venerdì 7 ottobre 2022

Alberto Mori “Dettagli Fuori Campo” (Fara Editore, 2022)


 

Il dettaglio è innestato nella rapidità fluida dello sguardo che percepisce, registra, comporta le sezioni e le tonalità evidenti nella compostezza della collocazione in spazi adibiti a scenario. Già il primo testo di questo esito di Alberto Mori, poeta e performer dei non luoghi urbani, “Dettagli Fuori Campo”, la poesia che avvia la prima sezione annuncia una versificazione calibrata nella tenuta delle strofe. Culmina aprendosi un varco, l’espediente pronto a raccogliere il minimo, quotidiano, concreto evento: “Avanzando nel ronzio acuto/ il taglio dell’affettato/ deposto disteso/ a rilascio della pinza/ ricopre il foglio”. Alberto Mori scolpisce la realtà togliendo il prevedibile e rendendo nitido il particolare anche periferico ma svelante. Ci sono accorgimenti graficamente incisi sulla pagina a rivelare le fissità inagibili, le distinzioni dei caratteri affioranti dalle luminosità in evento, con “Intermittenza fioca/ d’arancione diluito”. Il minimo accadimento è conforto contestuale a vocazione d’argine per la difesa occorrente, quando l’episodio rischia d’indicare l’eclissi ontologica. La risposta di Mori è contingente, materica, ostinata nella iterazione dei referenti; comporta l’azione dicibile, la risposta provvisoria ma tangibile. Poi, però, qualcosa insinua il dilemma e il segreto; “Nel buio nascente/ appaiono due pianeti/ allineati in segmento cosmico”... dove l’evanescenza tace e allora si dispone una progettualità onerosa, una configurazione evoluta dalla prossimità estensiva, come “Quello che era stato/ oppure poteva essere// Spazio esteso/ Pianura percepita”. E fuori campo continuano a scandirsi i passaggi alle attenzioni, nella seconda sezione del libro, dove gli anfratti tenui sono opposti ritagli alla condensazione condotta oltre i sintagmi diffusi, operanti nel solco del commento fulmineo, intonato sulla prospettiva di un cenno suggestivo all’evento reso tale, composto nel fotogramma: “Corpo per aria sola/ Respiro risacca mare”. Molti gli elementi e i temi della poetica di Mori che qui ritornano e rimarcano la centralità del passaggio o, meglio, della successiva sosta concentrata nella ricezione sensoriale capace di trasmettere sussulti episodici. Le tensioni vitali rimarcano l’ossessiva presenza delle cose che ritornano, della fisicità acquietata nella posizione inerente a ciò che appare. L’apertura indugia su prospettive ritratte ed estrapolate al fine di una evidenziazione concentrata sul dato colto e individuato come inquadratura: “Tempo limite d’orizzonte/ La ripresa in campo lunghissimo/ avanza nel presagio della prima pioggia”.Richiesta che Alberto Mori pone al reale di un contesto colmo di effetti stimolanti energie che il poeta trasforma in indizi linguistici capaci di far emergere la parola esatta; qualcosa allora si rifletterà nell’oltre che si origina dalla calibratura attenta del verso breve.

                                                                                                           Andrea Rompianesi

 

 

Davide Racca “L’ora blu” (Anterem Edizioni, 2022)


 

