Scrittura Nomade - Viaggio polidiomatico di Arte e Cultura - Variazioni sul tema scrittura
martedì 11 agosto 2020
VERNICE, anno XXVI, n° 58, Genesi Editrice, Torino, 2020, €. 20,00
Livio Bottani, La memoria e l’oblio, Genesi Editrice, Torino, 2018, €. 16,00
La silloge poetica di Livio Bottani “La memoria e l’oblio” presenta in modo
abbastanza articolato un percorso per lo più esegetico in cui il verso, dalla
riformulazione classica dell’endecasillabo alla apparente libertà discorsiva,
si distende in una connotazione ragionativa. “Ora sai che non si sfugge/ al destino,/ ora sai che la nebbia e il
grigio/ non sono stati fugaci/ fenomeni d’antan,/ ma avvolgono la tua vita/ con
una fitta coltre”. Non mancano, però, come sostiene Gros-Pietro nella
prefazione, elementi caratterizzanti la lirica, come ad esempio allitterazioni,
metafore, sineddochi, enjambement e via dicendo, ma ciò che maggiormente
suggerisce la lettura di queste poesie è una visione d’insieme filosofica ed
esistenziale, là dove il poeta ricostruisce se stesso in una formula dialogica
denudata e denudante per riscoprire una specie di comun denominatore delle cose
e del mondo. “Vorremmo credere che la parola sia/ per mettere ordine nelle nostre
anime/ disturbate dall’inesperibile;/ che ogni figura raccolga il senso/ di una
sfida all’inesplicabile/ nella contesa delle interpretazioni/ che partoriscono
mondi interi”. L’uso della memoria ci porta in anfratti storici e mitici,
reali e possibili, contribuendo a delineare un cammino interiore anelante la
verità dell’essere, disvelato in un pudore di affetti che recuperano ricordi
non solo personali, bensì universali. Qualcuno direbbe che il re è nudo. Ma in
questo caso il re è il poeta che si confronta in quotidiane battaglie, che
affronta il lettore per risvegliarlo dall’intorpidimento, annebbiato ormai da
una pluralità di voci e di consigli che tendono ad infiacchirlo piuttosto che a
sostenerlo. “Non pensavi davvero/ che
avresti nuovamente permesso/ alla musa di incalzarti”. E ancora: “Povera e nuda se ne va la filosofia// (…) La poesia dovrebbe scaldare
la pietra,/ col suo arcobaleno scaldare il mondo,// (…) Che non serva a niente/
e non sia serva di nessuno/ lo si sa bene e lo si mette in conto.// Non doversi
vendere al mercato/ va a suo onore in tempi in cui/ l’unico valore sta proprio
in quello”. In tale situazione un rifugio che Bottani suggerisce è il mondo
classico, ribadito nella ripresa di poeti latini – Orazio in primis – e della
loro concezione della vita, ma un mondo classico per nulla lontano da noi.
Anzi. Del tutto assimilabile al nostro esistere. È il caso di famosi rimandi
che, visti in un’ottica moderna, suonano altrettanto validi e affatto scontati.
“È l’incurvarsi del tempo/ che spaventa,/
sapere che niente potrà fermarlo/ restituendogli il suo sentore antico.// (…)
Avendolo perduto,/ non resta che il presente,/ da vivere nella sua pienezza/ di
memorie, illusioni e attese.” Non c’è chi non veda in questi versi il “ruit hora sine mora” delle meridiane e
l’oraziano “carpe diem”. E nella più
classica delle tradizioni la silloge si apre con un proemio – In memoriam – che offre il la a tutta la raccolta e ne valida il
racconto introducendo una specie di contrappunto alla scrittura poetica – in
musica si parlerebbe di basso continuo. La
nota prevalente è il nero che sommerge ogni cosa: la luna, gli albori, gli
sguardi e soprattutto i poeti, la loro voce, il loro respiro, la memoria
stessa. “Neri fiocchi e luna nera,/ mare
malato di notti senza risvegli:/ non c’è barlume che porti/ al di là di questo
oceano tenebroso,/ che possa vincerne l’oscurità,/ dissolvendo tutto il dolore/
che si distende ammorbante sul cantore,/ coperta vischiosa dell’afflizione,/
latte nero degli albori/ in cui è annegato il poeta.” L’opera prosegue poi
in tre tempi, altrettanto topici: papaveri
e fiori di loto, pietre d’inciampo, pensieri come fuchi. Il file rouge che organizza e conduce il
contenuto si dipana in cose concrete (fiori, pietre, fuchi) ma si risolve in
meditazioni e domande. “Ma di che si
vuole restanza se non dell’io?/ Rinunciare a esso e alle sue ubbie/ non
corrisponde forse a un assottigliarsi?/ a un affilarsi? a un angelicarsi?”
