venerdì 28 novembre 2025

Nina Nasilli “L’Orsuta” (Book Editore, 2025)


 

Corporatura inerente ad un elemento vitale che sorge e immette nella pagina la complessità del rilievo natura, nella efficacia prosodica di un’intesa, come nello sviluppo asimmetrico dei passaggi versificati. E’ davvero intensa e originale la voce di Nina Nasilli in questo suo esito poetico “L’Orsuta”. Assonanza e iterazione compongono già inizialmente una tessitura di rimandi: “cavaliere bardato d’armi fulgenti/ e valido scudo/ pretende anche la schiena/ nuda del nero cavallo/ nero-selvaggio/ che schiuma”. L’approssimarsi è alle scadenze dei tempi ritrovati in una partecipazione sempre umorale, di una consistenza sensuale e vibrante, al verso breve coniugata in uno spessore che deterge e rende una limpidezza svelante. Condizione di estraniato abbandono collettivo impone la ricerca di una necessità che Nina Nasilli ben individua nell’urgenza che chiama a ritrovare capacità d’ascolto e vocazione relazionale, come disciplina d’attesa e forza compiuta nell’intreccio dei pensieri ma anche di auspicabili vicinanze fisiche e ritrovati riconoscimenti lievi e provati, tendenze liberate in origini capaci di accogliere nella sospensione che ci fa umili; “albeggia il fiume/ là in fondo/ dove lo sguardo quasi/ più lo raggiunge”. La materia è testimone apparentemente inerte di un possibile salvataggio quotidiano, condotto ai lati della fragilità panica, della prospettiva liminare attesa tra le forre dell’imprevisto misurato. Si è dove il segno si fa parola, lemma, sintagma, vocazione partecipata nella coerente semantica che imprime il rigore stilistico in verticalismo figurato a flusso discenditivo. La domanda sul senso delle cose e sul fare nelle cose coniuga le stagioni in una trasposizione scritturale che si essenzializza e non esclude anche occasioni raffigurate in diversità di caratteri. “Se apprenderlo potessi/ sarei foglia/ o filo d’erba” scrive Nasilli in un’eco alla Whitman da coincidenza di spirito e natura. Ed è poi un richiamo alla responsabilità dell’uomo, al di là di tempi e osservazioni, arti e corpuscoli, riconoscersi deboli, minuscoli...”ma sei formica/ visto dall’alto” con un insegnamento che ci riporta a quell’anonimia di formiche che fu di Domenico Cara. Ancora l’attenzione del verso si sofferma sulla consistenza tangibile del corpo, e del corpo estraneo. La mancanza e l’assenza, il dono non desiderato, ma anche l’inesorabile fuga da quella bellezza che condiziona e sconvolge. C’è un sentire che è memoria partecipe e considera il “tu” nella versione che si pone in attesa della più intima adesione quale concentrato di spunti personali: “dal disarmo resta/ un profumo d’ebano/ e sapone:”, come altro da dire o intendere, accennare, quando “nessun contorno/ a confermare il nostro/ debole ricordo./ Nessun paesaggio”. La sezione eponima sviluppa una sorta di danza linguistica veloce e allitterante, dove le condizioni si addentrano nell’esegesi di rimando e riflesso: “E’ il sentire.../ sentire che si abbruna/ si aggruma/ e si inorsa”. Quindi l’Orsuta è animata nel suo “irto pelo”, qualcosa che si distingue nel vibrare vissuto, l’annidarsi nelle forme del gesto che sa difendersi ma anche aggredire con bramosia vorace e desiderio famelico, nella innocenza sostanziale dell’approccio. La domanda che ancora l’autrice interpreta è corso naturale, così come vita di chi resta, inesorabilmente piccola, assenza presente di chi manca, tratto che inciso nel verso breve si fa traccia semantica di una percezione tra le cose, tra i colori a scorgersi nel bianco, nell’azzurro, nel rosso. Continua aperta una dicitura che conduce attraverso rimandi fonetici  e reiterazioni di parole- chiave e di ruoli al limite dell’elemento interpretabile oltre il contenimento contingente. “Tu gemi il tuo silenzio/ a mezzanotte – (che è)/ del giorno il punto più infedele/ al giorno/ e nessuno crederà/ a questo tuo grido immondo” scrive Nina Nasilli, nella condensazione del percorso, nella sua stessa interpunzione dove si coglie la pausa della domanda partecipe, il tentativo ermeneutico nella compresenza delle intuizioni, delle trasformazioni, della suggestione inerente ai ricordi e alle speranze: “arrossisce anche il palmo della mano/ approssimando allo stelo/ e le dita girano la testa all’indietro/ per non violare di più il suo segreto”; attenzioni rivolte alle innumerevoli creature nella fascinazione di un succedersi attraverso una versificazione che giunge allo iato espresso all’interno dello stesso verso, veicolando, nell’esito finale, anche un riferimento alla poesia di Marina Cvetaeva. Un tracciato poetico, questo di Nina Nasilli, dove si dà voce all’inespresso, a ciò che spesso rimane intraducibile ma che interroga nella forma più intima, “e anche tu- quello che fai/ lo gridi ancora dal Silenzio”.

