domenica 12 ottobre 2025

Rossana Ombres, Bestiario d’amore, Graphe.it Edizioni, Perugia, 2025, € 12,00

 




Nel Bestiario d’amore, pubblicato da Rizzoli nel 1974 e ora riproposto da Roberto Russo per le Edizioni Graphe.it, nella collana diretta da Antonio Bux, Le mancuspie, Rossana Ombres riprende in chiave moderna quelle che nel Medioevo erano analogie, simboli e metafore, reinventando con estrema lucidità un mondo tra il reale e il fantastico dove è l’elemento femminile a trainare e a risolvere le  criticità e dove l’intelletto concretizza la sua essenza in una sorta di visione ultraterrena dal sapore mistico e trascendente. Non per nulla l’esergo della prima sezione intitolata Pentagramma apocrifo si regge su una frase di John Donne che liberamente tradotta recita: “gli angeli sono capaci di coinvolgere la nostra anima, e per ciò noi li veneriamo”. Parallelamente la seconda sezione denominata “Secondo pentagramma apocrifo” presenta come esergo i versi di Juan Gelman che riprendono il medesimo clima: “Angeli, angeli. / Chi dice di averli visti, non li ha mai visti / Chi li vede, canta dentro di sé”.  E gli angeli, infatti, hanno fin dalle prime pagine un ruolo di trade-union tra l’uomo e il mistero. Segnano un punto di incontro tra la secolarità e la religiosità. Offrono una prospettiva al dolore del mondo che si vuole redimere ma non si sa come.

All’Angelo del sognato fui vicina / qualche secondo nella collaretta di un labirinto. / Il grado ultimo del magistero alchimistico / imparai dall’Angelo del sognato, / dimenticata alla sua fosforescenza minerale.

L’Angelo che in remoti tempi ci divise / dissaldando la doppia creatura con la sua fiamma feroce / perché ci cercassimo / (…) oggi è qui / dritto in piedi / a riscuotere la caccia dai suoi guardiani.

Bastò una notte di martirio e dal cielo / piovvero fiammelle coi sette numeri / dei sette pianeti che lodano il Signore.

Si avverte fin da subito l’importanza della lezione biblica, talmudica, giudaico-cristiana. L’autrice ci immerge immediatamente nel clima della cabbala ebraica, inserendoci in un mondo magico che ci avvolge e a volte ci perseguita perché non riusciamo a comprendere dove ci possa condurre.

Noi non sappiamo nulla / siamo con le nostre pietre che ci ritraggono / santificati di un magro chiarore / sul fondo dell’Abbazia (…)

Si tratta di una specie di ossessione derivante da un’atmosfera di presenze, di corpi reali al limite della sensualità, e di ombre trasparenti, irreali, che narrano storie d’amore dai tratti surreali. Ed è la donna la vera protagonista di questa silloge, sia che si chiami Eva, sia che si chiami Bella o Lilit o Eleazar o Maria. Esse portano su di sé una strana inquietudine, sperimentano il caos di una realtà a volte estranea, a volte complice, vivono la loro fisicità come una contraddizione perenne. Demoni e angeli le costringono in una identità che non sentono propria e fuggono in un mondo fantasioso. Nemmeno l’attrazione del sesso le corrompe. Anzi. Spesso ne sentono la repulsione. E si rifugiano nella verginità o in una illusoria maternità.

Diabolicamente perseverando nell’umile proposta / di cambiamento, va Ireneo al martirio: / e la vergine Tecla / fatte le dita a particola tocca inorridita il gemizio / delle stimmate appena esplose. Altre donne / vanno al supplizio / leste, con lo zinale macchiato e il lessico dialettale.

