I
detriti incombono. I detriti sono protagonisti della raccolta di poesie
“Disregolazioni”; autrice Valeria Cartolaro. “Io tendo all’ossessione” confida
il verso iniziale della prima poesia e continua poi in altro passo: “e di
fretta, la fretta dilata i detriti/ li gonfia e pregni un pegno da pagare/
diventano la famiglia e gli amici”, attraverso un succedersi irregolare che
compone sonorità efficaci e allitterazioni consonantiche volutamente
incombenti, eterodirette a ulteriori e altri discernimenti. A passaggi che
deragliano verso le polarità impreviste nella conduzione che innesta nel tempo
delle sillabe il ritmo dei passaggi. Nelle disregolazioni il prefisso è
negazione ma anche dispersione delle regolazioni stesse, di quel modo che è
ordinare, sistemare, così come limitare e controllare attraverso il filtro
della combinazione che apre all’osservazione e al percepire l’effettivo slancio
della cognizione capace di raccogliere le singole parti, i frammenti, le
scorie. Voce giovane che esprime esito in costante maturazione tra le pagine
dove “Qualcosa che non so tiene insieme queste mura”, tra dense sponde, una
bruma che accenna o porta verso respiri ma anche strappi, calce, frasche, sogni
e silenzi. L’asimmetria dei versi in molti tratti sembra interrompere ma pure
coniugare la vocalità dei transiti e dilatare varchi verso accostamenti
imprevisti. “Se ascolto/ guardo la pece diventare un pesce giallo/ limare le
sue lische appuntite”; polveri, allora, assumono le sembianze di realtà
disperse o mai compiute dicendole, con una citazione “variabile”, “abitatrici
di mastabe”. Valeria Cartolaro combatte la prossimità per includere regesti di
reazioni alla vicinanza con le cose, così come con la proposta anche dicibile:
“Nudi patiremo la stirpe che verrà/ ci avrà sicuramente la paura del viaggio/
quella sua andatura storta”, oltre avamposti gelati e fibre tossiche, ben al di
là di accensioni solo relative alla portata del rivelare. Sembra l’inizio di
una contesa dove il tempo scardina le progressioni, concentra e accorcia gli
iati, non teme sete e fango, abbandoni prospettici, veleni corrosivi che
attentano all’equilibrio delle stagioni già non più ortodosse. “Volevo stare
nell’acqua che schiva i sassi/ passa tra i grumi di terra/ si trattiene nelle
assi di muffa” scrive l’autrice; una presa d’atto condotta attraverso moti e
sospensioni che disgregano una vicissitudine e, come indica Andrea Ponso nella
postfazione, conducono a immagini frante e a ritmi percepibili.
Andrea Rompianesi