                                                                                                                                             Andrea Rompianesi

mercoledì 26 novembre 2025

Maria Pia Quintavalla “Saudade” (Puntoacapo Editrice, 2024)

 



“C’è bisogno degli altri, come di un’illuminazione-/ dalla volta del cielo non scurita/ e non pronta alla sua notte:”; così inizia l’opera di Maria Pia Quintavalla, figura decisamente significativa del panorama poetico contemporaneo, dal titolo “Saudade”. Tono che di valenze s’accende nella compiuta attenzione di rimandi ad un sentire indefinibile, una melodia nostalgica, una sensazione di mancanza riferita a ciò che si è perduto ma più ancora a ciò che non si è mai raggiunto e che rimane, quindi, come una sorta di desiderio. Il caso amoroso investe le dinamiche prefissate, le rivolge alle possibili richieste, ottenendo almeno l’ipotesi dell’ascolto, la plausibilità della domanda che fluttua, a volte inerte, nella perturbabilità delle stagioni. “Amo Parigi/ quell’aria di castello blu intessuto,/ intorno a nubi nude e mobili, striate/ intorno al fiume”, dove l’esperienza di avvicinamento sensoriale ed emotivo al luogo si fa intelletto e scelta di misura; organico compenso alla ragione accorta, disciplina di attenzione allo sviluppo spesso incompreso delle fecondazioni culturali nella forma di crogiolo e di mutamento. E’ un poetare sentito e sofferto quello di Maria Pia Quintavalla, esposto in passaggi dicibili e condotti con supporto di elementi fluidi ma, nello stesso tempo, di una vocazione prosastica ad intervalli irregolari. L’ascesa o discesa ai bisogni, alla rievocata sensualità che ha in dote il compito di supportare l’anabasi, ne diviene consenso inquieto, insostenibile leggerezza, dando spazi ad acque e promesse, a barche e mezzi urbani. Così come le ambientazioni esprimono lo scenario molteplice che ospita la complessità esperita nella sofferenza svelata, nella struggente mancanza che, però, non rinuncia ad indicare una direzione che è progettualità nel verso. La drammatica considerazione dell’umanità migrante certifica lo stato d’abbandono da cui insorge il bisogno immite e la peculiare attenzione che può concedere. Allora nel paesaggio, le case risultano già disabitate, “in un composita solvantur” che ci riporta al magistero di Franco Fortini, attraverso fattezze in distinzione di misure, di rapporti che sono decisivi, nel loro rivelarsi materni e filiali: “Avremo bisogno di sorgenti vive, noi-/ di racconti dove/ la storia ci sistemi, intime e care-“. E c’è un fluire di fiume che il Po racconta e destina ai prodigi dei giorni e delle stagioni, nei mormorii di sogno e di sorgente, attraverso fuochi e baluardi, acque e sentieri, campi e respiri. Segue poi una sezione di prose indicate come testi di poesia in prosa; più specificamente definibili nell’accezione di prose poetiche in alternanza di caratteri, quasi monologhi a confidenza intima: “Se Dio mi ama io scrivo e se non scrivo muoio, peggio beccheggio, e stono fino a sera le mie modestissime preghiere che, come tozzi di pane restano là chiuse...” e il tono della scrittura di Maria Pia Quintavalla si pone a saggiare il crepuscolo di un sentire in sapore di ciottoli e di refoli, dove si accentuano i possibili regesti. Una prosa, inoltre, che simula la poesia attraverso l’uso dello slash ricorrente a incidere tagli e pause su una storia al femminile, densa di umori e accenti verso età bambine, stagioni madri, luci di troppa, straziante, ossimorica bellezza. E attese che si fanno “saudade”; “Materia nel liquido, carne che fu ossa e sangue, e non gomma, e non blu morte, ma vita, ora”. La tragedia delle morti in mare, contemporanei calvari e vie crucis devastate nell’algida freddezza di un elemento che identifica con la diffusa indifferenza il proprio orizzonte. La poesia allora testimonia come “fra il rumore di acque irreali... questa notte al termine della notte gli accenti di tutte le lingue si fondano in un salmo”, nella incalzante attualità delle migrazioni forzate dal bisogno e dalla persecuzione.

