mercoledì 26 febbraio 2020

Annitta Di Mineo, Il tempo non ha rughe, C.A.SA. edizioni, 2018




Il titolo di una silloge, solitamente, apre uno spiraglio sul contenuto. In questo caso la chiave che spalanca la comprensione dei versi è il termine tempo, da una parte, e rughe, dall’altra. Ed il tempo, in effetti, sta da trad union a tutta la raccolta, che ha, tra l’altro, come sottotitolo “poesie del divenire”. Si intuisce immediatamente, allora, come il cuore di quest’opera sia uno scandagliare in tutti i suoi aspetti la forma “tempo” e si capisce come mai l’assenza di rughe sia un elemento essenziale per poter analizzare e, in ultima analisi, tentare di comprendere l’andare delle cose. In tal modo, e solo in questa prospettiva sembra affermare Di Mineo, la poesia recupera il divenire e tutto ciò che si affaccia sulla soglia del tempo, sia esso insito nel microcosmo personale della propria ed intima esperienza, sia al di fuori di se stessi nel macrocosmo che ci sovrasta e col quale, volenti o nolenti, dobbiamo relazionarci. In una scrittura sostenuta dall’essenzialità linguistica e sintattica, opportunamente orchestrata in versi lapidari che danno la misura dello scorrere veloce della vita, la poetessa ci conduce entro linee ed orizzonti metafisici dove possiamo confrontarci con sensazioni che sicuramente vanno al di là del puro dato prammatico. Non si tratta solo dell’antico assioma ruit hora, (“Ore minuti secondi/ scivolano via/ irreali”) bensì di una ben più complessa introspezione, che segnala una dialettica tra l’autrice e il tempo. Non è un caso che i primi versi affermino apoditticamente “Creo il tempo/ per la mia crudele lucidità”. L’aggettivo crudele ci spiega che non è un compito facile. Anzi. Meditare fa male. Fino alla crudeltà. Ma nello stesso istante ci si mantiene lucidi, cioè consapevoli, perché portare alla luce l’iter della propria esistenza diventa operazione necessaria, momento non procrastinabile, cartina di tornasole. Ecco allora che quasi nervosamente, a scatti si potrebbe ipotizzare, avanzano nella prima parte della silloge, sottotitolata appunto tempo, lacerti di immagini che illuminano il passaggio per poi immediatamente spegnerlo: è un incessante accendersi e spegnersi come quei fari sui campi di prigionia che di notte ispezionano il confine. “Il tempo mia dimora / scippa ricordi desideri”. Ma è necessario proseguire. Non ci si può far sopraffare. Bisogna vincere il tempo. “All’uomo clessidra/ il granello/ che lo separa dal nulla/ non sembra più infinito”. Per questo il dolore va esorcizzato, in ogni sua forma, sia per la morte, sia per l’amore. E giungiamo alla seconda parte della raccolta (dolore) dove l’esame delle pagine ci induce a vagliare gli aspetti più personali della poetessa: l’amore e la morte, in primo piano. E bisogna subito constatare che non c’è disperazione, non ci sono ineluttabili drammi, ma realistica visione. Se c’è urlo, si tratta di un urlo soffocato che comunque non strazia “soffro senza menzogna”; “piango / per restituirmi al presente/ per conciliarmi col passato”. La condizione è sempre e comunque il dialogo, il desiderio di condivisione e mai di divisione. Microcosmo e macrocosmo si uniscono alimentandosi l’un l’altro: “Silenzi/ passaggi obbligati/ tra uomo e creato”.  Nel momento raziocinante della consapevolezza ci si immerge in una specie di vasca purificatrice, come per declinare colpevolezze che non sono nostre, ma del destino: “Il destino s’annuncia/ vacillo/ coi piedi d’argilla”. Superati gli scogli del hic et nunc ci si apre all’infinito. E’ la terza parte della silloge (infinità) che si dispiega nella realtà quotidiana solo apparentemente, perché non ci si può soffermare a lungo su di essa, la poesia deve andare a captare sensazioni extrasensoriali, cogliere nella finitezza delle cose l’infinito del tempo.  Incontriamo qui le liriche più personali e, per così dire, intime dell’autrice. Di Mineo si mette a nudo davanti al lettore. Gli comunica le proprie angosce, i propri dubbi, le proprie esperienze, ma senza esasperazione. Rischierebbe in altri termini di deviarne l’attenzione e delimitarne l’orizzonte di interpretazione. Attraverso un sapiente dosaggio, invece, la poetessa ci offre i suoi sentimenti con semplicità ed autorevolezza. Quell’autorevolezza che le viene dal saper limare i propri versi con maestria e lavoro consapevole di cesellatura, privo di retorica ampollosità, conscia di una responsabilità sintattica e formale. Non troveremmo altrimenti alcun interesse o alcun feeling in questo iter poetico, che intende superare i confini del finito per farsi oggetto e soggetto, personale e impersonale, materia e spiritualità, dove in un’estrema sintesi la poetessa confessa: “finzione e realtà coincidono”. Il tutto riassunto in quell’ossimoro finale – uno schizzo veloce e illuminante – che recita: “chiarore/ nel cielo del tramonto”.
Enea Biumi

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                              

martedì 25 febbraio 2020

Paolo Ruffilli, “Le cose del mondo”, (Mondadori Libri, 2020)