Le parole hanno una forza dirompente che spesso travalica la corporeità ubicandosi in una specie di iperspazio immaginifico e al tempo stesso reale. C’è una atemporalità che trascina il lettore in un altrove, lo sorprende con una esposizione favoleggiante, ricca di demoni, mostri, angeli, santi, donne asessuate, bimbi traditi. Ci si ritrova in ambienti da fiaba, leggendari, immaginifici, che sembrano appartenere a tutti e a nessuno. La poetessa ci porta ad ascoltare versi che incantano e che raccontano in forma analogica i drammi del nostro secolo. Sono interessanti a tal proposito le note che l’autrice pone in coda alle poesie, in cui ricostruisce i suoi momenti di ispirazione. Da qui si può facilmente dedurre ciò che la Ombres valorizza maggiormente, vale a dire una cultura che si innesta sulla tradizione classica, sulla mistica ebraica, sulle fiabe popolari e non, sui racconti medievali. Si può registrare in questa silloge poetica una ricchezza di documentazione, un procedere attraverso sperimentazioni linguistiche, un richiamo a temi esistenziali che attraversano tutta la nostra storia. Sebbene a introduzione delle note Rossana Ombres scriva che “non sono state apposte per dotare il libro di chiose colte”, non si può non sottolineare la sua vasta erudizione che naturalmente non si sovrappone alla sua poesia, ma ne accompagna i versi e li traduce.

Non è un caso se il titolo di questa raccolta poetica si riconduce al libro di Richard de Fournival che nel XIII° scrisse il suo Bestiaire d'Amour.  È evidente che i due testi siano completamente differenti, essendo quello di Richard de Fournival intriso di cultura medievale, per cui l’amore diventa occasione per redigere un manuale didattico morale. In Ombres invece è la testimonianza di un percorso e di uno studio non solo culturale, bensì di una ricerca empatica che associa sapere e umanità, andando oltre il tempo, oltre la storia. È il processo di un’indagine psicologica e sentimentale che non vuole insegnare ma coinvolgere, non vuole dettare precetti ma risvegliare coscienze.

“Chi ha uno yod nel nome / ha il suono delle galassie future: / e lui era profeta di un mondo venturo / soprattutto per quel piccolissimo yod.”

Le vicende e i protagonisti di questa silloge possiedono un vigore che straripa in qualcosa di infausto, mortale e fatale, trascinati da demoni mutanti, avviluppati da una continua lotta tra bene e male, risucchiati in un vortice di parole e sogni, in attesa di una impossibile panacea. Gli angeli prendono corpo, ma i corpi si confondono in una inesausta ricerca e anche i nomi si sovrappongono, si scompigliano e rigenerano nell’esercizio persecutorio che vuole trasformare il sogno in realtà e la realtà in sogno.

“Allora si levarono i demoni / che erano stati messi a dormire / nei solchi del mondo prenatale / e miniarono mappe di itinerari controversi / e costrinsero le salamandre ad annodarle col fuoco”

Vita e morte, ragione e passione, desolazione e straniamento producono un senso di sgomento, la necessità di aggrapparsi a qualcosa e a qualcuno che sappia condurci fuori dal terrore e dalla paura. E invenzione tra le invenzioni nascono gli “Scarabangeli”, metà angeli e metà scarafaggi, messaggeri inquieti, creature misteriose generate nell’Eden dove “un fulmine tranciò / l’albero della Salvazione dai vinosi frutti”. L’intensità dell’immaginazione trae potere anche dall’ipermetria dei versi che segnano come una partitura musicale d’ampio respiro. E la musica in effetti fa da sfondo a tutta la raccolta. Basta percorrere l’indice delle poesie per evidenziare questo aspetto (“Tempo di rondò”, “Serenata”, “Buchstabenengel per la mano sinistra”, “Due cori per flauto e tamburello”, “Musica per l’ora prima”, “Ballata della figlia di Noè”). Musica e parole sono circostanze idonee e confacenti nell’inglobare incubi e sogni, visioni apocalittiche e aspettative epifaniche.

“La terra cominciò a tremare così forte! / Caddero muri / con tutti i loro interni carichi e caldi/ si chinarono gli alberi/ a raccogliere le loro foglie. / (…) L’anima, trasecolata, produsse santi.”

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Rossana Ombres (Torino, 1931 - Livorno, 2009) fu una voce inconfondibile e inimitabile nel panorama letterario italiano del secondo novecento. Nominata Accademico d’Italia, vincitrice di prestigiosi premi letterari, quali il Viareggio, il Grinzane Cavour, tradotta in diverse lingue, riuscì a interpretare i drammi e le ansie del secolo breve con una scrittura ricca di spunti linguistici originali, unica e peculiare.  Fu Andrea Breda Minello che la definì “anacoreta della parola”. Voleva intendere con ciò sia la grande attenzione che la poetessa impose all’uso della parola come strumento principe di comunicazione scritta, sia la sua attitudine e volontà di rimanere lontana dai salotti letterari per coltivare un suo modus operandi alieno dallo spettacolo e dalla notorietà. In effetti, pur lavorando alla Stampa di Torino, la sua opera non ebbe alcuna affinità con altri scrittori, non si avvicinò a nessuna scuola o gruppo poetico. Lavorò in solitudine e in solitudine rimase. Per tutta la vita. E oltre.