                                                              Andrea Rompianesi


lunedì 3 novembre 2025

Recensione di G.C. Lisi alla poesia di Prospero Cascini “La lucanità Serafica”

 



È un testo che profuma di terra e di memoria , un omaggio alla lentezza e alla bellezza essenziale della vita lucana. Con la “lucanità Serafica”, Prospero Cascini costruisce una poesia   che unisce contemplazione  e appartenenza, in cui la quotidianità si trasforma in paesaggio interiore.

Lucanità serafica


I versi si muovono con calma come un respiro che segue il ritmo delle stagioni. “Dormirci sopra/ in un anfratto innevato/ tra un cirro innevato e un bucaneve imbalsamato” apre la scena con delicatezza mescolando immagini naturali e memoria sensoriale. C’è un senso di sospensione, di pace domestica, di tempo che non scorre ma si posa. L’autore dipinge la Lucania non come luogo fisico, ma come condizione dell’anima dove pendono nelle toppe “le grosse chiavi / dei palazzi antichi” e il passato convive con il presente, “nelle case riadattate”. Ogni oggetto, ogni gesto, anche il semplice “attendere/ i chiarori del meriggio” diventa un atto poetico, una forma di resistenza al caos e al mondo moderno. Il linguaggio è semplice e nitido, volutamente disadorno, ma intriso di musicalità. L’uso dei puntini di sospensione, delle pause e delle minuscole restituisce il tono di chi parla a se stesso e alla propria terra. In questa voce si riconosce una Serenità Conquistata, un equilibrio che nasce dall’accettazione del proprio tempo e proprio spazio. Nella chiusa “è il sogno di ognuno/ che lascia il segno/ sul proprio selciato” la poesia trova la sua verità più intima: la vita come cammino silenzioso, come traccia personale e insieme collettiva. La lucanità serafica è un inno quieto alla dignità dell’essere, un modo per dire che la vera grandezza sta nel restare fedeli alle proprie radici, con lo sguardo rivolto alla luce del giorno che verrà. 

G.C. Lisi


sabato 18 ottobre 2025

Duccio Mugnai, Sogni di ossessioni e di libertà, Genesi Editrice, Torino, 2025, € 14,00

 


