Inseguirò i tuoi sogni nel sentiero scavato nella neve (del paese lucano….. ) riconoscerò la stessa orma scavata nella spiaggia (di Marina di Ginosa) tra ombrelloni e aquiloni, a raccontare il non mai detto.
Hanno partecipato in orari diversi autori del Perù, Colombia, Cile, Messico, Repubblica Dominicana, Brasile, Uruguay e Stati Uniti.La manifestazione è stata promossa dall’associazione Culturale “Amici della Poesia” di Cosenza e da sade filiale la Plata Argentina.Scrittura Nomade - Viaggio polidiomatico di Arte e Cultura - Variazioni sul tema scrittura
domenica 20 luglio 2025
Reading internazionale di Poesia ”anima e core”
giovedì 10 luglio 2025
Valeria Cartolaro “Disregolazioni” (Transeuropa Edizioni, 2025)
I
detriti incombono. I detriti sono protagonisti della raccolta di poesie
“Disregolazioni”; autrice Valeria Cartolaro. “Io tendo all’ossessione” confida
il verso iniziale della prima poesia e continua poi in altro passo: “e di
fretta, la fretta dilata i detriti/ li gonfia e pregni un pegno da pagare/
diventano la famiglia e gli amici”, attraverso un succedersi irregolare che
compone sonorità efficaci e allitterazioni consonantiche volutamente
incombenti, eterodirette a ulteriori e altri discernimenti. A passaggi che
deragliano verso le polarità impreviste nella conduzione che innesta nel tempo
delle sillabe il ritmo dei passaggi. Nelle disregolazioni il prefisso è
negazione ma anche dispersione delle regolazioni stesse, di quel modo che è
ordinare, sistemare, così come limitare e controllare attraverso il filtro
della combinazione che apre all’osservazione e al percepire l’effettivo slancio
della cognizione capace di raccogliere le singole parti, i frammenti, le
scorie. Voce giovane che esprime esito in costante maturazione tra le pagine
dove “Qualcosa che non so tiene insieme queste mura”, tra dense sponde, una
bruma che accenna o porta verso respiri ma anche strappi, calce, frasche, sogni
e silenzi. L’asimmetria dei versi in molti tratti sembra interrompere ma pure
coniugare la vocalità dei transiti e dilatare varchi verso accostamenti
imprevisti. “Se ascolto/ guardo la pece diventare un pesce giallo/ limare le
sue lische appuntite”; polveri, allora, assumono le sembianze di realtà
disperse o mai compiute dicendole, con una citazione “variabile”, “abitatrici
di mastabe”. Valeria Cartolaro combatte la prossimità per includere regesti di
reazioni alla vicinanza con le cose, così come con la proposta anche dicibile:
“Nudi patiremo la stirpe che verrà/ ci avrà sicuramente la paura del viaggio/
quella sua andatura storta”, oltre avamposti gelati e fibre tossiche, ben al di
là di accensioni solo relative alla portata del rivelare. Sembra l’inizio di
una contesa dove il tempo scardina le progressioni, concentra e accorcia gli
iati, non teme sete e fango, abbandoni prospettici, veleni corrosivi che
attentano all’equilibrio delle stagioni già non più ortodosse. “Volevo stare
nell’acqua che schiva i sassi/ passa tra i grumi di terra/ si trattiene nelle
assi di muffa” scrive l’autrice; una presa d’atto condotta attraverso moti e
sospensioni che disgregano una vicissitudine e, come indica Andrea Ponso nella
postfazione, conducono a immagini frante e a ritmi percepibili.
Andrea Rompianesi
lunedì 7 luglio 2025
Gianfranco Galante, Mister Wakìki Momba, in viaggio verso il domani, Circolo Scriptores, Varese, €. 22,00
Ancora una
volta Gianfranco Galante si rivolge verso una tematica sensibile e attuale:
l’emigrazione. La sua ottica è uno sguardo a tutto tondo che insiste su di una
umanità emarginata, ma niente affatto marginale. Anzi. È proprio questa umanità
che ha bisogno di essere osservata, seguita e coadiuvata.