“Alla fine che resta dell’assottigliarsi/ e del non voler assottigliarsi?/ Una
storia di preghiere e di dubbi,/ di scommesse e di rilievi sospettosi,/ di fede
e scetticismo senza soluzione.” La policromia delle situazioni reali,
allora, sembra affacciarsi in una universalità di sentimenti accomunati da una
indubbia religiosità – non necessariamente quella cristiana – che insiste sulla
specificità dell’uomo, quell’essere triste
animal post coitum, che indugia in quesiti dopo millenni ancora irrisolti, che
si inalbera in reiterate e irrequiete dispute di vita e di morte, di perdizione
e di resurrezione. “E così abbiamo
pregato e pregato:/ volevamo capire chi eravamo/ e cos’erano gli altri,/
carpendo il segreto delle nostre vite.”
Enea Biumi
Federico Aru, Sulla scia del vento, Genesi Editrice, 2019, €. 15,00
Non si tratta solo di un giallo noir. O per lo meno.
L’apparente situazione delittuale offre lo spunto ad Aru di presentarci
un’umanità borderline immersa in desideri, appagamenti, afflizioni, recitante a
sua volta un copione di inespressi bisogni, strani appetiti, oggettive
mancanze. “Sulla scia del vento” che dà il titolo al romanzo è l’incontro
empatico che avviene tra due individui: meglio, tra un ego e un alter-ego,
entrambi portati a riflettere sulla condizione del proprio passato. Si innesta,
allora, una serie di considerazioni sulla ineluttabilità dei gesti, sulla
distinzione tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, sul dovere, sull’amore
filiale e coniugale: più estesamente sul bene e sul male. Non per nulla,
all’incirca alla metà del romanzo, si legge come una parentesi: una meditazione
che coinvolge in termini teologici la missione di Cristo e la riflessione sul
tempo. “L’idea che mi ero fatto sul
concetto di tempo somigliava molto a ciò che Gesù diceva di se stesso e
predicava agli altri.” Ecco la
parola chiave: il tempo. Su questo il protagonista (o meglio, i protagonisti –
ma non voglio svelarne la trama) si interroga nei momenti di pausa tra
un’azione e l’altra; su questo si concentra il delitto che ammorba gli animi
scaraventandoli in un turbinio di “se”
e di “ma”, tormentandoli in un continuum di chiaro e scuro; su questo
l’io narrante si erge a paladino della verità. Ma qual è la verità? E’ un
anello di grande valore ereditato a cui siamo costretti a rinunciare? E’ il
valore dell’amicizia? E’ la parola data e non concessa? E’ l’ingiustizia che
costringe all’omicidio? E’ l’imbroglio che ti porta a mentire? E’ l’odio del
figlio nei confronti del padre? E’ la situazione emergenziale che ti ha scaraventato
sul lastrico, inibendoti gli affetti famigliari? Tante sono le domande che
possono contornare il tessuto del racconto in cui il lettore si insedia
partecipando e parteggiando ora per questo ora per quello, fino alla
riflessione conclusiva che l’autore pone nell’epilogo, dove un sentimento su
tutto ha la prevalenza: il perdono. Esso infatti è “una gemma preziosa che nasce non dalla ragione ma dal cuore”, “è un
gesto di carità con il quale salviamo
noi stessi dalla disperazione”, è la salvezza che sa “trarre dall’odio una speranza di vita.” Lo sfondo di tutto ciò è
una Cagliari moderna che entra nel gioco psicologico dei protagonisti e che ne
circonda figure e pensieri, adagiandosi nella scrittura di Aru quasi a
raccoglierne agitazioni, pressioni e incubi. La minuziosa descrizione dei
personaggi e dei loro gesti, la capacità espositiva ed analitica dei luoghi e
dei paesaggi, supportano l’intreccio narrativo del romanzo, sostenendone la
trama e il tentativo lodevole di mettere in primo piano sentimenti, psicologia,
eticità: i veri protagonisti di una storia caratterizzata dal delitto e
sottolineata dalla rinuncia al castigo o alla vendetta in nome del perdono.