 Bellezza, bellezza, bellezza! / unico vero linguaggio che vale” sono i versi che posti al centro della silloge fanno da trade-union a ciò che è materico e a ciò che è spirito. La materialità è costituita dalle stagioni, dal tempo che inesorabile trascorre senza tregua abbandonandoci nell’ingenuità di una rincorsa spesso vana, la spiritualità si conforma a un dettato interiore, in un iter del tutto soggettivo e per ciò stesso deliberatamente sincero e perturbante. “Ciò che non vissi, lo sognerò. / E nei sogni mi troverò libero. / Vivo nel desiderare / sincero nel godere ciò che mi appaga di più.”  Mugnai riflette con sgomento che l’esperienza umana può mostrarsi futile e ingannevole. Per questo si rifugia emblematicamente nel sogno senza scordare però che l’illusorietà del tempo e la vanità delle cose terrene hanno un loro fascino e una loro giustificazione. Anche quando tutto sembra condurre alla morte esiste sempre un aggancio alla vita, una continuità destinata a sconfiggere la materia. Si tratta dell’arte. L’arte riesce a superare le barriere dell’umano, a volte tende a sopperire le debolezze, le inquietudini, le avversità, a volte ci indica l’altrove. L’arte dà il senso alla vita e alla morte, è il soffio vitale, è lo pneuma che ci penetra e ci svela il mistero delle cose. “Arte, arte che avvicina a Dio / traccia di Dio / strada che conduce al divino, / antica grazia di Dio / ha illuminato lavoranti e artisti (…)”. La fortuna di essere nato a Pieve santo Stefano in provincia di Arezzo, sulla strada che conduce al Santuario francescano della Verna, nonché di aver frequentato per motivi di studio e lavorativi Firenze, pone Duccio Mugnai in una situazione di privilegio rispetto ad altri, sia per la possibilità di una frequentazione artistica costante di quei luoghi, sia per una vicinanza profonda allo spirito religioso. Ma il privilegio, si sa, diviene sterile se non lo si coltiva adeguatamente. E il poeta non rinuncia infatti ad aumentare le proprie conoscenze, a sfruttare quello che vede attorno a sé, a indagare una realtà per crescere e migliorare. Non nascerebbero altrimenti i suoi versi tutti incentrati sul connubio uomo-Dio, sulla meditazione e introspezione di sé e del mondo circostante. “Realismo onirico felliniano / sogno o incubo desueto nel mordere il cuore / come Cabiria e la sua lacrima di Pierrot / i vitelloni sul mare di Rimini / come foglie morte che il vento vuol portarsi via”. La percezione che si ha nella lettura di questi versi è quella di un autore che non si abbandona a semplici sentimentalismi. Non c’è una sovrastruttura non inerente alle parole che si leggono, non c’è sovrabbondanza di aggettivazione, ma una misurata e sostenuta capacità di trasmissione empatica col lettore. Nella lirica “Maestrale”, ad esempio, Mugnai ci racconta la sua “ossessione” e cioè il desiderio costante e continuo di introspezione, del mondo e di sé. “Spesso mi son sentito stravolto, / portato via, consumato, spostato / attraverso furente e indomabile cambiamento”.  In questa meditazione soggettiva non può certo mancare l’incontro con l’altro, meglio: con l’altra. L’amore nasce quasi per caso ma è tuttavia utile per riconoscersi, per trovare se stesso. “Mi sei piombata addosso / come gioia consueta, / la tua immagine / ossimoro equilibrio / il piacere e il tormento.”  Allo stesso modo, le citazioni di Van Gogh, Goya, Botticelli, Beethoven non sono superficiali orpelli bensì parte integrante di una weltanschauung che ha come pilastri Dio e la Natura. Infatti “dirompente impulso in spirito / permea la sacralità dei poeti che ‘vedono’ / anticipano i tempi / (…) Mi tuffo inconsapevole, / ad occhi chiusi, / nel gorgo sublime e sconosciuto.”  “Zefiro / le tue morbide guance / carezza carnale / alla mia sensualità”. Alla fine quell’ossessione che perennemente accompagna la vita del poeta diventa libertà: libertà di canto, libertà d’amore, libertà da ciò che è materico e mortale. Tutto diventa trasparente bellezza, spirituale sensibilità, parola di verità, “mentre il Signore passa coglie e rigenera”.

 

Enea Biumi

domenica 12 ottobre 2025

Rossana Ombres, Bestiario d’amore, Graphe.it Edizioni, Perugia, 2025, € 12,00

 