Tratto da
una storia vera, parzialmente modificata, il romanzo parla di un viaggio
compiuto da due fratelli africani per raggiungere l’eden europeo. I due
protagonisti abitavano in un villaggio della Tanzania. Poco sapevano del mondo
che stava al di là della loro tribù. Avevano però fatto una promessa: dovevano
raggiungere l’agognata Europa, meta presumibile di benessere, ricchezza e
felicità. Ma prima ancora di raggiungere la terra promessa si sono scontrati
con guerre, torture, paure, fame, maltrattamenti e soprattutto dignità
oltraggiata, rispetto ferito e personalità vilipesa.
Dalla
Tanzania passano attraverso lo Zambia, il Congo, la Repubblica Centrafricana, il
Ciad, la Libia per raggiungere, dopo la perigliosa traversata del Mediterraneo,
l’Italia. Il destino dei due fratelli si complica perché vengono divisi:
infatti uno troverà rifugio in Sicilia che diverrà la sua stabile dimora,
mentre l’altro continuerà il viaggio verso il Nord, e lì troverà stabilità. Si
reincontreranno dopo anni e diventerà difficile, sembra un assurdo, pure la
loro comunicazione, visto che uno parla italiano e l’altro il dialetto
siciliano.
L’autore si
cala nei due personaggi, diventa la loro anima, il loro pensiero, subisce il
loro dolore, il loro timore e trasmette al lettore le loro sensazioni e le loro
aspirazioni.
Non sto qui
a svolgere il riassunto delle loro vicissitudini, simili a quelle di tanti
altri migranti verso la speranza. Ciò che tuttavia mi preme sottolineare è
l’attenzione di Galante verso gli ultimi, i vilipesi, gli emarginati. Il loro
dramma è la vergogna di una cosiddetta civiltà evoluta. Evoluta verso il
benessere di pochi. Involuta nella comprensione dei più deboli.
Purtroppo la
storia si ripete. Sembra che non riusciamo ad apprendere nulla dalla storia. O
forse la storia è una maestra inascoltata. Eppure un racconto come questo è
necessario, serve a denunziare simili situazioni disumane. E non bisogna essere
dei santi o dei profeti per capire come la disumanizzazione diventi foriera di
ulteriori ingiustizie e di inevitabili ribellioni.
Wakìky e
Mbele sono il simbolo di una stortura umanitaria, di una società irrazionale ed
egoista, di un mondo che divide e non unisce. Il Nord che ha sfruttato negli
ultimi secoli il cosiddetto terzo mondo, che ha costretto gli abitanti del
terzo mondo ad abbandonare la propria terra e le proprie radici derubate in
continuazione delle proprie risorse, chiude gli occhi davanti ad una
emigrazione che ritiene ingiustamente pericolosa, non accetta il diverso, per
struttura fisica, per religione, per cultura. E Gianfranco Galante con questo
romanzo di una umanità sincera, sensibile e trasparente ci rende coscienti del
disastro umanitario e culturale che il Nord sta commettendo.
Il viaggio
verso il domani è la narrazione di una speranza raggiunta, dietro la quale però
si cela la sconfitta di molti che non riescono a realizzare i propri sogni, ma
anche la sconfitta di quel mondo che si ritiene superiore e che rifiuta il
confronto con chi quei sogni vuole concretare.