Perché blu l’ora? Perché l’attesa nel frastuono muto degli elementi, della condensazione accumulante effetti percorribili e tardi? Così incespica l’accorrere ai dettagli, ai disadorni passaggi delle travi. Ma poi è ondivaga risposta la permeante postura che incide il solco nella traccia dell’ora. “L’ora blu”, appunto, è il titolo dell’esito poetico di Davide Racca. Le corrispondenze si accumulano in un tentativo linguistico arduo e distinto, materico e abissale. Attonito conduce il mirabile esordio della domanda inesausta, d’accenno e riprova, a desiderio d’intero. E l’intero, per sua natura inalienabile, non può esserci restituito dalla morte, in quanto essa è assenza e l’intero invece richiede ed esige una presenza assoluta...”le dita aperte/ scheggiate/ la morsa, le lunghe stasi/ (e si comincia sempre/ a ricominciare)”. Davide Racca chiede una direzione d’alba, una distrazione dai cardini, gli estremi riproposti in sentenze acquisite, nello iato sospeso, “o un punto qualsiasi/ fuori del mondo”. Attraverso la solidità dei frammenti, il percorso tende al senso, vocazione dell’ortodossia filosofica che non può certo ignorare la tensione all’essere e, quindi, la domanda metafisica (da troppi fronti messa a lato per deformazioni ideologiche). Certo la luce individuata da Racca è “rabbiosa tra i solchi”, imprime sonorità di sinestesia occhieggianti il diradarsi di mutamenti nella peculiarità dei corpi fisici. Così “un brivido sul dorso dell’acqua/ rompe la linea degli argini”; come zone sottratte ai deserti se non per accumulo di sedimenti e rilasci, cedimenti perturbanti in odore di miscele fonetiche essenziali nella verticalità dei versi. “Quando lo spazio si spezza/ e tutto finisce (come tutto/ finisce) nell’eco// ecco/ steli ricrescono...”; l’ora acconsente al blu della sera che inoltra la persistente richiesta in dimora costante e caparbia. Quell’attenzione alla reiterante analisi di partizione in essenza ed esistenza, in possibilità e attualità, continuamente riaffermata e ridisegnata in ulteriori accezioni (un riferimento è, ad esempio, la riflessione di Giorgio Agamben). Davvero, in questa fase, nel lavoro di Racca, è ben visibile il senso del fare poesia e la natura più intima della poesia stessa quale ricerca nel linguaggio. Realtà che abita lo spazio della pagina e coniuga le espressioni significanti. Oltre il dato percepito, l’accumulo sonoro è intarsio nello sforzo scritturale coniugato alla vocazione evocativa che si libera di scorie superflue e seleziona, nella dimensione assertiva, l’intelaiatura minerale. C’è un silenzio di ere, di conduzioni memorabili, di “un tocco di cosa o/ cosa non sai”, attraverso la costante percezione del pensiero. E ci si muove all’interno di uno spazio indefinito del prima o del dopo; in evenienza solitaria e fragile nei risvolti del protrarsi, quando “del corpo della lingua/ non resta che mutamento/ e pietra”. Ma Davide Racca immette nei versi un sibilare accorto, sapiente, composto nella postura dell’osservatore silente che detiene l’opzione di un correlativo prosciugato ma non inerme, capace di tratteggiare in tale esito un imprevisto, riuscito e convincente effetto dove lo stato in luogo è maturo tracciato linguistico; composizione che sembra filtrare elementi e atmosfere quasi fosse avvenuto un precedente passaggio nella prosa di Jean-Philippe Toussaint.

                                                                                                         Andrea Rompianesi

mercoledì 5 ottobre 2022

La maestrina del Copacabana e altri racconti, Genesi Editrice, Torino 2021

 


La maestrina del Copacabana e altri racconti: quadri di provincia disegnati con realismo e ironia da Giuliano Mangano.                                                      

di Gianfranco Gavianu

La rappresentazione realistica, partecipe e a un tempo disincantata,  della concreta realtà della nostra regione costituisce un tratto costante della produzione narrativa di Enea Biumi, pseudonimo di Giuliano Mangano, artista versatile, prolifico, amante della musica e del teatro, autore non solo di racconti, ma anche di poesia in lingua e in dialetto bosino,  una produzione molteplice di cui in questo giornale ho dato altre volte conto.