Nel Bestiario d’amore, pubblicato da Rizzoli nel 1974 e ora riproposto da Roberto Russo per le Edizioni Graphe.it, nella collana diretta da Antonio Bux, Le mancuspie, Rossana Ombres riprende in chiave moderna quelle che nel Medioevo erano analogie, simboli e metafore, reinventando con estrema lucidità un mondo tra il reale e il fantastico dove è l’elemento femminile a trainare e a risolvere le  criticità e dove l’intelletto concretizza la sua essenza in una sorta di visione ultraterrena dal sapore mistico e trascendente. Non per nulla l’esergo della prima sezione intitolata Pentagramma apocrifo si regge su una frase di John Donne che liberamente tradotta recita: “gli angeli sono capaci di coinvolgere la nostra anima, e per ciò noi li veneriamo”. Parallelamente la seconda sezione denominata “Secondo pentagramma apocrifo” presenta come esergo i versi di Juan Gelman che riprendono il medesimo clima: “Angeli, angeli. / Chi dice di averli visti, non li ha mai visti / Chi li vede, canta dentro di sé”.  E gli angeli, infatti, hanno fin dalle prime pagine un ruolo di trade-union tra l’uomo e il mistero. Segnano un punto di incontro tra la secolarità e la religiosità. Offrono una prospettiva al dolore del mondo che si vuole redimere ma non si sa come.

All’Angelo del sognato fui vicina / qualche secondo nella collaretta di un labirinto. / Il grado ultimo del magistero alchimistico / imparai dall’Angelo del sognato, / dimenticata alla sua fosforescenza minerale.

L’Angelo che in remoti tempi ci divise / dissaldando la doppia creatura con la sua fiamma feroce / perché ci cercassimo / (…) oggi è qui / dritto in piedi / a riscuotere la caccia dai suoi guardiani.

Bastò una notte di martirio e dal cielo / piovvero fiammelle coi sette numeri / dei sette pianeti che lodano il Signore.

Si avverte fin da subito l’importanza della lezione biblica, talmudica, giudaico-cristiana. L’autrice ci immerge immediatamente nel clima della cabbala ebraica, inserendoci in un mondo magico che ci avvolge e a volte ci perseguita perché non riusciamo a comprendere dove ci possa condurre.

Noi non sappiamo nulla / siamo con le nostre pietre che ci ritraggono / santificati di un magro chiarore / sul fondo dell’Abbazia (…)

Si tratta di una specie di ossessione derivante da un’atmosfera di presenze, di corpi reali al limite della sensualità, e di ombre trasparenti, irreali, che narrano storie d’amore dai tratti surreali. Ed è la donna la vera protagonista di questa silloge, sia che si chiami Eva, sia che si chiami Bella o Lilit o Eleazar o Maria. Esse portano su di sé una strana inquietudine, sperimentano il caos di una realtà a volte estranea, a volte complice, vivono la loro fisicità come una contraddizione perenne. Demoni e angeli le costringono in una identità che non sentono propria e fuggono in un mondo fantasioso. Nemmeno l’attrazione del sesso le corrompe. Anzi. Spesso ne sentono la repulsione. E si rifugiano nella verginità o in una illusoria maternità.

Diabolicamente perseverando nell’umile proposta / di cambiamento, va Ireneo al martirio: / e la vergine Tecla / fatte le dita a particola tocca inorridita il gemizio / delle stimmate appena esplose. Altre donne / vanno al supplizio / leste, con lo zinale macchiato e il lessico dialettale.

Le parole hanno una forza dirompente che spesso travalica la corporeità ubicandosi in una specie di iperspazio immaginifico e al tempo stesso reale. C’è una atemporalità che trascina il lettore in un altrove, lo sorprende con una esposizione favoleggiante, ricca di demoni, mostri, angeli, santi, donne asessuate, bimbi traditi. Ci si ritrova in ambienti da fiaba, leggendari, immaginifici, che sembrano appartenere a tutti e a nessuno. La poetessa ci porta ad ascoltare versi che incantano e che raccontano in forma analogica i drammi del nostro secolo. Sono interessanti a tal proposito le note che l’autrice pone in coda alle poesie, in cui ricostruisce i suoi momenti di ispirazione. Da qui si può facilmente dedurre ciò che la Ombres valorizza maggiormente, vale a dire una cultura che si innesta sulla tradizione classica, sulla mistica ebraica, sulle fiabe popolari e non, sui racconti medievali. Si può registrare in questa silloge poetica una ricchezza di documentazione, un procedere attraverso sperimentazioni linguistiche, un richiamo a temi esistenziali che attraversano tutta la nostra storia. Sebbene a introduzione delle note Rossana Ombres scriva che “non sono state apposte per dotare il libro di chiose colte”, non si può non sottolineare la sua vasta erudizione che naturalmente non si sovrappone alla sua poesia, ma ne accompagna i versi e li traduce.