Enea Biumi


mercoledì 1 ottobre 2025

Gilberto Isella “Divaricando l’attimo” (Book Editore, 2025)


 Tentare la possibilità di porre iati all’interno di un flusso che è quello del tempo. Arduo compito nella fascinazione delle cose che fuggono e che tornano, quando la domanda esistenziale si avvale di una osservazione inquieta, critica, ma anche tesa verso una necessità di significazione pur problematica. Siamo tra le pagine donate da Gilberto Isella nell’esito poetico “Divaricando l’attimo”. Espressione in divenire tra immanenze tecnologiche dell’oggi e virate anelanti la trascendenza in una osservazione che si fa eco di tono metafisico: “mente d’astro subitanea irrompe/ salomonici sigilli scuote e disorienta/ boschi araldici dall’etere asporta/ e alla terra in sequenze li affida”. Adattamento di versi in strofe segnate da compressione di passaggi che ornano una domanda ancestrale, una identità tracciata da tessere congiunte e collegate nelle figure messaggere di segnali da interpretare, dove il rischio dell’oblio comporta la giuntura imprevista, l’intervallo quale tregua da un passato che incalza in ciò che assurge a possibile intervento, a concessa correzione. Il mistero comunque incarna la più sottile trasparenza del visibile che Isella analizza alla luce della peculiarità espressiva in sintagmi di diversa estensione ma sempre attinenti ad una complessa “solidità concettuale” che coniuga l’alternativa in espressione affiancante e integrativa. Così insorgono specificità quantistiche deviate in teoremi estendibili, in nature ostiche, quando “si aggrappa a fessure di muro/ ode nenie erbose dapprima/ pistilli stami sottilissime/ fibre da brezza cullate”. Ma insorgono anche tonfi e croste, gemiti e afasie, qualora un precipizio sia esposto ad indole di caduta, necessità di reinterpretazione attraverso coniuganti osservazioni naturalizzate in pensieri che il poeta scolpisce nelle partiture assimilanti la divaricazione come tecnica scultorea tra pianificazione della parola indicante l’enigma, così come la materia in attesa di percepire la sua forma in “strapiombi mentali”. Gilberto Isella è cultore di parola poetica in pensiero e spirito, attraverso l’uso del vocabolo corposo in una “geometria refrattaria”; cogliamo spunti di citazioni che coinvolgono Emily Dickinson come Eugenio Montale, Fernando Pessoa come Gabriele D’Annunzio, Valerio Magrelli e Camillo Sbarbaro, Dostoevskij e Mc Carthy...rimandi letterari che nutrono la contemporaneità stessa della ricerca nel suo intreccio espressivo tra le soglie e i passaggi di quell’andare che è domanda costitutiva e antropologica. Il verso elegante dell’autore ridisegna i confini di una partitura incurante del pericolo rappresentato da una concettualizzazione che qui riesce a farsi suono significante, dettatura accogliente le fasi del mistero e della cura, come l’espediente linguistico mai gratuito che richiama l’osservazione fonetica sul particolare rivelante. Brevissime, le poesie della seconda parte, si accentrano nello spazio della pagina connotando l’applicazione a stelo dove “l’umile disco della vita/ coinciderà/ con la parola cosmica/ la non detta/ ancora”; come la divergenza delle forme concede l’intarsio e la sosta, l’avveduta comparsa degli elementi tracciati e dischiusi all’osservante coincidenza di segnale e risposta. E’ una fluente meditazione sull’attimo che imprime ai versi l’attenzione in varchi e colori, squarci e amnesie, tendendo poi al passaggio verso ulteriori espressioni pensanti; “lì il muschio posa le tinte/ dei propri umori alogeni/ scontando le vertigini/ di chi l’ha calcato”, oltre il ritorno sillabico interno nella tramatura di suono e ritmo per cogliere la precisione del passo cronologico che assiste al tono possibile. Gilberto Isella deterge la pagina tra viali e tetti, albe e venti, silenzi e petali, onde e pause; le voci veicolano sussurri dagli interstizi, portando la complessità minimale dei particolari su destrezze linguistiche di elegante efficacia: “angolo giro che ruota/ intorno a breviari d’acqua/ terre rare e tormenti/ candele ignifughe e tare/ su pietre che accerchiano/ passioni mai sgravate”. C’è un tentare, comunque, un vedere risalire le cose verso un accenno di chiarore; formula che riporta le poesie ad ordine verticale d’inizio verso, quasi a riprendere il filo del tracciato tra le polarità della materia stessa affrontata nel suo essere, posta nell’ottica di una manipolazione che oggi si avvale della dirompente frenesia tecnologica per poi addossarsi ad una variazione grafica che allude a tensioni ulteriori ed opposte, perfino a richiami omerici. Certo, un intervento sarebbe quanto mai urgente per condurre verso la possibilità di cogliere tra gli spazi dilatati l’insieme dei ponteggi da noi costruiti nella ricerca incessante di riferimenti per risolvere almeno il moto iniziale della scrittura, il suo compito primario: “quadro da raddrizzare, chiodo/ estorto a un singhiozzo/ sfacciata obliquità”. Di ogni divaricamento si coglie quindi il tratto che manca, la sonora esclusione che conduce però non alla resa ma a quello spostamento della prospettiva che riporta alla cura, alla progettualità poietica esigente l’attesa di una memoria riavvolta e recuperata come preludio e scommessa, come evento che può raggiungere perfino la vetta mistica. Infatti l’ultima sezione evoca la figura di Ildegarda di Bingen, riferendosi al suo “Libro delle opere divine” nel conforto delle osservazioni e delle allegorie; “ma tu/ il suono giusto implora/ il suono/ non lo stridere eterno di un dubbio”. Il cromatismo è incisione verso un’apertura alta e ambita, in un passo che solca le asperità terrigne ma accosta poi moti che non escludono effluvi d’estasi: “io scosto garofani di fango/ giro la lancia/ guardo nel biondo divario/ delle trine”. Gilberto Isella compie uno sviluppo costante che supera cicli e rimandi, ponendo segnali svelanti limiti esistenziali ma anche prospettive possibili, in citazioni ad esergo; giungendo a quell’ “incespicare nei dislivelli/ brumosi del colle” che coinvolge Leopardi.