Per la casa editrice Genesi di Torino, nell’aprile dello scorso anno, Biumi ha pubblicato un volume di narrativa dal titolo La maestrina del Copacabana e altri racconti (pp.127, €12,50). Il libro è una raccolta di cinque racconti brevi: oltre a quello che dà il titolo, ne fanno parte: Bocciofila Cartabbia, Una corolla di tenebre, Aristide Giovanni  Principe Turibbio,  Il Windsurf. Evidentemente l’autore ha voluto conferire un particolare risalto al primo di questi racconti, con cui non a caso il libro si apre. La vicenda, ambientata in Brianza negli anni settanta da un fatto effettivamente accaduto ovviamente rielaborato dalla fantasia dell’autore, si incentra sulla figura  di Schilly  una maestrina, il cui nome molto prosaico è Nuccia Aliverti. La giovane insegna  con zelo e con una condotta irreprensibile in un  istituto di suore il Pio Istituto del Sacro Cuore di Gesù. Stanca di una vita  scandita dalla triade casa-scuola-chiesa, superando le resistenza di una madre oppressiva, Nuccia, confortata dall’amica di gioventù Corinna, bruscamente decide di cambiare radicalmente vita: chiede alla Preside un anno sabbatico e inizia a fare l’ entraineuse in un locale notturno: il Copacabana. Antonio, un vecchio scapolo non certo attraente, (grassoccio, calvo e zoppo), da tempo innamorato di lei, la incontra nel locale, le fa delle goffe profferte d’amore ma viene rifiutato risolutamente. Lo sventurato Antonio, per la frustrazione subita, cova un cupo rancore e si vendica scrivendo un livido articolo che trasuda di ipocrita moralismo denunciando la duplice vita di Nuccia – Scilly : insegnante-entraineuse, in nome dei valori della santità della famiglia, dell’educazione dei giovani…. La voce narrante è anche personaggio del racconto che suona nel locale dove Scilly si esibisce ed è portavoce del punto di vista critico e demistificante dell’autore. Compaiono anche altri personaggi disegnati con attenzione  quali suor Arianna, la preside dell’Istituto, Genni, la cantante del Copacabana, la madre di Nuccia, l’amica Corinna, la maîtresse Dolores che, con la  sua lingua ibrida che mescola italiano, francese, spagnolo, richiama la figura di Madame Pace del pirandelliano Sei personaggi in cerca d’autore: la dubbia moralità di costei vede nello scandalo che travolge Nuccia un’occasione per far soldi: un business dice l’autore. Il mondo che emerge da queste pagine è  dominato dall’interesse economico e da una feroce, soffocante ipocrisia che opprime e determina l’ ambiguità e la scissione interiore della protagonista. La  trama ha una conclusione aperta che lascio al lettore la curiosità di scoprire.

Gli altri racconti ci presentano argomenti, situazioni, personaggi a volte legati alla vita della nostra provincia apparentemente tranquilla in realtà percorsa di oscuri drammi, a volte tratti dalla diretta esperienza umana dell’ autore seppur sapientemente trasfigurata. Di una fosca vicenda d’amore, tramata da interessi economici e di viscerali legami di sangue che si conclude tragicamente ci parla la vicenda narrata in Bocciofila Cartabbia; come una sorta di autobiografia esistenziale e letteraria si presenta Una corolla di tenebre. Decisamente complesso, drammatico e percorso da tensioni contrastanti tra ironia e tragedia è  Aristide Giovanni Principe Turibbio, dove il protagonista, dal nome altisonante che dà il titolo al racconto, narra  la sua catabasi infernale, la sua tragica discesa verso la morte, la sua angosciosa agonìa, rievocando a ciglio asciutto, senza compiacimenti sentimentali, i momenti essenziali della sua vita. Nella prima parte la voce narrante rievoca la giovinezza, gli amori, i compagni della vita goliardica di provincia: una rassegna di tipi umani disegnati con un gusto e una sensibilità che rievoca certi racconti di Piero Chiara, e un celebre film di Fellini: I Vitelloni. Ne consegue  che la scelta  di aderire alla lotta partigiana fu per il protagonista, come per molti giovani della sua generazione, in parte frutto del caso e non ebbe nulla di eroico o di astrattamente ideologico: la rappresentazione ad esempio di uno scontro coi nazifascisti è condotta con distacco ironico, con un punto di vista simile a quello del Fenoglio dei Ventitré giorni della città di Alba  o di un Calvino del Sentiero dei nidi di ragno. In questa discrezione, in questo pudore privo di ostentazione è, d’altra parte riconoscibile, una superiore dignità etica. Il racconto che conclude il libro, Windsurf, insiste ancora sull’ipocrisia della vita di provincia, narrando la  squallida vicenda  di Adelaide che si rassegna a un matrimonio riparatore dopo aver concepito un figlio con Windsurf, soprannome del giovane, aitante dongiovanni di cui s’era improvvidamente innamorata.