Non è un caso se il titolo di questa raccolta poetica si riconduce al libro di Richard de Fournival che nel XIII° scrisse il suo Bestiaire d'Amour.  È evidente che i due testi siano completamente differenti, essendo quello di Richard de Fournival intriso di cultura medievale, per cui l’amore diventa occasione per redigere un manuale didattico morale. In Ombres invece è la testimonianza di un percorso e di uno studio non solo culturale, bensì di una ricerca empatica che associa sapere e umanità, andando oltre il tempo, oltre la storia. È il processo di un’indagine psicologica e sentimentale che non vuole insegnare ma coinvolgere, non vuole dettare precetti ma risvegliare coscienze.

“Chi ha uno yod nel nome / ha il suono delle galassie future: / e lui era profeta di un mondo venturo / soprattutto per quel piccolissimo yod.”

Le vicende e i protagonisti di questa silloge possiedono un vigore che straripa in qualcosa di infausto, mortale e fatale, trascinati da demoni mutanti, avviluppati da una continua lotta tra bene e male, risucchiati in un vortice di parole e sogni, in attesa di una impossibile panacea. Gli angeli prendono corpo, ma i corpi si confondono in una inesausta ricerca e anche i nomi si sovrappongono, si scompigliano e rigenerano nell’esercizio persecutorio che vuole trasformare il sogno in realtà e la realtà in sogno.

“Allora si levarono i demoni / che erano stati messi a dormire / nei solchi del mondo prenatale / e miniarono mappe di itinerari controversi / e costrinsero le salamandre ad annodarle col fuoco”

Vita e morte, ragione e passione, desolazione e straniamento producono un senso di sgomento, la necessità di aggrapparsi a qualcosa e a qualcuno che sappia condurci fuori dal terrore e dalla paura. E invenzione tra le invenzioni nascono gli “Scarabangeli”, metà angeli e metà scarafaggi, messaggeri inquieti, creature misteriose generate nell’Eden dove “un fulmine tranciò / l’albero della Salvazione dai vinosi frutti”. L’intensità dell’immaginazione trae potere anche dall’ipermetria dei versi che segnano come una partitura musicale d’ampio respiro. E la musica in effetti fa da sfondo a tutta la raccolta. Basta percorrere l’indice delle poesie per evidenziare questo aspetto (“Tempo di rondò”, “Serenata”, “Buchstabenengel per la mano sinistra”, “Due cori per flauto e tamburello”, “Musica per l’ora prima”, “Ballata della figlia di Noè”). Musica e parole sono circostanze idonee e confacenti nell’inglobare incubi e sogni, visioni apocalittiche e aspettative epifaniche.

“La terra cominciò a tremare così forte! / Caddero muri / con tutti i loro interni carichi e caldi/ si chinarono gli alberi/ a raccogliere le loro foglie. / (…) L’anima, trasecolata, produsse santi.”

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Rossana Ombres (Torino, 1931 - Livorno, 2009) fu una voce inconfondibile e inimitabile nel panorama letterario italiano del secondo novecento. Nominata Accademico d’Italia, vincitrice di prestigiosi premi letterari, quali il Viareggio, il Grinzane Cavour, tradotta in diverse lingue, riuscì a interpretare i drammi e le ansie del secolo breve con una scrittura ricca di spunti linguistici originali, unica e peculiare.  Fu Andrea Breda Minello che la definì “anacoreta della parola”. Voleva intendere con ciò sia la grande attenzione che la poetessa impose all’uso della parola come strumento principe di comunicazione scritta, sia la sua attitudine e volontà di rimanere lontana dai salotti letterari per coltivare un suo modus operandi alieno dallo spettacolo e dalla notorietà. In effetti, pur lavorando alla Stampa di Torino, la sua opera non ebbe alcuna affinità con altri scrittori, non si avvicinò a nessuna scuola o gruppo poetico. Lavorò in solitudine e in solitudine rimase. Per tutta la vita. E oltre.