La memoria rievoca una essenziale definizione di esperienza che ci veniva ripetutamente citata presso l’istituto di Estetica dell’ateneo bolognese: “quella infinita serie di relazioni tra ciò che diciamo io e ciò che diciamo mondo”; così nella partitura più vasta espressa dalla neofenomenologia critica che aveva in Luciano Anceschi un maestro esemplare. Nello stesso ateneo si è formato anche Paolo Ruffilli, nome tra i più noti della odierna poesia italiana, autore di numerose opere poetiche, ma anche esiti in narrativa, biografie, curatele. “Le cose del mondo” si propone come un sorprendente risultato frutto di un vero e proprio “work in progress” durato dal 1978 al 2019, parallelamente agli altri lavori dell’autore. Sempre e comunque con la preoccupazione di mantenere un preciso filo conduttore in tutta la sua stesura quarantennale, quale opera poematica di certosina attenzione verso il concreto mondo delle cose, nei continui rimandi e rispondenze attraverso il linguaggio poetico. Sì, per Ruffilli, la parola viene da lontano, da un’origine che chiede ricerca ed esige un vocabolo poetico che si sceglie perché in quel caso non sostituibile con nessun altro; che si carica di valenze tali da rendere la parola, nell’occasione, necessaria. La particolare limpidezza del verso breve caratterizza una scrittura che ha trovato riferimenti nell’opera di poeti come Gozzano, Montale, Caproni, ma che, innanzitutto, continua ad assimilare le preziose suggestioni che giungono dal sublime magistero dantesco. L’avvio è dato dal tema del viaggio, il senso del rapportarsi alle dinamiche del moto (e del mutamento) attraverso il contatto con i luoghi, gli spazi. “E’ proprio andando che si capisce/ qual è il rovesciamento di ogni prospettiva./ Perché, restando fermi, sfuggiva in pieno/ che è una questione del tutto relativa” scrive l’autore, confermando una sua nitida perizia compositiva, inoltrata in un dicibile qui però reso capace di oltrepassare l’osservazione iniziale, consueta, ed elevarsi ad un timbro che cerca l’immaginosa verità della parola, in attuazione di sensibili rimandi fonetici e severa accortezza nell’uso calibrato della rima. L’elemento visivo si fa evidente confermando il dato e nello stesso tempo superandolo per tendere ad un intimo significato che non sarebbe stato possibile cogliere in modo così nitido, senza quella particolare sosta linguistica. Ruffilli riesce a creare nella specificità di ogni singolo testo un raro effetto d’equilibrio compositivo che sembra rispondere ad una esigenza di ordine interiore, quasi frutto di una pratica di meditazione. Il poeta si caratterizza nella osservazione minuziosa dei particolari, degli aspetti anche quotidiani che, evidenziati, diventano indicazioni preziose di rimandi a contenuti che lo sguardo consueto abitualmente non coglie. Così come affondare il bisturi negli aspetti più intimi dei rapporti e dei ruoli, delle temibili assuefazioni da evitare attraverso le vitali reazioni di quegli stimoli che concedono rivisitazione fertile dei sensi aperti alla vocazione interrogativa. Tanto più necessaria e terapeutica ci giunge questa poesia, in una stagione epocale che ha da tempo sacrificato tutto l’ambito dell’espressione umanistica a vantaggio di un’arida esaltazione tecnologica finalizzata esclusivamente ad obiettivi economici. La parola poetica può, oggi, anche se da un territorio liminare, esprimere la valenza teoretica di una capacità d’osservazione che si fa conoscenza non del dato in quanto tale, ma del suo significato più svelante, imprevisto e, di conseguenza, del suo destino. E’ una consapevolezza di mistero ulteriore che abita la coscienza, anima un pensiero che “ resiste alimentandosi di niente/ da quel che nel profondo oscuro/ emerge, e sente di essere straniero.../ l’altrove, il cielo...il trascendente”. Così si avvia un confronto serrato e filtrato anche attraverso le cose quotidiane e materiche; enti presenti nella loro natura ontologica e allo stesso tempo resi protagonisti dell’innegabile divenire insito nell’unità dell’esperienza. L’umile bicchiere, ad esempio, “sbrecciato, andato in pezzi dopo essere caduto./ La forma, incontenibile, di un contenuto”; oppure la finestra “filtro di scambio tra il fuori e il dentro,/ tappo dell’immenso espanso a dismisura”, o il letto “porto sicuro e perno del giorno/ che svolta rapace, rotte le sponde/ nel tuffo, nel pozzo, in mezzo alle onde”. Tutto acquista, in questo procedere, un tono sapienziale che rimanda ad intimità ulteriori, a connotati rintracciabili solo superando nettamente il livello della prima ricezione; evidenziando il nostro percepire negli aspetti che sanno riconoscere l’elemento stesso quando si fa strumento, come negli organi del corpo analizzati in una sezione del libro impostata come vero e proprio atlante anatomico, rendendo il dato fisico protagonista di una pagina che ridisegna i ruoli delle sue singole parti. Il centro è determinato da propulsione esigibile e percettibilmente offerto dal flusso del linguaggio nella sua più composita capacità di ricerca, pur all’interno del limite a cui siamo inevitabilmente ancorati dalla nostra natura: “Ecco che di colpo riesco a dare/ corpo all’ombra, si stacca la parola/ dal groviglio e dà forma al fantasma/ figlio del sogno che si sveglia/ e respira il respiro della vita/ con il suo peso e con la meraviglia...”. Paolo Ruffilli ci confida, con questo suo articolato lavoro, la vocazione insita nella profonda maieutica che cura, reinterpreta e interroga le cose del mondo.
        Andrea Rompianesi
 

domenica 23 febbraio 2020

Daria Lapi, Rime Libertine, Menta&Rosmarino Editore, Caldana Di Cocquio (Va)


Con un’epigrafe apodittica di Oscar Wilde (Non esistono libri morali od immorali. I libri o sono scritti bene o sono scritti male) Daria Lapi ci mostra la strada da percorrere per la sua nuova silloge poetica “Rime libertine”. Infatti, sebbene la maggior parte dei lettori si rivolga prevalentemente al contenuto di un testo, non può esistere poesia senza un’adeguata e corretta forma. Saremmo di fronte essenzialmente ad un bel pensiero. Nulla più. Una lirica per essere tale, oltre all’emozione che suscita, deve possedere una sua intrinseca musicalità. Non si chiamerebbe lirica, altrimenti.Fatta questa premessa, d’obbligo visto l’autorevole esergo, mi soffermerò innanzitutto sul sostantivo (rime) per analizzare nel prosieguo l’aggettivo (libertine).
L’autrice utilizza in pratica quattro forme di metrica. La più usata è quella che insiste su quartine di endecasillabi. Troviamo poi il settenario ed il senario doppio. E infine il settenario semplice. Le rime sono in prevalenza o baciate o alternate e si possono considerare ad libitum, a discrezione della poetessa. Una vivisezione così certosina dei versi non vuol essere solo mera retorica. La forma infatti ha il preciso compito di alleggerire lo scritto rendendo maggiormente fruibile il contenuto. Oltretutto il modus operandi disvela una capacità poetica non trascurabile ed una facilità di scrittura non indifferente. Le quali cose, congiunte, fanno di Daria Lapi una scrittrice da non sottovalutare. Detto ciò vediamo dove ci conduce l’aggettivo “libertine”. E bisogna subito notare come la letteratura occidentale fin dalle origini abbia sempre avuto in sé una pagina a parte riguardante il microcosmo del sesso e dell’erotismo, vissuti naturalmente secondo le epoche e le filosofie imperanti. Se si pensa poi a quello straordinario libro della Bibbia che è il “Cantico dei Cantici” non possiamo sicuramente cestinare o relegare ad opera secondaria uno scritto che parla dell’amore carnale hic et nunc. Non sto a citare la cultura greca o romana, sicuramente in antitesi a quella cristiana, ma basta ricordare quei liberi pensatori, nati proprio nel seno della civiltà cattolica, che hanno contribuito a restituire all’uomo ciò che, per motivi qui non sindacabili, l’uomo aveva perso. Mi riferisco a un Cecco Angiolieri, a un Ciullo d’Alcamo, a Boccaccio, a Pietro Aretino, a Ruzzante, al veneziano Baffo, al nostro Carlo Porta, tanto per rimanere nell’ambito italiano: l’elenco è sicuramente incompleto e non esaustivo. Se però ci fermiamo alla superficie del termine libertine, sia pur con tutti i riferimenti sopra citati, non riusciremmo a comprendere fino in fondo il pregio di queste liriche che Daria Lapi ci propone. In effetti, le sue poesie sono un gioioso e spensierato percorso dell’eros in tutte le sue implicazioni e applicazioni. La sua franchezza e schiettezza ci allontanano da una non ben celata pruderie che, senza volere, potrebbe ancora abitare negli anfratti della nostra anima. La poetessa strizza l’occhio al lettore non tanto per trascinarlo a sé in una specie di captatio benevolentiae, visto che l’argomento è di quelli, anche al giorno d’oggi, tabù, quanto per ricreare il gioco dell’amore sensuale in tutte le sue sfumature. Ecco allora che nascono l’uccellulare, il lamento dell’onanista, la pillola blu, la cintura di castità e tante altre situazioni che descrivono in una specie di girotondo della ruota della fortuna l’abbandono e i desiderata del piacere. Ma non c’è solo spensieratezza e voglia di vivere – che sarebbe già tanto fra i poeti, poiché i componimenti dei più si inalberano sulle maggiori, insanabili e tristi malinconie, votanti al suicidio – bensì uno sguardo attento ai falsi moralismi, alle menzogne pubbliche che in privato diventano vizi, alla condanna di ciò che non è genuino e sincero: come l’eros, appunto.Citerò solo alcuni versi esemplari per non privare il lettore della bellezza e spontaneità di tutta la raccolta. Sentite qua: E’ meglio certo la masturbazione/ piuttosto che l’usanza di quei frati/ che, nel segreto della confessione, / fanno la festa ai giovani sbarbati. Oppure questi altri: Al giorno d’oggi capita sovente, / che qualcheduno non di primo pelo/ si creda ancora d’essere attraente/ anche se invero è tutto uno sfacelo. Od anche questa quartina tratta da “La cintura di castità”, e finisco: “Fatemi obliare tosto, Magnifica Eminenza,/ d’avere lungamente patito l’astinenza/ e dopo questo sfogo, con grande devozione/ vi chiederò di darmi la vostra assoluzione.” Rara avis, è il caso di affermarlo, questa silloge di rime libertine.  Dal punto di vista formale la si può avvicinare ai classici rivisitati in un linguaggio moderno. Dal punto di vista contenutistico mi fa ricordare i versi finali di una canzone di Georges Brassens, tradotta in italiano da Fabrizio De Andrè e nel nostro dialetto da Nanni Svampa, a proposito di una prostituta che sale in paradiso: qualche beghino di questo fatto fu poco soddisfatto; dumà i bigott disen de no, la ghe va minga giò.