                          Andrea Rompianesi

mercoledì 20 agosto 2025

La poesia di P. Cascini "A Micaela Maria nata in piena pandemia" la menzione d’onore al concorso internazionale di poesia creativa "una stanza tutta per sé"


 Al poeta lucano Prospero Cascini con la sua poesia “A Micaela Maria nata in piena Pandemia” è stata assegnata la Menzione D’onore al Concorso internazionale di poesia creativa “una stanza tutta per sé”, promosso dall’associazione Culturale  Club della poesia di Cosenza, curata  con passione dal suo presidente Andrea Fabiani. Il titolo è riferito ad una importante opera di Virginia Woolf, dove attraverso la metafora si racconta la mancata libertà espressiva della donna. 

La giuria :Presidente/Rolando Perri – Dirigente scolastico, studioso donmilaniano, saggista e recensore letterario –  Componenti/Antonella Daffinoti – Scrittrice e poetessa – Maria De Fazio –Operatrice sociale e divulgatrice culturale – Elvira Dodaro –Avvocato e poetessa – Tommaso Orsimarsi – Scrittore e saggista – Concetta Natoli – Poetessa e scrittrice –

Pierpaolo Rodighiero –Avvocato – ha considerato come criterio discriminante l’attualità del testo proposto  oltre che il messaggio educativo che si propone attraverso il testo stesso. La poesia proposta esprime l’autentico dolore del poeta- nonno per la venuta al mondo di Micaela in Piena Pandemia (22- 6- 2020) e si conclude  con un impegno personale della Nascitura a darsi da fare per un mondo migliore.
Castelsaraceno, il paese lucano dove vivono Nonno e Nipotina!