Enea Biumi


mercoledì 1 ottobre 2025

Gilberto Isella “Divaricando l’attimo” (Book Editore, 2025)


 Tentare la possibilità di porre iati all’interno di un flusso che è quello del tempo. Arduo compito nella fascinazione delle cose che fuggono e che tornano, quando la domanda esistenziale si avvale di una osservazione inquieta, critica, ma anche tesa verso una necessità di significazione pur problematica. Siamo tra le pagine donate da Gilberto Isella nell’esito poetico “Divaricando l’attimo”. Espressione in divenire tra immanenze tecnologiche dell’oggi e virate anelanti la trascendenza in una osservazione che si fa eco di tono metafisico: “mente d’astro subitanea irrompe/ salomonici sigilli scuote e disorienta/ boschi araldici dall’etere asporta/ e alla terra in sequenze li affida”. Adattamento di versi in strofe segnate da compressione di passaggi che ornano una domanda ancestrale, una identità tracciata da tessere congiunte e collegate nelle figure messaggere di segnali da interpretare, dove il rischio dell’oblio comporta la giuntura imprevista, l’intervallo quale tregua da un passato che incalza in ciò che assurge a possibile intervento, a concessa correzione. Il mistero comunque incarna la più sottile trasparenza del visibile che Isella analizza alla luce della peculiarità espressiva in sintagmi di diversa estensione ma sempre attinenti ad una complessa “solidità concettuale” che coniuga l’alternativa in espressione affiancante e integrativa. Così insorgono specificità quantistiche deviate in teoremi estendibili, in nature ostiche, quando “si aggrappa a fessure di muro/ ode nenie erbose dapprima/ pistilli stami sottilissime/ fibre da brezza cullate”. Ma insorgono anche tonfi e croste, gemiti e afasie, qualora un precipizio sia esposto ad indole di caduta, necessità di reinterpretazione attraverso coniuganti osservazioni naturalizzate in pensieri che il poeta scolpisce nelle partiture assimilanti la divaricazione come tecnica scultorea tra pianificazione della parola indicante l’enigma, così come la materia in attesa di percepire la sua forma in “strapiombi mentali”. Gilberto Isella è cultore di parola poetica in pensiero e spirito, attraverso l’uso del vocabolo corposo in una “geometria refrattaria”; cogliamo spunti di citazioni che coinvolgono Emily Dickinson come Eugenio Montale, Fernando Pessoa come Gabriele D’Annunzio, Valerio Magrelli e Camillo Sbarbaro, Dostoevskij e Mc Carthy...rimandi letterari che nutrono la contemporaneità stessa della ricerca nel suo intreccio espressivo tra le soglie e i passaggi di quell’andare che è domanda costitutiva e antropologica. Il verso elegante dell’autore ridisegna i confini di una partitura incurante del pericolo rappresentato da una concettualizzazione che qui riesce a farsi suono significante, dettatura accogliente le fasi del mistero e della cura, come l’espediente linguistico mai gratuito che richiama l’osservazione fonetica sul particolare rivelante. Brevissime, le poesie della seconda parte, si accentrano nello spazio della pagina connotando l’applicazione a stelo dove “l’umile disco della vita/ coinciderà/ con la parola cosmica/ la non detta/ ancora”; come la divergenza delle forme concede l’intarsio e la sosta, l’avveduta comparsa degli elementi tracciati e dischiusi all’osservante coincidenza di segnale e risposta. E’ una fluente meditazione sull’attimo che imprime ai versi l’attenzione in varchi e colori, squarci e amnesie, tendendo poi al passaggio verso ulteriori espressioni pensanti; “lì il muschio posa le tinte/ dei propri umori alogeni/ scontando le vertigini/ di chi l’ha calcato”, oltre il ritorno sillabico interno nella tramatura di suono e ritmo per cogliere la precisione del passo cronologico che assiste al tono possibile. Gilberto Isella deterge la pagina tra viali e tetti, albe e venti, silenzi e petali, onde e pause; le voci veicolano sussurri dagli interstizi, portando la complessità minimale dei particolari su destrezze linguistiche di elegante efficacia: “angolo giro che ruota/ intorno a breviari d’acqua/ terre rare e tormenti/ candele ignifughe e tare/ su pietre che accerchiano/ passioni mai sgravate”. C’è un tentare, comunque, un vedere risalire le cose verso un accenno di chiarore; formula che riporta le poesie ad ordine verticale d’inizio verso, quasi a riprendere il filo del tracciato tra le polarità della materia stessa affrontata nel suo essere, posta nell’ottica di una manipolazione che oggi si avvale della dirompente frenesia tecnologica per poi addossarsi ad una variazione grafica che allude a tensioni ulteriori ed opposte, perfino a richiami omerici. Certo, un intervento sarebbe quanto mai urgente per condurre verso la possibilità di cogliere tra gli spazi dilatati l’insieme dei ponteggi da noi costruiti nella ricerca incessante di riferimenti per risolvere almeno il moto iniziale della scrittura, il suo compito primario: “quadro da raddrizzare, chiodo/ estorto a un singhiozzo/ sfacciata obliquità”. Di ogni divaricamento si coglie quindi il tratto che manca, la sonora esclusione che conduce però non alla resa ma a quello spostamento della prospettiva che riporta alla cura, alla progettualità poietica esigente l’attesa di una memoria riavvolta e recuperata come preludio e scommessa, come evento che può raggiungere perfino la vetta mistica. Infatti l’ultima sezione evoca la figura di Ildegarda di Bingen, riferendosi al suo “Libro delle opere divine” nel conforto delle osservazioni e delle allegorie; “ma tu/ il suono giusto implora/ il suono/ non lo stridere eterno di un dubbio”. Il cromatismo è incisione verso un’apertura alta e ambita, in un passo che solca le asperità terrigne ma accosta poi moti che non escludono effluvi d’estasi: “io scosto garofani di fango/ giro la lancia/ guardo nel biondo divario/ delle trine”. Gilberto Isella compie uno sviluppo costante che supera cicli e rimandi, ponendo segnali svelanti limiti esistenziali ma anche prospettive possibili, in citazioni ad esergo; giungendo a quell’ “incespicare nei dislivelli/ brumosi del colle” che coinvolge Leopardi.