Enea Biumi







mercoledì 5 febbraio 2020

Paola Pansa - Il destino, il sogno. Genesi Editrice, Torino, 2019

La realtà poetica ha numerose sfaccettature. Didascalicamente si può decriptare attraverso l’analisi, da tempo codificata, in significato e significante. Ma si farebbe torto al lavoro di Paola Pansa se si usasse solo questo criterio scolastico per esaminare la sua lirica. Parlo di lirica al singolare perché la sua è una poesia che parte da un centro vitale, quale può essere il mondo, e si incanala in tanti rivoli che hanno per oggetto la scrittura e per soggetto l’uomo. O viceversa. Non ci si lasci ingannare dall’io sempre insistentemente presente. Si tratta di un soggettivismo che si irradia nel lettore e che al tempo stesso riflette come in uno specchio le emozioni del momento. Insomma, “tutto è finzione/ ogni cosa/ può essere altrove.” Che significa sostanzialmente tradotto in prosa: attento lettore, non lasciarti ingannare dalle parole, vai oltre, guarda più a fondo della mia scrittura, solo così potrai trovare un segno o il segno della fruibilità dei miei versi. “E faccio dello scrivere/ il proiettile che esplode/ il grilletto premuto a occhi chiusi/ che va dritto a colpire/ pagine e pagine di silenzio”. A volte sembra che la Poetessa giochi e scherzi con noi. Ci introduce in un labirinto dove ad ogni angolo sta scritto “uscita” ma l’uscita non la vedi. Anzi. Ad ogni uscita sta un’altra uscita e tu giri in continuazione, richiamato anche da una scrittura ponderatamente ironica, a tratti parossistica, a tratti icastica in cui il realismo si sovrappone e si coniuga al soggettivismo estremo, dissacrante. “Ma sedendo e mirando/ inconclusi silenzi/ il pensiero si posa/ su un nulla/ che non conosce confini”. Al di là della citazione leopardiana, subito graffiata e forse punita da quel foscoliano nulla infinito ed eterno, il lettore è colto da una specie di girotondo adulterino che lo fa trastullare, come fosse un adolescente disperso in rivoli di pensieri sul futuro, in una lotta dell’oggi mai spenta e mai sopita. Siamo polarizzati in una combine magica e accattivante, rinchiusi in un sogno che anticipa e posticipa. “La mia rivoluzione/ non è un mulino a vento/ l’unica cosa che aspetto/ è che il momento/ diventi maturo”. E a proposito del don Chisciotte, implicito nell’ultima citazione, la complicità con il lettore diventa trasparente reità: “mi credo un nobile cavaliere/ do alla realtà le maschere che/ più si addicono alle mie assurde/ e strampalate imprese”. Quando ero piccolo amavo andare al Luna Park, salire su di un veicolo autotrasportante ed entrare in un tunnel dove incontravo successivamente spettri, scheletri, streghe, pirati e subdoli visi da forca, venendone da una parte attratto e dall’altra respinto. Ne avevo timore, certo. Ma ne ero pure calamitato. Mi pareva di vivere in un incubo, ma ero consapevole della falsità di quel momento e di quegli individui indecenti, lontani dal mio vero ambito quotidiano. Ecco: la poesia di Paola Pansa ti veicola in questo mondo che oggi si direbbe virtuale perché apparente, dove però nulla sembra essere vero. Sembra. Perché i dati della realtà appaiono falsi, scorretti, irrimediabilmente insinceri. Eppure non è così. Come “il fumo della sigaretta/ crea suggestioni/ sul foglio/ che portano ovunque”, così la scrittura per la Poetessa diventa la scusa per confessioni e ammissioni. Non esiste altra possibilità per vivere se non nella poesia e con la poesia. In un gioco di continui echi e rimandi i versi di Paola Pansa hanno la sorprendente leggerezza di una volontà costantemente alla ricerca di qualche misterioso segreto. Infatti “C’è un sempre/ che non trova posto nel tempo/ e vaga nella mente/ smarrito e solo/ come un avverbio/ che non ha frase pronta ad ospitarlo/ un senso ignoto/ anche a se stesso/ un significato/ che tarda ad arrivare”.
Enea Biumi

Pasquale Balestriere, Assaggi critici, Genesi Editrice, Torino, 2018




Si riscontra in questa raccolta di Assaggi critici di Pasquale Balestriere una visione della letteratura molteplice e variegata. Innanzitutto ho notato una conoscenza profonda e puntuale dell’universo oraziano descritto con dovizia di particolari, insistito su aspetti forse meno noti ma non privi di interesse per un autore che al di là dei ricordi scolastici per molti, me compreso, non rientra probabilmente nelle letture quotidiane. Per misurare le qualità della sua introspezione critica basta menzionare i vari capitoletti in cui è suddiviso il suo trattato su Orazio: l’uomo e lo scrittore, il tema della femminilità, la filosofia oraziana, la religione e il motivo simposiaco-conviviale. Ne esce un ritratto a tutto tondo di un intellettuale romano del primo secolo a.c., che accomuna doti e difetti dal punto di vista umano, ma che si eleva considerevolmente come scrittore e poeta. Interessante risulta essere la disanima che l’Autore fa delle opere oraziane intravvedendo e ricercando in esse i punti salienti da trascrivere e far conoscere al lettore. Così vediamo un Orazio umanizzato a tal punto che ci sembra quasi di averlo presente fisicamente, di osservarlo “basso, bruno, tendente alla pinguedine, instabile, iracondo”, di vederlo combattere per farsi largo tra l’intellighenzia del tempo, lui che era nato da un liberto e che per un ventennio non era certo vissuto nell’abbondanza. Poi la svolta nel 38 a.c. quando viene ammesso nel circolo di Mecenate. Ma una svolta che non inficia il suo equilibrio, anzi lo rafforza. Gli stessi suoi amori risultano essere pacati, sereni, trattati quasi superficialmente: si direbbe che Orazio non abbia mai amato veramente. Ciò nonostante il Venosino si circonderà di compagnie femminili, almeno così appare dai suoi versi, per tutta la vita. Non mi dilungherò oltre per non togliere il gusto di una lettura affascinante e accattivante, concretamente viva e densa, facile da scorrere nonostante l’altezza e la profondità della materia e dell’uomo. Allo stesso modo si svolgono le ricerche su altri autori un po’ più vicini a noi nel tempo, quali Dino Campana, Giorgio Barberi Squarotti, Paolo Ruffilli, Pasquale Festa Campanile, ed altri non meno importanti e avvincenti. Da ultimi, ma non meno considerevoli, due saggi: uno sull’accento nella traslitterazione del greco antico ed uno sulla poesia, che ci fanno comprendere, se ce ne fosse bisogno, di essere di fronte ad uno studioso che non si limita a trascrivere o riferire piccole porzioni di letteratura, ma ne compendia e ne approfondisce con rigore e sensibilità tutta una gamma che va dal classico al contemporaneo, dalla poesia alla prosa, dalla ortoepia alla riflessione sulle varie poetiche e sulla loro validità in ambito sociale e moderno.
 