Giuliano Mangano ci propone dunque una serie di racconti  che, per l’agilità narrativa, la varietà di tipi umani che li popolano e per l’ironia disincantata che li percorre sollecitano nel lettore  un indubbio “piacere del testo”.

giovedì 25 agosto 2022

Dora Mauro, Vagando, Genesi Editrice, Torino, 2021


 

Vagando è diviso in due parti: acque e sguardo. Nella prima sequenza (acque) Luca è il protagonista di un racconto scandito attraverso momenti topici che sono: preludio, primo movimento, intermezzo, secondo movimento, finale. La seconda sequenza (sguardo) è invece un coup d’oil molto attuale, generato dalla pandemia e da ciò che ci ha costretto e lasciato.

Se non ho male interpretato Acque, la connotazione che Dora Mauro vuole imprimere è una narrazione preoccupata di cogliere gli aspetti psicologici e i risvolti spesso ambigui della realtà quotidiana passata al vaglio con gli occhi del protagonista. Le situazioni in cui Luca si viene a trovare sono apparentemente semplici, offerte al lettore in maniera chiara e trasparente, organizzate per moti dei giorni e delle ore, acquisite senza sottrarsi ad eventuali ambiguità di sorta.

Nel preludio si intuisce che il protagonista affronta una vita lontano dal paese natale e ne confronta istante per istante modalità e abitudini differenti. I toni sono quelli di una nostalgica infanzia, mentre i paragoni sono stemperati in una sorta di ascetica quotidianità, quasi una asettica considerazione sull’uso del vivere in un paesino disperso del meridione in contrapposizione al vivere “straniero”. Infatti il winstub sembra, ma non è, l’osteria conosciuta prima dell’emigrazione. Niente però è scontato, nulla è acquisito. Così come il rimpianto, nonostante tutto, non prevarica o impingua il tessuto narrativo.

Forse quello che Dora Mauro vuole trasmetterci è la volontà, come sosteneva Aristotile, di conquistare la felicità attraverso una normale esistenza: sono queste le riflessioni di Luca che si ritrovano anche nella sua prossemica e a dire il vero lo fanno assomigliare a un bambino che vuole assolutamente essere libero e che così si comporta nel segreto della sua cameretta ben sapendo che oltre quelle mura ci sono i genitori pronti ad intervenire e a rimproverarlo.

Ecco allora delineate e ridisegnate le sfumature psicologiche più liminari e complesse del protagonista. Nel primo e secondo movimento Luca vaga di paese in paese, tra amori e tradimenti, osserva e incamera situazioni e volti, ma quasi sempre si astiene dai giudizi, o per lo meno, rimane consapevole che la vita ci conduce spesso dove non avremmo voluto andare. La scrittrice sembra utilizzare, come da un palco teatrale, un binocolo col quale osserva e studia movimenti e atteggiamenti, anche i più piccoli o insignificanti – come quello di prendere il caffè, chiudere le persiane, leggere i cartelli indicatori, osservare il treno, odorare il profumo dei tigli.

È in questo contesto che si delinea il carattere di Luca come insegnante, il suo essere docente e il rapporto con la scuola, gli alunni, il preside. Quel mondo rappresenta in sintesi una dimensione esistenziale che si affaccia come in una scacchiera prestabilita, in una geometria di mosse e contromosse che prefigurano l’avvicendarsi dei destini: quello di Luca in primo piano e successivamente quelli di coloro che lo circondano in quell’agone misterioso e avvincente che è la vita.

