi (nom de plume di Giuliano Mangano), più precisamente la poesia di una raccolta risalente a qualche tempo fa, Il seme della notte (Scrittura creativa edizioni, 2014), che presenta in primo piano le semplici cose della vita; una vita povera, ma autentica: le monachine del focolare, le lucciole, “la gazzosa”, il paiolo per la polenta, “il cortile dove si giocava con la palla”, la canna della bicicletta, dove il bimbo veniva trasportato dal padre. La poesia si scarnifica, si riduce a una secca enumerazione, si fa oggettuale, fermandosi a un passo dal silenzio: (“il lampadario/ il tavolo/le sedie”).
Anche le
similitudini sono prese dalla vita di ogni giorno; il tempo è “come un panno di
bucato”.
Lo sfondo è
dato dall’universo familiare, dall’ambiente
paesano, dagli spettacoli naturali, che destano una meravigli attonita
davanti al sensibile; si tratta a volte anche di notturni di placida bellezza,
contemplati in solitudine, ma anche in una solitudine a due (p 15). Spettacoli
che la natura offre gratis, perché tutte le cose che “valgono” sono gratuite. Una
natura che ha qualcosa di sacro; e infatti l’abbattimento di un albero è
qualcosa di esecrabile non solo da un punto di vista eco logico; la condanna
però resta implicita, senza bisogno di alcun commento e perciò risulta più netta.
Già la prima
lirica è una traduzione libera dalle Bucoliche virgiliane e quindi ci
offre l’humus, la cornice da cui la sua poiesis muove. L’ambiente campagnolo si respira quasi nella
puzza “di letame”; perché la vera poesia interessa spesso tutti i sensi, non
solo la vista. E quest’odore di letame è l’equivalente olfattivo di un senso
terragno e corposo delle descrizioni, che il dialetto favorisce, come ben sanno
i lettori di Carlo Porta. Senza contare che il dialetto conserva anche capacità
allusive che la lingua della comunicazione ha cancellato. E perciò meritoria è
l’opera dei poeti che proprio per questo usano quella che una volta era la
lingua materna, così contribuendo anche a preservarne l’esistenza. Perché il
libro di Biumi è scritto in dialetto, con traduzione, se così si può dire, a fianco
Spesso si tratta di un quadretto nitido, che ha la purezza
di un idillio, con coda gnomica nell’explicit.
A volte la
breve opposizione non è incrinata da alcun sentimento. Si presenta in un presente
eterno, fissato in gesti quasi ieratici.
A volte il
quadretto è incrinato dalla nostalgia e
allora si ha l’uso dell’imperfetto, il tempo appunto della nostalgia, accompagnata
da un desiderio di pace, per una coscienza “sempre in guerra”.
Non manca l’amore nelle corde del poeta ed è visto come “qualcosa che vale”, simbolizzato “nei due occhi neri”, in un “angelo”. E infatti con una dichiarazione, anzi con una doppia dichiarazione d’ amore termina il libro.
Il futuro
appare a volte come un” “sentiero in mezzo a un bosco”, ma, sembra dirci Enea,
bisogna andare avanti. L’inverno diventa Il correlativo oggettivo o, la metafora della vecchiaia. La morte aspetta tutti e ciascuno, come in una
“gran piazza/ dove una mano sorteggia il tuo destino”. Allora sembra prevalere la
paura, il desiderio di fuga, ribadito in
martellanti anafore. Ma la paura non riguarda il Matto, il diverso, che il
poeta sente, simile in questo ad Hanno dei Buddenbrook, come amico, come
fraterno, e rappresenta forse la poesia, l’alterità.
Della fine l’io lirico ha una coscienza acutissima, dolorosa, che lo porta, in un’atmosfera da Sera del dì di festa, a chiudersi, ascoltando “i fuochi d’artificio dell’ultimo dell’anno e quasi prendere congedo anticipatamente dalle gioie effimere del vivere.
Fabio Dainotti