Enea Biumi

sabato 11 gennaio 2020

Nina Nasilli “Prossimità” (Book Editore,2019)



La valenza culturale è saggiamente determinata nel momento in cui sa dirsi prossima. Rinviene eccelsa e sedimentata nel vagito della sensibilità più acuta e divora con occhi dell’intelligenza. Le epigrafi di apertura avranno allora cenni biblici e classici. Qualcosa di vicino, nell’espressione del Deuteronomio, così come ciò che si separa e nuovamente si aggrega, secondo la voce di Eraclito di Efeso. Si avvia con un tono davvero alto la poesia del libro “Prossimità” di Nina Nasilli. E’ una corrente poematica in verticale che evoca assunzioni e svolte a contatto con un’ontologia imprevista...”si principia sempre da un caso/ come le cose che appartennero, il pensiero/ che le tocca”. La percezione deterge una pluralità di stimoli naturali e riferimenti intertestuali, quasi che il vigore della nitidezza filtrata possa annunciare imminenze e svelamenti, fremiti e passaggi, ferite e rifioriture, per citare un titolo che fu di Giuseppe Conte. Si sviluppa un flusso che accompagna nelle veglie di deserto, nelle radici profonde, tra memorie che irrompono e tenerezze che disarmano. L’umano contende al ritmo delle sillabe la potenzialità della scolta e l’attardarsi di un ritorno. Molti i riferimenti letterari e pittorici, da Arthur Rimbaud e Amelia Rosselli a Giacomo Balla e Umberto Boccioni, attraverso un intrecciarsi di stimoli e rimandi veicolati dall’intervento di strofe, successioni, timbri anaforici. La sezione “Mente cordis sui” si apre con una citazione da Pessoa e deterge con particolare grazia la prossimità di un sentimento amoroso, per merito della domanda di “un poco di immortalità/ soltanto un petalo/ dorato/ dal sole di un tramonto/rosa”, poiché si evidenzia che “né sempre né mai il presente è adesso”, nel porsi sospensioni che coinvolgono Bellezza e Spirito, accolgono le compostezze della conciliazione, filtrano e interpretano le ferite primaverili, coinvolgono accenni ad Eliot e Whitman, e su tutto cala poi una passionale intenzione di purificare la colpa da noi partorita, comprendere come potrebbe essere chiamare non più profano ciò che è stato reso sacro, separato dal limite. Ma allora davvero, a differenza di quanto viene sostenuto dai vari percorsi intrisi di materialismo,nessun evento solo umano può dirsi assoluto; così come non c’è esito di salvezza nel solo alveo immanente. Anche ogni traccia di prossimità implica comunque la conoscenza dell’ente che s’incontra, e ciò attualizza la stringente necessità di una rinascita metafisica già attuatasi, tra l’altro, nei primi anni Duemila e più specificamente e sorprendentemente in ambito analitico (ma non solo, se pensiamo ad un’opera come “Il frammento e l’Intero” di Carmelo Vigna). Gli enti prossimi rimandano al senso più profondo di un essere che sa dirsi Essere e può nominare, chiamare a sé le cose, rivelarne la partecipazione. Nina Nasilli si muove con acutezza e perizia “tra una certezza/ di finalmente esistere/ e un’altra”, dove sia infine un’acqua di valenza intima e nello stesso tempo emblematica, a lavare dai lutti; a rigenerare le vicinanze patite o desiderate, nella sensazione tutta interiore ma resa visibile dalla scrittura, di un’anima capace di vedere la notte con occhi non corporali, come rappresentò nel brano di un suo testo John Williams. La sezione “Appunti di viaggio in Amore” coinvolge la potente forza evocativa de “Il libro dell’inquietudine”. Ancora Pessoa, dunque, per inseguire le tracce di prossimità nella coscienza (o incoscienza), scrive Nasilli nelle note, di chi ci ha preceduto. Dimora delle attese possibili, riferirsi all’altro, “prestando l’attenzione dovuta, però/ a questo giocato tra-passare/ che non sia come l’incertezza scoperta/ del bianco d’azzardo/ su una tela grezza d’indugi”; l’autrice si spinge oltre, verso un’acquisizione in tonalità allitterante: “non avverte vertigine/ chi non sfida il vertice:/ fondato così un nuovo Regesto”, un raccogliere quindi, citando l’opera antologica del poeta Massimo Scrignòli. Il percorso strofico in asimmetriche tramature inerpica il dissidio a contrastare passività improprie, volendo determinare invece un’ermeneutica panica, simbolica, evocante il destino maieutico della poesia più duttile e più fertile, quando diviene autentico strumento di conoscenza, nostro scopo antropologico, come affermava Brodskij. La sezione “Domenicali bianchi” è pervasa da ulteriori riferimenti biblici, in particolare dal Libro dei Salmi, in richiesta d’attesa e di sacro avviamento verso auspicio di domanda e confessione...”e dopo i corvi i crocali/ le cornacchie cumane/ i rovi i campi/ dopo i bivacchi i falchi/ le cattedrali”; poi la pagina si fa doppia, intesse un controcanto riflesso che indaga la separatezza rilasciata dalla dialogante ripercussione estensiva apparente quasi come finalità corale, attraverso il pudore, che non è timore, di concedere spazio ad una inquietudine che pungola caparbia e si rinnova, si rispecchia. Il desiderio è oltre, è grato, chiede “che tutto duri/ che tutto sia/ stare a guardarsi/ e-non mancarsi”. Assistiamo, dunque, ad un vero teatro di personaggi che veicolano stimoli culturali innestati nella passione dei sentimenti, nella prerogativa poetica di richiamare alla testimonianza l’accortezza più vigile assorbita dalla pagina nella nudità intima del testo che rinnova riferimenti al “cuore travestito” di Paul Celan e all’amore impossibile espresso da Marina Cvetaeva. Affiora forse, tra le righe, una liminare disillusione? Una traccia di tremore al rischio d’incomprensione? Se l’assenza è, per Nina Nasilli, di noi la più certa prossimità, un passo inatteso potrà forse condurci verso la visibilità di una poesia filologicamente creativa perché liberata dai lacci del solo dicibile, attraverso un ulteriore, sofferto, estremo confronto col Tempo: “ma se tu sei notte/ io, l’ultimo baluginio del giorno/ prima che sia sera”.
Andrea Rompianesi