                          Andrea Rompianesi

mercoledì 20 agosto 2025

La poesia di P. Cascini "A Micaela Maria nata in piena pandemia" la menzione d’onore al concorso internazionale di poesia creativa "una stanza tutta per sé"


 Al poeta lucano Prospero Cascini con la sua poesia “A Micaela Maria nata in piena Pandemia” è stata assegnata la Menzione D’onore al Concorso internazionale di poesia creativa “una stanza tutta per sé”, promosso dall’associazione Culturale  Club della poesia di Cosenza, curata  con passione dal suo presidente Andrea Fabiani. Il titolo è riferito ad una importante opera di Virginia Woolf, dove attraverso la metafora si racconta la mancata libertà espressiva della donna. 

La giuria :Presidente/Rolando Perri – Dirigente scolastico, studioso donmilaniano, saggista e recensore letterario –  Componenti/Antonella Daffinoti – Scrittrice e poetessa – Maria De Fazio –Operatrice sociale e divulgatrice culturale – Elvira Dodaro –Avvocato e poetessa – Tommaso Orsimarsi – Scrittore e saggista – Concetta Natoli – Poetessa e scrittrice –

Pierpaolo Rodighiero –Avvocato – ha considerato come criterio discriminante l’attualità del testo proposto  oltre che il messaggio educativo che si propone attraverso il testo stesso. La poesia proposta esprime l’autentico dolore del poeta- nonno per la venuta al mondo di Micaela in Piena Pandemia (22- 6- 2020) e si conclude  con un impegno personale della Nascitura a darsi da fare per un mondo migliore.
Castelsaraceno, il paese lucano dove vivono Nonno e Nipotina!

   

                                                                                                                                                                         
  






Nina Nasilli “L’Orsuta” (Book Editore, 2025)

  Corporatura inerente ad un elemento vitale che sorge e immette nella pagina la complessità del rilievo natura, nella efficacia prosodica d...