Enea Biumi
Federico Aru, Il voltolino, Genesi Editrice, Torino, 2019, €. 15,00
martedì 28 luglio 2020
Tiziano Rossi “Piccola orchestra” (Edizioni La Vita Felice, 2020)
sabato 11 luglio 2020
Enea Biumi in un giallo realistico ed intrigante
martedì 7 luglio 2020
Gianfranco Galante, "Volevo raccontare una storia...", Macchione Editore, Varese, 2020
“Non
è mai facile raccontare sé stessi ed avere il coraggio d’esporsi al giudizio di
chi ignora non conoscendoti”:
così Gianfranco Galante introduce le sue pagine di diario, mettendosi a nudo e
a disposizione del lettore. Sono pagine di memoria – è ancora l’autore a
giustificarsi – perché “il ricordo è parte del vivere del nostro presente e
ci accompagnerà nel futuro quando il presente sarà passato”.
Galante, in effetti, non è nuovo alle rivelazioni
del sé. Come poeta, infatti, ha già abbondantemente abituato il lettore al
racconto delle sue emozioni. Con la prosa, però, l’operazione assume una
connotazione centripeta ancorché compiuta. Il sé diventa l’elemento da
scandagliare pagina per pagina e, pagina per pagina, il discrimine fra ricordo
e sentimento si fa consapevolezza di vita e di crescita costante. La strada,
quindi, che l’autore vuole percorrere, ha da situarsi proprio in quei momenti
fondativi che sono l’inizio di una esistenza che il destino gli ha preparato e
che lui perlustrerà fra valori e affetti irrinunciabili.
“Ho voluto raccontare storie di
vita vissuta, riflessioni personali, piccoli cenni storici; offro la
conoscenza, a chi interessi, di un po’ di me” suggerisce, visualizzando
poi un fuoco di lettura che ci permette una migliore comprensione del testo. E in
ciò disvela un binomio ben rilevabile e affatto trascurabile: la Sicilia – del
cui imprinting va fiero e orgoglioso – e la famiglia – che gli ha trasmesso i
valori di libertà, onestà e amicizia.
Si tratta, allora, di un viaggio della
memoria. Ma si sa che il viaggio, nell’antichità come nel presente, è un topos
per indicare crescita e consapevolezza. Ulisse, Enea, lo stesso Telemaco, per
colpa degli dei girovagano tra un porto e l’altro in mezzo a mille pericoli, ma
alla fine raggiungono la propria meta più consapevoli e più forti di prima. In tempi più vicini a noi On the road di Jack Kerouac offre il medesimo risultato. almeno, questa è l'idea di John Leland, accettata e adottata anche da altri critici, dove si sostiene che si tratta di un romanzo ricco di lezioni su come crescere. Se vogliamo rimanere
nell’ambito della formazione, non mancano esempi di viaggio anche in campo
religioso. Le antiche
religioni politeistiche, per esempio, prefiguravano iniziazioni attraverso
viaggi di mistero che rafforzassero l’anima e il corpo. Dante ci fa
attraversare, a mezzo del suo cammino, inferno e purgatorio per raggiungere il
paradiso, cioè la piena consapevolezza del sé.
Ecco, allora, che il catecumeno Gianfranco
ha la sua iniziazione in questo viaggio-memoria nella terra siciliana. E lì si
riconosce, come direbbe Ungaretti, docile fibra dell’universo. Lì si intrecciano
e si intersecano i rapporti umani, col vicinato, con i parenti – passati,
presenti e venturi – con gli amici o con emeriti sconosciuti. Lì il
protagonista cresce ed impara, accompagnato da ampie e sincere riflessioni sul
perché della vita e della morte, della violenza e della sopraffazione, dell’amicizia
e del perdono, dell’ipocrisia e della pazzia.
La sua formazione avviene negli anni
sessanta – l’autore è nato nel 1964. Ed oggi – dichiara – sembra trascorso un
secolo. Lo ribadisce spesso. La sua sicilianità sta in questo atto di fede
assoluta a quel mondo e a quei modi d’essere e di pensare. Mentre in Italia, al
nord, che a tratti frequenta e che diverrà dagli anni settanta in poi la sua
dimora definitiva, è già in pieno sviluppo il boom economico e industriale, la
società del sud vive ancora in tradizioni ancestrali e condizioni lontane anni
luce dal progresso. E Galante preferisce questa a quella, perché la sente più genuina,
meno artefatta, più naturale. Ci sono disagi, è vero. C’è un’apparente maggior
povertà. Ma c’è una ricchezza di umanità incomparabile a qualsiasi altra
situazione.
Significativa e paradigmatica è la
contrapposizione tra abitudini e comportamenti diversi se non opposti tra nord
e sud. Non c’è un giudizio di valore, beninteso. Entrambi sono accettabili
perché nascono e si sviluppano in contesti diversi. Può essere emblematico
l’episodio che Gianfranco narra del suo arrivo per la prima volta all’oratorio
di Sant’Ambrogio in Varese. Vede ed osserva ragazzini della sua età che non
fanno baccano, giocano senza insultarsi, sono educati e gentili fino ad
assomigliare quasi a dei robot asettici. Lui è abituato alle urla, ai cazzotti,
alle birichinate. Due mondi differenti, sia pur antitetici e complementari.