Guido Bertini: una vita controccorrente


C’era, nella Milano degli anni venti-trenta, un critico teatrale toscano, severo e spesso parziale, che giudicava quasi sempre negativamente le commedie del Bertini. Il commediografo volle allora prendersi la rivincita e in un lavoro dal titolo “Il delitto di via Spiga” (1) inserì una battuta acida contro il critico toscano: “On toscano a Milan o el vend la castagnaccia o el fa el critico d’arte”. 
Alla prima rappresentazione Anna Carena(2), che era la responsabile della compagnia teatrale, fece togliere quella battuta, ritenuta troppo audace, sarcastica, forse offensiva. Il commediografo, alla fine della rappresentazione, andò come una furia nel camerino dell’attrice e gliene disse di tutti i colori. Ritenne quella censura un tradimento da parte della Carena stessa. Volle sapere perché fosse stata tolta la battuta, accusò di irresponsabilità l’attrice, le tolse la fiducia, il saluto, la stima. Cosicché nella seconda rappresentazione Anna Carena reintrodusse quella battuta ed il teatro reagì con grandi risate ed applausi scroscianti. Evidentemente il pubblico stava dalla parte di Bertini. Naturalmente, alla fine di questa seconda rappresentazione, il commediografo si ripresentò nel camerino dell’attrice omaggiandola di fiori e di sentite e sincere scuse per le intemperanze sue precedenti.
Questo episodio, che mi è stato raccontato personalmente dalla stessa Anna Carena, può far intendere quale fosse il carattere di Guido Bertini e la sua notorietà all’interno del pubblico teatrale milanese. Artista e uomo di spirito, qualità ereditate dal padre Pompeo, Guido sapeva riconoscere il merito, conosceva il suo pubblico e soprattutto rispondeva in prima persona di quello che affermava. Affrontava, come si è visto, con grinta e di petto gli inconvenienti e le avversità della vita. Fin da giovane, per esempio, amava cimentarsi con la scrittura, ma alcuni versi che fece circolare gli valsero una perquisizione poliziesca(3) , che lo defraudò per sempre dei molti versi dialettali da lui scritti e conservati. 
Ma non fu solo il teatro la passione e l’interesse del Nostro. Anzi. Il suo approccio artistico iniziò con la pittura: e specificatamente con la pittura su vetro. 
Milanese di nascita (1872) varesotto d’adozione (1907)(4) Guido era discendente da una famiglia che per tradizione eseguiva pittura su vetro(5). Ma la muffola per la cottura del vetro che il nonno Giovanni aveva impiantato in via Guastalla a Milano disturbava e non poco con i suoi fumi maleodoranti e tossici i vicini di casa. Per questo motivo Guido decise di trovare una sistemazione più adeguata al suo lavoro. E la trovò a Luvinate nella cascina Nicò alla Zambella, battezzata ironicamente “Villa Anzone”. Qui si dedicò alla sua arte e qui, negli anni del primo novecento divenne ritrattista riconosciuto ed in seguito, negli anni venti e trenta, commediografo rinomato.                                       
I suoi ritratti sono per lo più raccolti in collezioni private(6), ma alcune tele le possiamo ammirare anche a Villa Mirabello. In alcuni di quei dipinti Bertini sottolinea non solo il carattere del personaggio ritratto bensì l’ambiente che lo circonda, attraverso sfondi che ne fanno intuire la locazione sociale. E sono specchi dorati, ampi e confortevoli divani o caminetti. In altri ritratti le figure risaltano per se stesse, nel loro aspetto psicologico e umano. In tutti si nota il realismo di fine ottocento, sicuramente non fine a se stesso e comunque sempre attento a raffinarsi e mai ripetitivo. 
Per questo, una volta insediatosi in quel di Luvinate e trascorrendo il suo tempo libero a Varese, ben presto entra in contatto con il panorama culturale varesino di quegli anni e diventa amico e sodale con i pittori De Bernardi e Montanari, lo scultore Scola e il poeta Speri Della Chiesa(7), diventando socio degli Amici dell’arte.
Tralasciando l’arte poetica di cui ci rimangono solo alcuni sonetti(8) mi soffermerò ora sulle caratteristiche della sua opera teatrale che ha avuto, ed ha tuttora, parecchio seguito, soprattutto tra le compagnie dialettali amatoriali. 
Quando nel 1923 viene messa sulle scene la prima commedia del Bertini(9), il teatro dialettale Milanese era in una fase quasi di completo stallo. Erano scomparsi, infatti, i grandi nomi di Cima, Cletto Arrighi, Bertolazzi, Ferravilla, Illica, Sbodio, Giraud. Ma la ricostruzione non tardò ad arrivare anche grazie al Nostro. Tra l’altro l’impiego  del dialetto gli fu   provvidenziale. Fu una scelta culturale e politica al tempo stesso. Non fu però una posizione ideologica la sua, bensì artistica.
L'uso del dialetto  gli derivava dalla sua esperienza quotidiana (nonchè dagli amici che lo circondavano e lo spronavano – in primis Speri Della Chiesa) formava un tutt'uno con la sua esistenza e con la sua biografia: sua e dei personaggi delle sue commedie. Il vernacolo gli permise la garanzia di un giudizio  libero  e illimitato.
E qui ritorna quello spirito giovanile di fine ottocento. Tanto è vero che il protagonista – Tecoppa(10) – diventa eroe degli antieroi, secondo quello che lo stesso Porta sosteneva: la vera scuola era il Verzee, non più la parola, come lo era per alcuni scrittori contemporanei(11), ma la strada, il bistrot, la gente. In effetti il suo Tecoppa è un Andrea Sperelli in negativo. Sperelli nasce all’interno di un’aristocrazia estetica ed elitaria, che si esalta in sublimi Erodiadi, Tecoppa invece vede la luce nelle taverne, fra ladri, ruffiani e prostitute e si circonda di pittori che trovano la loro ispirazione in semplici e vivaci Muffette, illustre sconosciute.
Certo, Bertini non fu il primo a valersi del dialetto. Non fu l'unico. Ma  è proprio nel dialetto che si ritrova la misura e la forza del suo spirito combattivo, estroverso, caparbiamente originale, attento e duttile  nel dar valore agli avvenimenti e alla persone. 
Così lo descrive suo cugino Enrico: “uno spirito d'osservazione acutissimo, una spiccata tendenza alla caricatura e alla satira (tendenza che  è, posso aggiungere con cognizione di causa, forse una dote, forse un difetto, ma certamente endemica nella famiglia Bertini), fanno che i suoi personaggi gli nascano nella mente  perfetti, vivi, completi, colla evidenza della più nitida  fotografia; così che (lo dice egli stesso) prestabilita la tela della Commedia e messosi al tavolino, il dialogo sgorga come l'acqua sotto pressione da un rubinetto aperto”.(12)
Un rubinetto aperto, sicuramente. Ma che le autorità del tempo tenevano, come d’uso, sotto controllo. Proprio nel dattiloscritto del Tecoppa, sulla prima cartella, ben visibile si legge: “Visto. Si autorizza la rappresentazione” Il timbro è della sottoprefettura di Varese. La firma del sottoprefetto. La data non si legge(13). Ma un rubinetto dove “balza il carattere completo di questo popolo (milanese) rude e bonario, espansivo se pur alieno da ogni sdolcinatura, arguto, non raffinato ma sempre generoso, franco e leale; qualità che si riflettono anche nella sua più genuina parlata, aspra e potente.”(14)