 

 

Enea Biumi

lunedì 22 agosto 2022

Rosario Aveni, Accade, Genesi Editrice, Torino, 2020


 

La cifra costante della raccolta “Accade” di Rosario Aveni è il presente. Nell’architettura dei suoi versi è infatti possibile leggere quanto di reale succede (accade, appunto) senza sbavature retoriche o vani rimpianti. Tanto è vero che “in questa stagione/ rimpianti sono petali di fiori/ recisi dal vento”, vale a dire qualcosa destinata a scomparire, qualcosa su cui è inutile soffermarsi: meglio guardare a ciò che è vigente perché c’è chi “nasce e muore/ nel suo stesso divenire/ come la vita/ l’amore/ una farfalla/ dalla sera all’alba.”

Esiste allora un disegno, una specie di afflusso sensoriale, capace e determinato che riverbera l’attualità trasformandola in poesia. Rosario Aveni riesce a tessere versi in uno spazio temporale e geografico che coniuga fisicità e spiritualità in un ordine compatto e naturale, dove il pensiero si abbandona a punti pertinaci di riflessione – che Gros-Pietro chiama “moto perpetuo di una storia infinita” – come fossero sassi buttati nel lago atti a creare concentrici cerchi di emozioni.

Qui si abbandonano, dunque, le smagliature dell’anima, gli inganni del tempo, le reiterazioni di quesiti senza risposta, per ritornare ad ascoltare il peso dei propri passi, per non confondersi nell’irrazionale, attenendosi al rigore del quotidiano, l’unico in grado ancora di suggestioni poetiche al di là di mere fantasie o profezie.

“Il parco si svuota/ la gente torna a casa/ Resto seduto/ su questa panchina/ a contemplare / un tramonto radioso”.

Si tratta quindi di un percorso poetico che insiste su spunti, lacerti, agnizioni, trame, visioni che, come in un mosaico, si intrecciano, attraverso anche ad una serie di correlativi oggettivi, e dialogano tra loro offrendo al lettore abbrivii di forte impatto emotivo. Non altrimenti si comprenderebbero quelle “onde anomale di pensieri” o quel suo erigere “un muro/ fra me e il mondo/ convinto / che il mio spazio vitale / fosse illuminato dal buio/ In una notte senza stelle/ ritrovai/ l’aquilone e l’anima”. Allo stesso modo “tutto / appare più vero/al calar della sera”, e non sembri una contraddizione (il buio in effetti dovrebbe rendere tutto più incerto e misterioso). Contrariamente, invece, la sera rende più comprensibile il mondo, gli uomini, nonché “il cuore (che) pulsa/ effimeri attimi d’amore”.

In questo contesto non manca il desiderio dell’assoluto “anelo che ritorni/ l’angelo dell’alba/ per riprendere il volo/ raggiungere insieme/ il paradiso perduto/ sospeso nel buio”. Infatti, la contemplazione della natura o il ricordo che si fa vivo e pressante (“l’inevitabile avvenne/ senza rimorsi/ senza che alcuno/ lo venisse a sapere”) rimangono un passe-partout per segnalare, o in alcuni casi mimetizzare, il proprio ego (“ma gli occhi/ non mentono/ Riflettono la luce/ di chi sono”)

È necessario e opportuno, alla fine, segnalare il ritmo dei versi, adottato in forme brevi, senza punteggiatura, dove l’enjambement rientra come un intercalare espressionistico, in un modello stilistico musicalmente sciolto e convincente che fa da cartina di tornasole all’elaborazione e all’approfondimento contenutistico che rievoca transiti umani tra sofferenze e riflessioni, slanci e abbandoni, realtà e fantasia.

 

Enea Biumi

 

venerdì 19 agosto 2022

Walter Chiappelli, Sì, Genesi Editrice, Torino, 2021


 

La dinamica musicale contenuta nelle liriche di Walter Chiappelli fa sì che le sue liriche approdino ad un racconto che abbraccia la totalità dell’esistenza. Lo dimostra quel “Sì” che dà vita e senso all’intera raccolta. Siamo di fronte ad un’architettura volta non solo a costruire metaforicamente una meditazione ed una riflessione, laica o religiosa poco importa, bensì a delineare una ritmica attraverso assonanze e consonanze atte ad esprimere un respiro del verso e la sua profondità.