   

                                                                                                                                                                         
  






mercoledì 30 luglio 2025

Un pomeriggio di poesia a Palazzo Verbania - Luino 27 luglio 2025

 

A unz a unz ul sù
al néga dènt ul lagh
Cul magùn in gùra
vàrdi ul dì ca’l và
e ul cò ‘l sbrisìga
fra i ùnd dul mè andà

Poco a poco il sole / annega nel lago / Con l’affanno in gola / guardo il giorno che se ne va / e la testa scivola / fra le onde del mio andare

   

Pàas l’è sto lagh ca’l dùnda barchirö
sü i ùnd dra nòcc in di tò sögn da fiö.
Pàas l’è sto seghèzz de lüna sül fà dul dì
ca scùnd baltròcch d’óman inciuchì.
Pàas l’è sto tòcch da ciél ‘mè n’ paradìs perdüü
par ingossà striòzz dumà par tì scundüü.

Pace è questo lago che culla un barcaiolo / sulle onde della notte nei tuoi sogni di bambino. // Pace è questa falce di luna allo spuntar del giorno / che nasconde meretrici di uomini ubriachi. // Pace è questo pezzo di cielo come un paradiso perduto / per ingoiare stregonerie solo per te nascoste.



TERRAZZA

Improvvisa ci coglie la sera.
Più non sai
dove il lago finisca:
un murmure soltanto
sfiora la nostra vita
sotto una pensile terrazza.
Siamo tutti sospesi
a un tacito evento questa sera
entro quel raggio di torpediniera
che ci scruta poi gira se ne va.

(V. Sereni)



lunedì 28 luglio 2025

Successo per il secondo "Streaming internazionale di poesia"

 

Numerosi poeti, da tante parti del mondo al secondo streaming internazionale di Poesia "Anima e Core”.

Per l'Italia: Cesare Castiglione, Rende; Prospero Antonio Cascini, Castelsaraceno, Potenza; Fausta Centomani, Tolve, Potenza; Giuseppe Turiano, Messina; Rossella De Rango, Marano Marchesato, Cosenza; Rita Scelfo, Palermo.

   


Per l'Argentina: Sade Filiale La Plata: Guillermo Pilía, Cristina Demo, Selva Simón, Walter Faul, Natalia Príncipi, María Belén Tassi, Carlos Burré, María Paula Díaz. Anche da La Plata, Bentivoglio Zurzolo. Di Santa Fe, Giselda Alicia Soriano e di Mendoza María Sofía Abarca.

Per la Spagna: Ana Belén Fernández Garcia (Burgos).

Per il Messico: Rossy Chávez Distretto Federale) e Doris Zoraida Telles Meneses (Toluca).

Per il Perù: Hernán Luis Anaya Arce (Chancay, Lima) e Clara Salas (Arequipa). 

Per l'Uruguay: Josè Lissidini Sánchez (Minas, Lavalleja).

Per il Cile: Lilian Isabel del Rosario Pizarro Araya (Andacollo).

 
Il set per la declamazione… di Prospero Cascini, accompagnato dai cugini Marchionna, esperti informatici, nella piazzetta di Ginosa Marina

Prospero Antonio Cascini, poeta lucano con la sua poesia “le Orme” ha centrato il tema del reading internazionale di poesia: lui è nato e vive a Castelsaraceno, paese dell’entroterra lucano, a 1.000 metri sul livello del mare e d’inverno spesso è in compagnia della neve…. Che convive col la sua generazione dei pantaloncini corti! Là vive la sua anima. D’estate vive a Marina di Ginosa dal 1974 del secolo scorso: è il cuore…, “nella corsa e rincorsa del sogno tra gli ombrelloni e gli aquiloni”.

“Le Orme” appartiene alla Lucanita ‘ Levigata

 Si esprime tanto apprezzamento per l’iniziativa e quindi un ringraziamento ad Andrea Fabiani , presidente dell’associazione culturale Amici della poesia di Cosenza e del suo Omologo Argentino Hugo Marsico!







sabato 26 luglio 2025

I limoni, Annuario della Poesia in Italia nel 2024, a cura di Francesco De Nicola, GiammaRò Edizioni, 2025


 

Pier Vincenzo Mengaldo scriveva che un’Antologia, com’è del resto questo annuario, è un peculiare genere metaletterario. In effetti radunare in un unico testo tanti scritti di diversi poeti e critici letterari è un atto che va “oltre” il semplice intento letterario. È una specie di dichiarazione di poetica che costringe il curatore ad uno sforzo di ricerca e di analisi nella valutazione di quanto accade nel mondo della scrittura.