Non per nulla l’attenzione di un critico importante come Renato Simoni non si fa attendere. Fin da subito ne dà un giudizio positivo, anche se non esaltante. Indubbiamente Bertini non è il principale protagonista della commedia italiana: ne è semmai uno dei protagonisti, sia pur appartato in una scrittura che vuole riportare i personaggi alla dimensione reale. In una dimensione che dà spazio ai tradizionali caratteri e valori della commedia italiana. Vale a dire: la maschera, l’imbroglione, il povero, il pazzo, il ladro, l’ingenuo, l’onesto, il vero religioso ed il ‘tartufo’, la serva padrona, la moglie sottomessa. Il tutto sottolineato o meglio inquadrato in uno spazio comico, a volte sarcasticamente amaro, a volte ironico, a volte burlesque tout court.
E il comico è l’elemento che lega ogni sua commedia. Il filo rosso che fa riconoscere Bertini commediografo brillante e divertente, secondo quella massima antica che dettava: castigat ridendo mores. “Ma scrivv di comedi alegher – dice il pittore Brugnetti al tragediografo e necroforo Squassi ne El delitt de via Spiga – che la gent la ven a teater per desmentegà i so cruzzi e minga par caragnà a pagamento!”. E pare proprio essere lo scopo e il fine del lavoro del Nostro questa scrittura divertente. 
Ne El diavol el fa i so pass(15) Bertini si permette il lusso di scherzare con la burocrazia.
“All'inferno non può mancare la burocrazia in quanto è un atroce tormento dell'umanità. Come non possono mancare la Radio, l'arte del Novecento, i ragionieri intellettuali e le discussioni sulle partite di footbal. Lo  diceva anche  il Divino  Poeta:  nuovi  tormenti e nuovi  tormentati”.
Sempre nella stessa commedia un fotografo esploratore si presenta dicendo di aver vissuto tanto “cont i miliardari american che spendeven un patrimoni, come coi selvaggi delle isole Flegee che gh 'hann l'abitudin stranissima  de mazzà e de  mangià  i so parent  quand  diventan  vecc.... Infatti “giò là te vett magari a fa visita in d'ona famiglia  e te ghe domandet: "Come sta el papà?" "L'è su ch’l cos” risponden". "La mama?" "L'hann fada  andà  ier cont  i erbion!"”.
Logicamente i suoi personaggi vanno inquadrati nella mentalità del tempo. Non poche battute di Guido sono, ad onor del vero, maschiliste per la mentalità moderna. Ma anche queste appartengono al personaggio di Bertini che, seduto ad un tavolo sotto i portici, che oggi vanno sotto il nome di Corso Matteotti, apostrofava l’allure di una giovane donna così: che bell’andare di corpo che ha signorina
Ne El delitt de via Spiga quando si rimprovera al medico di aver redatto un certificato di morte per una defunta che risultava invece sana e vegeta, lo stesso così risponde: “Se gò da savè mì. Ho vist che la parlava pu; e quand ona dona la parla pu, al voeur dì che l'è morta”. Lo stesso dottore, un po' becero per la verità, insiste e si difende dicendo: “Ma come l'è mia morta?  perfin fatta la dichiarazion” Al che la presunta morta dice: “Lù al fa semper ul bamba sui scal, ma de dichiarazion  a mì  ma n'ha  mai faa”.
In Pronta cassa(16) il professor Livio Fontanella dà un consiglio ad un suo carissimo studente, Nino Caccialanza, vivo per miracolo dopo un tentato suicidio causato da  una  disillusione  d'amore. “Se dev ragionà e concepì l'amor in d'ona manera sana e positiva, senza i morbosità della letteratura de cent ann  fà. Te set no che Werter e Jacopo Ortis hann impienì i cimiteri de giovinott pussè dell'artiglieria in l'ultima guerra?”  E ancora: “L'amor l'è una merce come un 'altra. Come  po vess el vin, la marmellada ... Merce gustosa che ne procura on godiment. E el godiment bisogna pagal”. Infatti secondo il professore: “Tutt i donn ciappen danee, basta daghen ... L'è question de tariffa”. E per di più “i donn quand gh 'ann   on mort al sò attiv, alzen la tariffa con quel che venn dopo!”. Perché “L’è onest quell che disi e l’è iniquo pagai no i donn… Pensa ai spes che incuntren i donn per piasegh ai omen. Spès d’impiant, spes de esercizi, spes de manutenzion”.
Sono cambiati i tempi, è vero. E’ cambiata la mentalità. Sono cambiati i costumi. Ma “El zio matt”(17) rimarrà sempre nella nostra mente come colui che ha la capacità di trasformare i sogni in realtà. Che giudica secondo giustizia e non secondo interesse. Così come l’Isolina ne “La man in del foeugh”(18), una serva padrona che arriva addirittura, in combutta col suo amante, a rubare al padrone. Né possiamo dimenticare il personaggio di donna Valeria de “L’anima travasada”(19), ingenuamente amante, ingenuamente persa, ingenuamente raggirata, prima da uno pseudo spiritista, poi da un concreto bottegaio. Non per nulla questa commedia vinse il primo premio.
Ecco spiegato allora il perché di Bertini come commediografo controcorrente. Le sue commedie, anche se di sapore ottocentesco – questo è indubbio – apportano una visione della società che non era sicuramente quella ufficiale dei suoi anni. E Guido stesso insiste nel dramatis personae a sottolienare come la trama si svolga ‘ai giorni nostri’. Proprio perché vuol dare una svolta a quella società patinata che andava per la maggiore, ma che maggioritaria non era. 
Controcorrente, dunque come commediografo, ma controcorrente anche nella vita. Forse per questo non era molto amato proprio da quelle persone che lui stesso difendeva sul palcoscenico. I suoi compaesani lo vedevano al di fuori della realtà, non ne capivano l’atteggiamento, lo osservavano da lontano con malcelata diffidenza, lo schivavano come fosse un pazzo. Proprio come quello zio matt che fa del bene senza essere né frate né prete. I famigliari dello zio matt infatti non lo comprendono. Non lo vogliono. E’ al di fuori della loro portata. Al di fuori di tutto. Così come Guido non era compreso dai suoi concittadini perchè al di fuori da ogni schema prestabilito. E si sa come una civiltà contadina, qual era quella di Luvinate nella  prima metà del Novecento, sia radicata alle tradizioni e al passato.
Bertini, e quella sua anima contestatrice innata, ci lasciò il 3 giugno 1938(20), ma le sue commedie e i suoi dipinti rimangono a testimonianza della sua arte. “Se ne era andato silenziosamente – scriverà l’amico Montanari – come quando scompariva alla svolta di uno dei vicoli di Varese, alla ricerca di qualche nuovo spunto per il suo umorismo. Non lo avremmo mai più rivisto aggirarsi per i vecchi portici, curvo, trasandato, col cappellaccio sulla nuca, quasi piccola beffarda feluca che lasciava sfuggire il ciuffetto di capelli incollato sulla fronte napoleonica, impugnando il nodoso bastone dietro la schiena come lo scettro di una dinastia ormai scomparsa: quella dei fertili ingegni. Ma il suo amore alla natura e il suo temperamento schivo ai compromessi sociali l’avevano condotto nella calma solitaria e scontrosa del suo rifugio agreste.”
Controcorrente, appunto.
 