Enea Biumi
domenica 6 luglio 2025
Enrico Trebbi “E così sia” (Book Editore, 2025)
C’è una storia che parte sempre da lontano. Assume i caratteri di quelli che sono stati i sogni, le speranze, le utopie del tempo giovane; così come la rivisitazione e l’innegabile aspetto di un sentire struggente verso il divenire inarrestabile o il suo apparire quando lo si ripensa in una età matura. Ancora di più ciò avviene nelle fasi in cui avanza la scrittura, la poesia in particolare. Allora il quotidiano evento deve farsi autentico nella sua forma più nitida, umile, saggia. “E così sia” è il titolo dell’esito poetico di Enrico Trebbi. Da subito la scrittura esprime un verso narrativo che identifica il “tu”, la relazione, l’identità di una compagna preziosa quale vocazione laica a discernere gli appunti che trasformano le discorsive tonalità di canzoniere. L’avvio è già rivelazione di un sentire personale: “Che cosa mi è mancato negli anni/ vissuti dopo averti incontrata?”. Trebbi riconosce, in un verso che tende ad allungarsi nel dicibile, la fortuna rara dell’incontro decisivo, dell’amore rivolto e ottenuto, della concretezza attualizzata dalla dimora che si fa ascolto, ricezione, atto accudiente, cura. C’è nei versi una vocazione che si esprime nell’attenzione agli elementi di natura, sospinta da un tono posato e calibrato su base regolare, quasi un effetto di respirazione che confida: “Vorrei mi si lasciasse qui, sprofondato/ in una delle giornate che amo,/ in questa quiete di preludio,/ in questa sonnolenza/ che destituisce di senso il mondo a me noto”. E’ un riconoscere nel procedere lento, dolori e riflessi, avversioni e aderenze, contrasti minimi, timori contingenti, sofferenze accumulate; il trattenersi emotivo nella prosodia dei versi esprime proprio l’opposto andare interiore verso una direzione che si fa contemporaneamente origine e meta, marcando con intenzione includente i luoghi di sosta. I temi della malattia, del recupero; l’individuare i pochi elementi certi, capaci di donare l’intensità del riscontro, assumono echi di parole donate che in scorci a volte emergono e sembrano indicare una traccia di altre voci autoriali, forse Leopardi, Sereni, Montale. C’è in Trebbi l’urgenza del dire ma in modo disteso, dialogante, sia che ciò riguardi un amore (“Amo la luce che ti segue come un’ombra,/ ti raggiunge e si posa per conforto/ sul dubbio che sta in me, severo, contorto”), sia che si tratti di rendere un diffuso tono lieve e dolente che richiama certe vibrazioni espresse in passato da Stefano Simoncelli (“Ripartiamo presto, per evitare il traffico/ che la domenica, si sa,/ sulla strada verso l’entroterra,/ di ritorno dal socievole mare/ delle coste romagnole o ferraresi,/ è quasi sempre una variabile ostile”), sia l’esperienza struggente di un affido (“E se ti guardo leggo nei tuoi occhi grandi/ il libro della tua ricerca dell’ombra”), sia il porsi di fronte alla complessità dei legami familiari, ad un riferirsi al paterno che ricorda un titolo di Geminello Alvi (“Per tutto questo e altro ancora/ il dio dei figli ti salva e assolve e perdona”). Una malinconia paziente sovrasta l’ordine delle cose che Trebbi impugna con energia residua, abituata a coniugare durezza e pietà, richiamo e comprensione, comunismo e cristianesimo. Poi, forse, la sera si fa tenue, concede l’attimo della sosta mite e acuta attraverso l’osservare, nella precarietà dei tempi, la perturbante fragilità di quei pochi ma significativi squarci nei quali il passo prolungato e costante delle sillabe diventa la prosecuzione di una sensibilità ostinata, come nel poemetto “Canti della terra”: “Tu accendi una luna di cristallo/ nel buio dei cieli che non abbiamo visto,/ mi metti una mano sugli occhi e sussurri/ che anche domani mi porterai a passeggio”, e poi la natura con i suoi elementi più nascosti,le spazialità dei luoghi che hanno animato l’esuberanza dei viaggi, le paure e ancora gli amori...”Ed erano vetri rigati di pioggia, i vetri/ fioriti di gelo, erano primavere gentili”; infine la nitida caduta inesorabile delle utopie, il non volere una verità che inesorabilmente lo diventa; come reperire i tratti oscurati della mappa quando il terreno è già mutato, rincorrere i fantasmi di una storia che ha imposto le sue leggi, eppure... è ancora l’autore stesso a rinnovare una combattuta intenzione che gli fa dire: “Non si è in pace con sé quando si tace”. Il libro si conclude con una “intervista immaginaria” del sé lettore al sé stesso poeta.