È come quando si ascolta una perfetta partitura che il direttore d’orchestra calibra e dirige attraverso pause, forti e piani, improvvise accelerate di tempo, virtuosi silenzi. Davanti a queste forme il contenuto diventa ipso facto comprensibilmente chiaro, adamantino. Ed allora, come in un susseguirsi di aforismi, riappare la forza della poesia.

“…snebbiare snebbiare/ verso dopo verso varie poesie / vagamente ermetiche / e sperare di scorgere raggi d’amore/ le ali della gioia a pieno volo”

Amore, gioia, speranza: ecco i pali sui quali viene consolidata la parola poetica che serve da faro per proseguire il viaggio, sebbene in alcuni momenti il dolore ed il male abbiano la capacità di sopraffare il bene e la felicità. Ed ecco a questo punto affacciarsi l’alchimia della fede che disgela e cicatrizza la vita.

Sono i testi di Chiappelli volutamente personali, ma nello stesso tempo trascendono il sé e si fanno portatori di testimonianze. Non c’è ambiguità, ma riflessione autentica. Non c’è retorica, ma capacità persuasiva.

“Il fuoco non incenerisce la luce/ né l’acqua può affogarla/ il dio sole raggia la sua verità/ sa che nessuna potenza palpitante / può spengerla o mutarla in menzogna”

Oltre alla gradevolezza e alla bellezza insite in queste liriche, dobbiamo notare anche il desiderio di ricerca della verità: non quella assoluta, filosofica, ma quella del quotidiano, dell’hinc et nunc, dell’attimo fuggente. Non a caso in una sua poesia l’autore dirà: “Fra 18 anni avrò cent’anni/ bel bersaglio se riesco a centrarlo…/ ma occorre che qualcuno/ con arco teso e con gran cura / lanci spero con gentilezza/ uhi, senza innervosire il dolore/ ch’è sempre all’erta e mai sazio”

Le domande e le constatazioni sono quindi all’ordine del giorno. Si susseguono ininterrottamente come un fiume in piena. Ci si chiede che cosa sia l’amicizia, la lealtà, l’amore (erotico o platonico), l’odio, che valore abbia il denaro: quesiti che spesso si risolvono in altri quesiti e paiono a volte come sequenze di pascoliana o leopardiana memoria, rivalutando ora le piccole cose nella consapevolezza della loro grandezza, ora le incognite esistenziali sul tempo e sul mistero.

Non mancano nemmeno nei testi di Chiappelli gli istanti propedeutici della natura che ci accompagna notte e giorno, che ci culla e ci ammansisce. Né viene meno il ricordo di tempi in cui povertà e inconsapevolezza non distruggevano affatto la serenità del vivere. Anzi la rinvigorivano e ne illuminavano il prosieguo.

 

Enea Biumi           

 

Adelfo Maurizio Forni, “Quel giorno” – “Kintsugi”, Genesi Editrice, Torino, 2021 – 2022


 

 

 

Il tempo è l’elemento che unisce e racchiude gli episodi di questi due pregevoli volumetti di racconti. Ma non il tempo tradizionale, come lo intendiamo noi principalmente (un prima, un adesso e un dopo), bensì un tempo del tutto soggettivo e intimo. A ben vedere si tratta di un cammino interiore orchestrato su situazioni esterne al limite del doloroso, della ricerca del meglio o dell’indifferenza sostanzialmente priva di una qualsiasi meta. Ciò che ne risulta è uno schizzo di concreta umanità trasmessa attraverso l’esperienza personale e diretta dell’autore, il quale ama però celarsi quasi sempre dietro un volto, un nome, un avvenimento. I vari riferimenti diventano quindi il teatro che investe il lettore e lo conduce come dietro le quinte alla visione di uno spettacolo in fieri facendolo spesso sentire partecipe e attore lui stesso su quel palcoscenico che è la vita.

In tal modo prendono vita e si distinguono i vari racconti in una specie di eidophor in cui si avvicendano i personaggi o, per meglio dire, i diversi tipi con una loro intrinseca peculiarità. I tanti quadri che si dipano, non in successioni strettamente temporali, appaiono simili a commensali che discutono e dissertano acronicamente in un eterogeneo simposium, ubbidendo solo al caso o per meglio dire alla fantasia e alla penna dell’autore che ne traccia i profili.