D’altra parte, solo a scorrere le pagine di questo prezioso Annuario, ci si accorge di nomi che rientrano tra i principali protagonisti della produzione letteraria italiana. Certo, magari per qualcuno, ci sono nomi mancanti. Ma un’Antologia non pretende di essere la consacrazione né tanto meno una lezione di verità. Si tratta semplicemente di un riconoscimento, di una presa d’atto che per lo meno la scrittura è ancora viva e tale pretende di rimanere. Del resto, come viene esplicitato, nella presentazione, I limoni sono un “prezioso strumento di aggiornamento e informazione per chi ama la poesia”.

Tutto ciò è ribadito anche dal saggio “Come (non) fare un’antologia della poesia” di Francesco De Nicola, che prendendo lo spunto da una recente pubblicazione “Poeti italiani nati negli anni 60. Letteratura come condizione (Internopoesia, 2024) a cura di Francesco Napoli, afferma che “di tutti i libri che si possono pubblicare questo (cioè l’Antologia) ha l’autore più discutibile” perché spesso “riflette i gusti e le valutazioni” secondo “gli orientamenti critici del tempo”. E a sostegno della sua tesi riporta vari esempi, dalle antologie scolastiche a quelle per adepti, che qui è superfluo riferire. Citerò solo un assunto che condivido in toto: “il compito di un’antologia è quello di portare alla luce chi luce non ha”, sottolineando, come scrive l’autore, che spesso le antologie, soprattutto quelle scolastiche, hanno limiti che pregiudicano la comprensione della poesia, se non del poeta stesso.

L’annuario “I limoni” possiede a mio avviso una qualità: quella di non presentarsi come il tutto, ma come parte di un mondo letterario in evoluzione. E lo dimostra andando direttamente a scegliere le recensioni del presente, in particolare del 2024, di modo che si dà la possibilità al poeta di presentarsi in una veste critica riguardante testi di recente pubblicazione, tralasciando invece di riportare, come le antologie sic et simpliciter, vita e scritti di vari autori autorevoli e non. Sarà poi il tempo a dar credito o meno ai poeti recensiti.

Va detto che, accanto alle recensioni, il lettore trova pregevoli saggi che gli permettono una più matura e completa comprensione della letteratura non solo contemporanea. Mi limiterò, tuttavia, purtroppo alla sola citazione, sia dei saggi che delle recensioni, non avendo a disposizione uno spazio necessario per parlare di tutto e di tutti.

Ecco allora gli autori, recensori e recensiti, e il contenuto dei vari contributi pubblicati.

I recensori sono: Fabio Contu, Francesco De Nicola, Alessandro Fo, Alessandro Franci, Giuseppe Grattacaso, Vincenzo Guarracino, Giuseppe Langella, Massimiliano Mandorlo, Simona Mancini, Baldo Meo, Francesco Napoli, Lorenzo Pataro, Sara Vergari, Marco Vitale.

I recensiti sono: Laura Acerboni, Lorenzo Babini, Pier Luigi Bacchini, Elisa Biagini, Piero Buscioni, Barbara Carle, Alessandra Corbetta, Maurizio Cucchi, Roberta Dapunt, Mauro De Maria, Mary de Rachewltz, Massimiliano Luca Delfino, Cinzia Demi, Carlo di Francescantonio, Alberto De Raco, Paolo Di Stefano, Umberto Fiori, Alessandro Fo, Erika Formazaric, Alessandro Franci, Giovanna Frene, Andrea Giampietro, Michele Graziosetto, Maurizio Gregorini, Paolo Lanaro, Giuseppe Lagella, Manfredi Lanza, Isabella Leardini, Dante Maffia, Roberto Maggiani, Beppe Mariano, Maurizio Marotta, Vincenzo Mascolo, Francesco Paolo Memmo, Daniele Mencarelli, Claudia Mencaroni, Marco Pelliccioli, Daniela Pericone, Antonio Prete, Davide Puccini, Valentino Ronchi, Mauro Sambi, Alberto Schettini, Ida Travi, Rosella Valdré, Marco Vitale.

Non posso certo tralasciare di riportare anche gli autori e i titoli dei saggi che ritengo assai interessanti proprio per quelle peculiarità segnalate in antecedenza.