Enea Biumi 
Note
1)       “El delitt de via Spiga”. Tre atti. Commedia giallastra. Sui cartelloni il titolo appare in italiano Il delitto di via Spiga”, a causa degli ordini emanati dall'allora regime fascista che proi biva ogni manifestazione teatrale in dialetto. Ma cambierà solo la facciata, cioè  il  titolo, rimanendo in vernacolo tutto il resto. A portare sulle scene la commedia, rappresentata per la prima volta nel 1934 al Teatro di Porta Venezia, sarà la compagnia di Anna Carena, che avrà al suo fianco i bravi : Ravel, Feldmann, Rinaldi, Zeni, Allegranza, Zanoletti e Granata. La commedia, satira del genere “giallo” già allora imperante, otterrà molti consensi. Verrà ripresa nel 1944 da Giuseppe Adami, che guiderà la Compagnia Città di Milano. Nel 1948 “El delitt de via Spiga” viene rappresentata all'Olympia, nel 1949 all'Excelsior (regia di Nino Besozzi), nel 1956 all'Odeon con la Compagnia del teatro Milanese guidata  da  Luciano Ramo.
2)      Anna Carena, nome d'arte di Giuseppina Galimberti (Milano, 30 gennaio 1899Milano, 15 aprile 1990), ancora adolescente debutta in teatro, contro la volontà del padre, nella Compagnia di Annibale Betrone. Alla metà degli anni '20 recita con Luigi Chiarini e Uberto Palmarini. Alla fine del medesimo decennio è prima attrice con Leo Garavaglia e Franco Schirato, poi ancora prima attrice nel teatro dialettale milanese il Principe, affermandosi come una delle maggiori interpreti di testi in dialetto meneghino. Nel 1933 ha una propria compagnia sempre di prosa lombarda, poi si occupa di teatro delle marionette al Caffè Campari. Nel 1941, debutta nel cinema in Piccolo mondo antico, regia di Mario Soldati. Reciterà poi in circa 30 pellicole dove apparirà quasi sempre in piccole parti di caratterista, diretta prevalentemente da grandi registi.
3)      Era il 1898. Milano viveva in un clima generale di tensione. Il 6 maggio verso mezzogiorno, la polizia arresta sindacalisti e operai. Nel pomeriggio di quella stessa giornata, il governo affida i pieni poteri al generale  Bava Beccaris, decretando lo stato d’assedio della stessa città. Due giorni dopo i cannoni aprono il fuoco contro la folla. Restano uccise centinaia di persone e oltre un migliaio di feriti più o meno gravi. Il 9 maggio vengono sciolte associazioni e circoli ritenuti sovversivi, arrestate migliaia di persone e soppressa la stampa d'opposizione.  Quegli avvenimenti fecero però dimettere il ministro degli esteri Emilio Visconti Venosta, successivamente si dimise tutto il ministero di Rudinì.
4)      Nel 1907 Guido Bertini prende residenza a Luvinate
5)       Uno dei primi lavori, che Guido eseguì insieme col padre Pompeo, fu la ristrutturazione delle vetrate del Duomo di Milano. In una di quelle vetrate (sulla sinistra dell’ingresso principale) pare che Guido imprestò il volto della moglie Rosa per ritrarre Santa Tecla.
6)       Si veda a tal proposito il Museo on line della Fondazione Macchi e dell’Ospedale di Circolo in artevarese.com
      7)   Questo il ritratto bonario ma del tutto centrato che l’amico Speri Della Chiesa fece di Bertini:
Pittor, poëtta e, on temp, fin vedriee,
l'avriss poduu mett su de fa 'l grappatt,
            tant l'è 'l spiret ch'el gh'ha in del fagh  adree
a la gent, con la lengua,  el so ritratt                                                                                   
Per toeuss foeura del mond, l'è andaa a casciass
tra i "praticei coi càper e i  coroll
di fior  agrest"  d'on  sit  sora a Barass
che per  andagh,  se ris'cia l'oss del coll.
(tratto da “Varés di temp indrée” a cura della Famiglia Bosina con prefazione di Clemente Maggiora, Edizioni Lativa, 1993)
8)       Ecco un esempio gustoso e spiritoso di uno dei pochi sonetti rimasti di Guido Bertini: 
 