Non dobbiamo meravigliarci quindi se, in questo modus vivendi e operandi, sussiste sempre un adynaton che si spiega solo se si è compiuto quel passo, ci si è attenuti a quel tale desiderio, si è espressa quella parola o quel giudizio. Da lì non si può più retrocedere. È il fato, o chi per esso, che lo vuole perché ormai le scelte sono state fatte e non si può scappare.

I due volumetti parlano appunto di una data fondamentale. “È proprio quel giorno in cui abbiamo preso una decisione, o abbiamo ascoltato qualcosa, quando siamo rimasti folgorati, quando abbiamo scelto consapevolmente o meno se andare a destra o a sinistra, quel momento in cui ci siamo ritrovati vestiti in un altro modo e incamminati in un percorso che ha cambiato la nostra esistenza.”

Significativo, a questo proposito, è anche il passo tratto da Enrico V di William Shakespeare che recita: “chi non morirà oggi e vivrà sino alla vecchiaia, ogni anno, la vigilia, conviterà i vicini (...) Felici noi, noi pochi, schiera di fratelli.” Il che evidenzia e giustifica, rafforzato da un punto di vista letterario,  il coinvolgimento in un possibile e ideale banchetto di amici e lettori.

La struttura dei due volumetti offre quindi una chiave di lettura asimmetrica: da una parte, in un crogiuolo di avvenimenti che seguono e inseguono la coscienza, ci stanno e vivono e amano e muoiono i personaggi, dall’altra in un arco di tempo ben delineato si innestano le storie dei protagonisti. Già questa esposizione, a double face, si potrebbe dire, racconta che la realtà fattuale va introiettata e analizzata per segmenti, mai accettata per così com’è o come potrebbe apparire.

Ecco allora uscire come da un magico cilindro figure esemplari quali Freda, Peppino, Francesco, Anna, Oksana, Deo, Edoardo e via dicendo: tutti personaggi nati dall’esperienza di Forni e maturati in una specie di quaderno diaristico attento e scrupoloso. Lo stanno a dimostrare le varie date che l’autore inserisce all’inizio del racconto, nonché le note e le sottolineature in corso d’opera, che motivano la curiosità del lettore. Così inquadrate in una sorta di autoreferenzialità, le vicende dei protagonisti creano il substrato e l’humus che sono la ricchezza dei racconti.

In queste pagine siamo quindi portati a cogliere, insieme con gli attori principali, momenti di una vita problematica che si interroga sul proprio essere: momenti che sono al tempo stesso testimonianza e segno etico, ovvero schizzi di una umanità che si racconta attraverso un’esperienza propria e imprescindibile. Ascoltiamo vicissitudini che si intrecciano in volti   rintracciabili nella quotidianità: una grande partitura diretta e progettata dall’esperienza dell’autore, nel desiderio di trasmetterci momenti atti a renderci più sensibili e attenti, più riflessivi e savi, perché “chiusa una porta si apre un portone”.

Orgogliosamente Maurizio Adelfo Forni sottolinea che si tratta del suo nono libro. Romanticamente possiamo definirlo il suo nono figlio: una successione che non smentisce le sue capacità di scrittura, anzi le esalta e le affina. Lo scopo – sembra alla fine suggerire l’autore – almeno in questo scorcio di tempo, sicuramente non brillante né consolante, è quello di risorgere più “impreziositi”, insieme e in grazie dei racconti, secondo quell’arte che i giapponesi chiamano “kintsugi”, vale a dire abilità nel rimettere a posto i pezzi che possono essersi rotti o rovinati e farli rinascere a nuova e miglior vita.

                                                                                        Enea Biumi

             

Michele Prenna, Le parole cercate, Macchione editore, Varese, 2005

  UN REGALO DI PAROLE, MA NON SOLO È con vero plaisir che ho letto questa silloge di poesie regalatami dall’amico Michele. Veri e propri rit...