Andrea Rompianesi
mercoledì 2 luglio 2025
AI CUGINI CASCINI CONSEGNATO ATTESTATO DI PLAUSO “ARS POETICA” al XVII° CONCORSO LETTERARIO “COSENZA-CITTÀ FEDERICIANA”
A Cosenza si è svolta la cerimonia di premiazione del XVII° CONCORSO LETTERARIO INTERNAZIONALE “COSENZA CITTÀ FEDERICIANA” promosso dalla Associazione Culturale “CLUB DELLA POESIA”.
Alberto Mori “Luce solida” (Fara Editore, 2025)
Un “solido morbido”, una sinestesia fluttuante già si realizza nella bella immagine di copertina, anch’essa opera dell’autore, del libro “Luce solida”. E il poeta performer ed artista è Alberto Mori che ci offre una prova ulteriore del suo percorso di attento osservatore dei particolari nella loro “oggettualità”. Qui si erge nella sua disciplina di dato il rimando a cui tendere da ciò che appare, dalle forme che abitano e scolpiscono i tratti della materia, attraverso un ricorso peculiare che incide nella trasformazione del segno o, meglio, alla sua rivisitazione: “La cesura finisce/ Energia come misura/ Flusso fra sponde accese”. Eco d’origine nella percezione di accorpamenti e velature significanti da filtrare attraverso una pratica che, nella prima parte del libro, adotta componimenti brevi di tre o quattro versi dove gli stessi si essenzializzano in una concentrazione estrema di sfumature solo accennate: “Nulla del giorno/ Vastità indetta/ Semi delle ore”. Cammini non necessariamente in sintonia con un contesto complesso e imprevedibile che caratterizza la nostra attualità e costringe ad una auspicabile presa d’atto che non sia solo cedimento a derive o approdi provvisori e afoni. Lo sguardo di Mori tende a percussioni riprodotte a ibridazioni tempistiche, così “Ombre defilate in fasce oscure/ Confini dissolti in limini chiari”. La seconda parte di “Luce solida” avvia un esito graficamente debitore all’architettura visuale di certo futurismo, non escludendo tensioni neodadaiste, così come contusioni nella tracciata interiezione possibile, colma di cenni alla tracciabilità di uno spartito fonetico. Difformità di caratteri e tratti d’interpunzione abitano la pagina nella dislocazione sillabica di fortissimo impatto visivo. Schema a supporto di tessuto sia vocalico che consonantico nelle modalità che intersecano mappature oltre accenni di schema direzionale irregolare, nei trattini e in direzioni verticali, orizzontali, diagonali. Poi Alberto Mori ritorna all’essenzialità del vocabolo e della interiezione reiterata e riprodotta in tonalità linguistica simbolicamente acuita dalla “lettera segnale”: “E Tempo/ Poco A Poco Tenta/ Trasale/ Risveglia”. Ma ancora non tutto è detto quando l’autore prosegue il percorso in modo inaspettato e sorprendente ponendo a chiusura una sezione in cui le poesie sviluppano una lunghezza in versificazione verticale, focalizzata su esito descrittivo intonato ai cromatismi urbani e temporalmente distribuiti nel susseguirsi delle fasi diurne e notturne; “Nessuna ombra rimane/ Dilegua apparenza degli oggetti/ Sogni della polvere assente/ Rumori vuoti d’attesa”. In questa sezione conclusiva ogni testo inizia con lo stesso verso, esprimendo un intento anaforico e confermando poi una nota sinestetica portata a caratterizzare l’opera: “La notte buia vede”.
mercoledì 25 giugno 2025
Andrea Rompianesi, Letteralmente, Amos Edizioni, 2025
(estratto dalla prefazione di Enea Biumi)
La
passione e lo studio della letteratura contemporanea (quella per intenderci che
va dal secondo novecento fino ad oggi) hanno indotto Andrea Rompianesi ad un
costante rapporto/confronto con quanto veniva pubblicato dal 2010 in poi, in
un’ottica di critica d’autore, molto vicina a quella militante.