Al cavalier Bonecchi,  con mezza donzena de formagitt de cavra
 
De quand me son ridott a fa el massee
E a viv in tra i boasc  e la pollina,
Se voeuri fa on regali de roba fina
Ciappi gèner de stalla e de pollee. 
Lù el me dirà che, per sparmì danee
Tratti i amis cont i scart della cusina,
Ma,   quand  el   saggiarà  sta  formaggina,
El dirà pù che l'è on regall a pee. 
El merit l'è di càver che gh'hoo su
Che me procuren tutt sto bell formagg:
El savor, poeu, le ciappa de per lù, 
A pocch a pocch, cont el diventa vecc,
De mì ghe metti: quatter gott de cagg.
E la fadiga de  tiragh el  pecc!
(Paolo Bonecchi era un capocomico che rappresentò quasi tutte le commedie del Bertini)
9)       “El Tecoppa Istitutor”. Tre atti rappresentati per la prima volta al Teatro Sociale di Varese, nel 1923, dalla Compagnia  Teatrale Accademia  Varesina  di recitazione.  Tra i protagonisti si ricorda il dilettante varesino Angelo Orimbelli, nella parte del Tecoppa, che fu lodato anche da Renato Simoni sul “Corriere della sera”. Il 19 dicembre 1930 al Teatro  di Milano per  opera della Compagnia  Bonecchi verrà rapresentata la stessa commedia rimaneggiata col titolo “Osteria della Scaletta”
10)   Il nome di Tecoppa lo eredita da Ferravilla. Ma nella commedia del Nostro il personaggio viene liberato da quella struttura espressionistica, a volte cabarettistica, quasi sempre macchiettistica, che aveva caratterizzato il grande attore. Il Tecoppa di Bertini diventa un antieroe per eccellenza: truffatore, imbroglione, ladro, privo di scrupoli, ma, allo stesso tempo, generoso coi diseredati ed i più deboli.
11)   Si pensi a D’annunzio, o allo stesso Fogazzaro, sotto un certo punto di vista.
12)   Prefazione a “L’anima travasada”, edizione La famiglia meneghina, Milano, 1932
13)   In una nota del prefetto di Como inviata al Ministero in data 29-12-1923 si viene a sapere che le autorità del tempo avevano un occhio speciale per Guido “dilettante scrittore”,  pittore e consigliere della sezione repubblicana di Varese
14)   Orio Vergani, Fortunato Rosti (a cura di) Teatro milanese, Parma 1958
15)   “El diavol el fa i so pass”. Tre atti. Viene rappresentata per la prima volta nel 1935 al Teatro Principe  di Milano  sotto la  direzione  di  Paolo Bonecchi. In seguito  verrà  proposta  anche  al Teatro  Sociale di Varese. La commedia non  ottiene  molto  successo.  Soprattutto  la  critica  rimarrà insoddisfatta del lavoro. Bertini darà la colpa  dell'insuccesso  all 'incapacità interpretativa di alcuni attori della Compagnia Bonecchi. Molto probabilmente la motivazione dell'incomprensione era dovuta al contenuto, troppo “rivoluzionario” per quei tempi. Anche questa commedia  viene presentata  nei  cartelloni  con il titolo  in italiano:  Il diavolo fa i suoi passi.
16)   “Pronta cassa” Tre atti. È l'ultima novità del 1932 che la Compagnia di Bonecchi presenta al Teatro Principe. Tra i protagonisti la brava Anna Carena. Il pubblico accoglie il lavoro con grandi risate e applausi. La critica rimane piuttosto indifferente, se non negativa: contesta il contenuto, a suo giudizio, troppo  “pesante”. La commedia viene ripresa nel 1962 da Carlo Colombo che ne cura la regia portandola sulle scene del Gerolamo di Milano il 10 luglio dello stesso anno con la Compagnia  Stabile del Teatro    Milanese.
17)   “El zio matt”. Tre atti. Viene rappresentata il 25 febbraio 1932 per la prima volta dalla Compagnia Paolo Bonecchi al Teatro Principe di Milano. Accolta favorevolmente dal pubblico e dalla critica, giudicata commovente e divertente allo stesso tempo. La commedia avrà successo anche nel dopoguerra e terrà cartello a Milano tra le compagnie dialettali per circa un decennio. Inizia a riproporla per il pubblico milanese la Compagnia del Teatro Milanese, diretta da Luciano Ramo: è il 10 luglio 1956, al Teatro Odeon.  Nell'estate  del  1958 verrà  portata  al  Manzoni  sempre  dalla stessa Compagnia, che  avrà  in  programma  “El zio matt”  anche  per  l'anno successivo. Nel 1961 sarà la regia di Carlo Colombo a portare sulle scene del Gerolamo la commedia del Bertini. Elio Crovetto (genovese) prenderà il posto di Mazzarella. Al Gerolamo  la commedia rimarrà  in  cartello  fino  al 1965. Nel 1967 la Compagnia del Teatro Milanese appronta una modifica al testo originale del Bertini. “El zio matt” diventa pertanto “Il ritorno del zio matt”. Mattatore incontrastato è Elio Crovetto, la regia  sempre di Carlo Colombo, il teatro dove viene messa in scena per la prima volta è l'Odeon. La critica accoglie con favore la riduzione-adattamento del testo bertiniano, adeguato “giustamente” alla diversa personalità del Crovetto.
18)   “La man in del foeugh”. Tre atti dedicati all'esimia attrice Eugenia Tavoni. Rappresentata  per  la prima volta il 20 marzo 1931 al Teatro Principe di Milano dalla Compagnia Bonecchi. Incontra favori di pubblico e di critica. Renato Simoni sul “Corriere della Sera” loda la sua fluidità nel discorso e la sua sostanza comica. La commedia verrà ripresa nel dopoguerra e data al Manzoni di Milano dalla Compagnia di Luciano Ramo nel 1958. Anche la Compagnia Stabile del Teatro Milanese porterà sulle scene milanesi “La man in del foeugh”, sotto la direzione di Angelo Frattini: siamo nel 1960, al Teatro Pavoni di via Giusti.
19)   “L’anima travasada”. Tre atti. Nel febbraio del 1928 si classifica terza ad un concorso indetto dalla Famiglia Meneghina per una commedia in dialetto milanese. Vince Lire 1000. Un anno dopo, il 19 novembre 1929, viene messa in scena dalla Compagnia Bonecchi al Teatro Principe di Milano. Oltre che al Teatro Principe il Bonecchi farà conoscere “L'anima travasada” anche all'Apollo di Lugano (1933) e al Rossini di Torino (1934). La critica ed il pubblico accolgono il lavoro molto favorevolmente. Renato Simoni sul “Corriere della sera” afferma che la commedia passa “dalla festevolezza scanzonata alla satira”. “Graffia acerbo, con una certa rabbia incisiva”. “Ha un lieto sapore di burla: burla che è tanto più matta quanto si dà l'aria di essere, nei particolari e nel dialogo, cinica”. E Pio De Flavis ribatte sull'”Ambrosiano” che la commedia “rivela, fin dalle prime scene, una fresca e scanzonata invenzione; si può prevederne i movimenti e il succedersi degli episodi, ma nell'attesa non c'è quella stanca indifferenza che provocano spesso le commedie  del genere”. Il 2 marzo 1961, al Gerolamo di Milano, la Commedia viene ripresa e portata in scena dalla Compagnia Stabile Milanese. Verrà data, sempre dalla stessa Compagnia, anche al Manzoni.  La regia  è di Angelo  Frattini.  Fra gli attori: Revel, Mazzarella, Allegranza, Celani, Pogliani, Montini. “L'anima travasada” è l'unica commedia di Bertini  edita. Della  pubblicazione se ne è occupata la Famiglia Meneghina nel 1932, con prefazione di Enrico Bertini,  suo cugino. Orio Vergani e Fortunato Rosti l'hanno ripubblicata e brevemente commentata (importante il glossarietto accompagnatore) in “Teatro milanese”, Parma, 1958. Tradotta in bolognese col titolo “Un'anma tramudà”, venne rappresentata  con  grande  successo  dalla Compagnia  di Angelo Gandolfi.
20)   Mi piace qui ricordare un sonetto che Speri della Chiesa dedicò al funerale di Guido:
         Funeral d'on artista
Hoo assistii propri incoeu, su a la "Zambella",
dessora de Luinaa pocch men d'on mia,
a ona  fonzion  de mort  pur  anca bella
tanto  pienna,  che l'era, de poesia:
sott ai castan, poggiaa su la barella,
on còffen  senza  ornaa  de fantasia
cont  dò cander  e on ciuff  de ginestrella.
L'era  el pittor  Bertin,  che andava via.      
Come càmera ardenta, el castagnee …
el ciel seren sperlaa per  balducchin  ...
e l'erba che faseva de tappee ...    
On pret e on cereghett col sidellin
s'hinn inviaa con tanta gent  adree
per  compagnà  'l poer  mort  al destin.    
 E in d'on boschett  de spin
on rossignoeu  el cantava  apòs, sconduu,
per  saludà  anca lù l'amis perduu! !              
1938
           (tratto da “Varés di temp indrée” a cura della Famiglia Bosina con prefazione di              Clemente  Maggiora, Edizioni Lativa, 1993)
LE COMMEDIE DEL BERTINI (a fianco la dta della prima rappresentazione)
El Tecoppa istitutor (1923)
El menagramm (17 novembre 1924)
On quader antigh (20 maggio 1926)
L’anima travasada (19 novembre 1929)
La miee bruta (3 gennaio 1930)
L’osteria della Scaletta (19 dicembre 1930)
Bottega di bellezza - atto unico – (19 dicembre 1930)
La man in del foeugh (20 marzo 1931)
El zio matt (25 febbraio 1932)
Pronta cassa (1932)
El delitt de via Spiga (1934)
El diavol el fa i so pass (1935)
L’animale di controllo – tradotta da Severino Pagani diventa On animal de control (5 gennaio 1963)  
BIBLIOGRAFIA
GUIDO BERTINI,  Commedie dialettali (a cura della Filodrammatica “F. Volonterio” di Luvinate) con note biografiche di Natalina Conti Avigni e Introduzione di Giuliano Mangano, Nicolini Editore, Gavirate, 1985
GUIDO BERTINI - L'anima travasada , ed. La Famiglia Meneghina Milano,  1932 (presentazione  di  Enrico  Bertini). 
ORIO VERGANI,  FORTUNATO  ROSTI  (a cura di) -  Teatro  Milanese, Parma, 1958.
LAMBERTO SANGUINETTI  - Il  teatro dialettale  milanese dal XVII  al XX secolo, Milano,  1966.              
SEVERINO  PAGANI  -  Ciao Milano,  Milano  1978.             
CARLETTO COLOMBO - Storia del teatro dialettale milanese , Milano, 1981.
RENATO SIMONI – Teatro di ieri, Milano, Fratelli Treves Ediotri,1938
RENATO SIMONI – Trent’anni di cronaca drammatica (cinque volumi), Società Editrice Torinese, 1952-1960
AA.VV.  - Il  teatro milanese.  Piccola  cronistoria , Milano,  1927.
AA.VV.  - Enciclopedia  Garzanti dello Spettacolo.
AA.VV.  - Enciclopedia  della Letteratura  Italiana , Novara,  De  Agostini .
RENZO ROCCA – La Prealpina, 31 gennaio 1982
GIULIANO MANGANO – Tracce, aprile 1984
           
 
 
 
 
 

Michele Prenna, Le parole cercate, Macchione editore, Varese, 2005

  UN REGALO DI PAROLE, MA NON SOLO È con vero plaisir che ho letto questa silloge di poesie regalatami dall’amico Michele. Veri e propri rit...