La povertà non è miseria. Non è disordine
o trascuratezza. L’autore ce lo ripropone più volte. E se manca la luce
elettrica o la radio, poco importa. Se è necessario percorrere chilometri e
chilometri a piedi o sul carretto trainato dal mulo per poter vedere i propri
parenti non è un dramma. Anzi: è la felicità. E’ la possibilità di incontrare
altre persone, di soffermarsi a parlare, di sapere notizie. E’ un modus vivendi
che si contrappone in modo considerevole alla frenesia di un mondo moderno che
misura la vita in secondi. Lì la vita è misurata in stagioni. E ancora una
volta c’è da sottolineare che non bisogna intravedere nessuna povertà in quel
modo d’essere e comportarsi, ma ricchezza.
Galante confesserà di fatto più avanti: “la
ricchezza la portavo dentro: dignità dell’essere, educazione, senso del dovere,
senso della famiglia, senso del sacrificio a prescindere, conoscenza delle
priorità, importanza dei valori, timor di Dio, rispetto del credo altrui, forza
d’animo, forza di reazione ai disagi, umiltà, capacità di perdono”. Sono
infatti questi i valori ereditati dall’insegnamento dei suoi genitori, dei suoi
nonni, dei suoi zii. Valori di cui andar fiero. Valori di una terra che fa
soffrire e gioire. Valori di libertà.
Accanto alle motivazioni personali di crescita e
sviluppo, Galante mette in rilievo anche il mondo contadino. Ne descrive il paesaggio, con ammirazione e dovizia di termini. Ne
valuta lo sforzo e il sacrificio lavorativo della vita dei campi, in quel pezzo
di Sicilia, che crea per lui, bambino, anche un clima di serenità e di
spensieratezza. Vede il sudore dei suoi nonni e dei suoi zii. E ne vuole
partecipare. Perché è in quel sudore – capisce – che si colloca la pienezza della vita. Perché
è in quel rapporto uomo-natura, ancestrale, che si compie la sua formazione. “Davanti
ai miei occhi – sottolinea orgogliosamente – c’è il panorama della
immensa valle di Segesta, il tempio ed il verde e giallo dei terreni della
collina di fronte (…) Ecco perché questo luogo ha il fascino di cui sono
vittima. E mi sento vivo più che mai e parte dell’armonia di quel posto.”
La valle di Segesta, è inutile rammentarlo, ha in
sé la storia e la cultura che hanno formato il sapere occidentale.
Si
capisce così il suo legame con la Sicilia e con la tradizione. Il suo essere
preso in quel vortice magico che è il passato in contrapposizione al piatto e
quasi insignificante presente. C’è tanta nostalgia per quel mondo, per la sua
infanzia, per quell’umanità remota ma ancora viva nel suo animo. Ancora capace
di commozione e di ammirazione. Si comprende allora il perché Galante abbia
voluto rievocare tutto ciò, riportarlo in pagine di diario e trasmetterlo al
fine di non disperderlo e dimenticarsene colpevolmente.
In
queste pagine offerte al lettore si ritrovano gesti e sentimenti ormai desueti.
Quando ad esempio Galante descrive il lavoro che il nonno e lo zio fanno nei
campi, la loro attenzione quasi religiosa nei confronti dei prodotti della
natura; quando raffigura i suoi compiti mattutini – rassettare la stalla, dar
da mangiare alle galline, ripulire l’aia –; quando mostra la nonna intenta a
preparare il pane da infornare, o a coltivare l’orto, o a preparare la cena; si
ha come l’impressione di essere lì pure noi a gustare di quei momenti, a
sentire quei sapori, a godere di quegli odori.
Né va
dimenticato l’affetto reverenziale che Gianfranco nutre nei confronti dei
propri genitori, più volte rammentati e portati in palmo di mano. Grazie a
loro, oltre che ai nonni e agli zii, il viaggio della memoria acquista
significativamente valore. La sicilianità ha uno scatto intenso, duraturo nel
tempo. Ritrova la continuità dell’oggi, sia pur diverso, sia pur, forse, meno
brillante e appassionato dell’ieri. Ma l’ieri è servito per crescere, per
conoscere e conoscersi, per preparare i muscoli per l’oggi. Per questo non va
dimenticato. Ma scritto e tramandato. Fosse anche solo per sé.
Enea Biumi
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