I saggi sono: “Debut du siècle in Italia: Aldo Palazzeschi tra liberty, crepuscolarismo e Novecento” di Francesco Napoli; “Palazzeschi e il futurismo: un rapporto unico” di Federico Gobbetti; “Le ‘Cannonate’ di Tizzoni-Finzi di fronte al futurismo” di Elvio Guagnini; “Guardare un’arancia sette volte” di Silvia Vecchini; “Come (non) fare un’antologia della poesia” di Francesc De Nicola; “Note sulla punteggiatura nera e bianca nei testi poetici contemporanei” di Elisa Tonani; “L’Orazio italiano: Giosuè Carducci e l’innovazione metrica del Novecento” di Fabio Contu; “La trasformazione del testo” di Pier Luigi Ferro; “Il viaggio che dura di Tommaso Lisi” di Raffaele Pellecchia; “In ricordo di Lorenzo Pataro” di Giuseppe Grattacaso.

L’annuario termina con l’indicazione di alcune pubblicazioni di saggistica, di alcune traduzioni, e di alcuni concorsi.

Ripeto, per finire, l’opportunità e direi quasi la necessità di libri come “I limoni” perché non se ne sa mai abbastanza di quello che avviene nel mondo tanto variegato della letteratura molto spesso legato a correnti, circoli, editori che raccontano solo di se stessi e non di altri. Io stesso devo confessare che tra gli autori pubblicati posso dire di conoscerne pochissimi. Ma sento e credo che allargare i propri orizzonti sia necessario. Alla fine ognuno farà le sue scelte, ma almeno con conoscenza di causa e senza pregiudizi di sorta.

 

Enea Biumi

 

mercoledì 23 luglio 2025

Sofia Fiorini, Il passero bianco, Vallecchi, Firenze

Non bisogna lasciarsi ingannare dalla fluida leggerezza dei versi che accompagnano la silloge del “Passero bianco” di Sofia Fiorini. Trovo, infatti, che la giovane poetessa – nata nel 1955 – esibisce un’energia ostinatamente combattiva fra i meandri della vita e della morte, tutta tesa a coglierne le infinite sfumature, a indagare e domandarne spiegazioni.

Partendo da una situazione onirica del ricordo dell’infanzia (la casa, il giardino, la nonna, il gatto) l’autrice riscopre il furto colpevole degli inganni, lo sconforto di una trama non nostra ma imposta, epigono forse di un male più esteso e assoluto che ci è dato da sopportare. Da qui l’ossessione adiaforica da superare per non rimanere travolti “perché i morti siano / morti e i vivi siano vivi / ognuno deve godere del suo sole”. “Aspettavo che mi si seccassero / le ossa – aspettavo di smettere / di soffrire per il freddo ed il calore”.

Attraverso un’atmosfera magica di un racconto fiabesco in versi Sofia Fiorini immerge il lettore nell’ossimoro di una realtà irreale, lo trascina e avvolge in un mondo fantastico costruito su un duplice piano, lineare e verticale, che sogna e desidera, e vive e immagina, e narra e sottace.

C’è un passo ne “La nascita della tragedia” di Nietzsche in cui si accenna a Re Mida che insegue il satiro Sileno interrogandolo su quale sia la cosa più desiderabile e migliore per l’uomo. La risposta è questa: “non essere mai nato, non essere, non esistere. Ma la seconda cosa migliore per te è… morire al più presto.” Ecco: in tutto il percorso della raccolta Il passero bianco rappresenta, da una parte, l’interrogativo di Re Mida e, dall’altra, la risposta di Sileno. Un ininterrotto ripensare all’esistenza entro i confini della realtà e del sogno, dove gli incontri si evolvono nella consapevolezza di una vita tormentata e subìta. “Che sorpresa quel mattino / umido sul fiume, credersi morta / e scoprirsi capace di dolore”.

Protagoniste, e antagoniste nel medesimo tempo, di questa favola poetica sono le Genti beate, che appaiono come fossero delle Erinni (“nel caso che le incontri, un uomo deve fuggire, altrimenti lo sbranano e lo divorano”) ma che restano perenni interlocutrici della poetessa. Anzi, in alcuni tratti e momenti specifici assumono l’ufficio di mentori, come sacerdotesse atte a introdurre la neofita ai misteri della vita. “E loro, ferme sul sentiero, / a me: «non hai altro posto, / non hai davvero / altro posto all’infuori di questo»”.