Ciò che lo ha mosso è stato il desiderio di un assoluto approfondimento secondo
una sua idea di poetica, di certo non solo soggettiva, ma ponderata in contesti
più ampi, e generata da anni di perdurato interesse nonché predilezione di
quello che per lui era – ed è – sostanziale al fenomeno “scrittura”.
Riuniti
in quel “peculiare genere metaletterario che è un’Antologia”
(l’osservazione appartiene a Pier Vincenzo Mengaldo) questi
percorsi di scrittura sono un esempio del lavoro sul campo portato avanti da
Rompianesi nella certezza di contribuire a far udire la voce degli scrittori
esaminati e registrati, anche perché validamente inseriti in un contesto
culturale ampio seppure a ridosso del grande pubblico, e quasi underground
o borderline, vista l’oggettiva presenza di testi che coinvolgono sia
sigle di nicchia che commerciali.
Sono centodue i percorsi che qui vengono presi in esame con quella visione, come esponevo, sempre attenta alla congiunzione tra significato e significante. Ogni opera ed ogni autore, infatti, vengono colti e guardati attraverso la lente di un’attenta valutazione alla ricerca di un quid capace di generare ed evidenziare individualità precise emergenti. Il suo esame, inoltre, non vuole e non deve essere solo di superficie, e quindi benevolo, bensì severo indagatore. La disanima di cui si avvale comprende le regole della retorica che offre al lettore l’intelligenza di ciò che sta scritto in un contesto di vera e propria critica letteraria, lontana però dal vuoto di una generica apologia del testo.
I
percorsi di scrittura di Rompianesi sono per evidenziare e non per elogiare,
alieni da quella specie di captatio benevolentiae che spesso conduce un
critico obnubilando la verità del contenuto e della forma. Ne scaturisce quindi
una professionalità plasmata da un continuo studio e da una appartenenza seria
e coerente al mondo della scrittura. Non per nulla la casa editrice da lui
fondata ha la dicitura di “Scrittura creativa” e la promessa di
pubblicare solo opere di qualità: massimo tre in un anno.
Per rimanere nel simbolo del percorso è evidente che ogni cammino o sentiero contiene di per sé diversi indirizzi e fermate: ecco allora che l’itinerario, che viene proposto, allarga i suoi orizzonti, si distende ed estende ad altre rielaborazioni. Non esiste, ci fa sapere Rompianesi, solo la letteratura in lingua. Da Pasolini ad altri autorevoli critici, come il già citato Pier Vincenzo Mengaldo, abbiamo ormai imparato che la letteratura italiana è costituita anche da autori dialettali. Perciò il suo interesse, autorevolmente supportato, si posa anche su poeti come Nina Nasilli, Ferruccio Giuliani, Emilio Rentocchini.
Chiaramente
mi è impossibile citare tutte le opere da lui analizzate. La buona volontà e
soprattutto la curiosità condurranno il singolo lettore nella giusta
comprensione, sebbene gli esempi che potrei fare siano molteplici e tutti
indicativi del buon lavoro svolto.
Nel
cammino intrapreso, dunque, si evidenziano alla fine mete e risultati. La meta
è stata raggiunta con quell’accostarsi quasi in punta di piedi ai lettori,
suggerendo loro, nello spirito della maieutica socratica, alcuni accostamenti,
alcuni passaggi, alcuni indirizzi. I risultati sono quelli espressi in forma
più o meno esplicita in un florilegio indicativo e appagante del suo lavoro.
Il
compito adesso sta al lettore. Gli spunti ci sono. Basta riconoscerli e farne
buon uso per una comprensione migliore di quegli autori antologizzati e per una
consapevolezza maggiore di quello che la letteratura sa donarci.
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