In ogni verso della silloge si respira come un senso di libertà, un desiderio di emancipazione da ogni struttura soffocante la propria personalità, una voglia di resilienza ad ogni tipo di costrizione e sottomissione. Tutto sembra rimandare ad una illusione che ricorda l’uomo di Schopenhauer irretito dal velo di Maia, che come in un mare in tempesta siede in una piccioletta barca fiducioso di non affondare perché si affida al principium individuationis. In effetti gli spunti che le pagine del libro rivelano sono un cartiglio classificatore che la scrittrice si sente in dovere di attuare: tra sogno e realtà scorrono gli istanti di una vita, come fotogrammi e interrogativi che avanzano ad apta. E si svelano, poco a poco, i segreti, si coglie, quasi improvvisamente, il sentimento d’amore: “Era lì, come un grande cervo (…) Mi parlò (…) Mi piaceva la sua voce”. Tuttavia ciò che resiste, ciò che è più sincero e vero, è ancora il mondo dell’infanzia perché tutto sembra risolversi solo nella fanciullezza, dove anche la tranquillità dell’anima si fa esplicitamente sentire. “Si fecero spiegare / cos’erano i bambini / e la scuola elementare. // Dissi che era il posto / in cui si sentiva meglio il sole”.

Si può dedurre, allora, che i tanti fantasmi che l’immaginazione può offrire, hanno il nome di destino. Così Il passero bianco non rappresenta unicamente la fatalità che dalla vita conduce alla morte, ma diventa tout court un desiderio di trascendenza, una studiata e consapevole libertà di scelta. “Questa anche per noi sarà una festa / – mentre le fate traghettano / i morti all’altro mondo – la festa // in cui ognuno si riprende le sue ossa.”

I versi di Sofia Fiorini diventano pertanto anche una ricerca della verità, un discrimine tra illusione e realtà, tra fantasia e concretezza, ribadendo in maniera icastica che la salvezza – di se stessi e del mondo – è un’incessabile indagine, un controllo meticoloso del possibile e dell’impossibile. E tutto ha inizio e fine in una specie di dégorgement che svela cosa possa perdurare nella contrapposizione vita e morte. Così il tempo diventa l’enigma più seducente e simbolico. “Silenzio lunare. / Nessuno mi aspetta. / Tempo della mia segretezza”.

La parola assume, in questo contesto, un’importanza vitale per la sua autenticità e inalienabilità. Allo stesso modo, autentico e inalienabile è il mondo dei bambini in cui il dolore, tutto sommato, viene esorcizzato tramite il sogno che supera la cavità del tempo e fa riemergere sensazioni tattili e uditive. “Cercavo, cercavo / il lenzuolo sotto la corteccia / cercavo con le mani la mia faccia, mi chiedevo lui dove fosse / a quell’ora del sabato, / tra l’uno e l’altro / di quei timidi tocchi di campana.”

La parola in sé diventa non solo parte della favola ma pure parte della vita della poetessa. La accompagna. La imprigiona. La distrae. La umilia. La ridicolizza. L’aiuta. La salva, infine.  Nel coacervo di segni, apparentemente indecifrabili, nella molteplicità dei simboli, la fiaba-poesia svela il suo significato. Le sensazioni che la Gente beata aveva acceso nel cuore dell’autrice attraverso la sedimentazione di un costante dialogo, per altro a volte contrastato e in contrasto, recuperano quell’erlebnis forse scordato, forse rimosso, ma comunque riferito alla vita vera, sia pure narrato nel corso di una fiaba. “Ero pronta, ero pronta / non avevo fatto altro / tutto l’anno, sarebbe stato / come chiudere un cancello”.

È un poetare adulto, questo di Fiorini, che evoca una sorta di ontosofia che disvela come il contingente e il quotidiano possano essere ancorati a un linguaggio onirico e simbolico senza nulla smarrire dell’essenza stessa di un esistere in funzione dell’hic et nunc.

 Enea Biumi


Rossana Ombres, Bestiario d’amore, Graphe.it Edizioni, Perugia, 2025, € 12,00

  Nel Bestiario d’amore, pubblicato da Rizzoli nel 1974 e ora riproposto da Roberto Russo per le Edizioni Graphe.it, nella collana diretta d...