mercoledì 28 maggio 2025

SEI AUTORI RACCONTANO IN TV LA LUCANIA ATTRAVERSO I PROPRI LIBRI

                                                                Giovedi 29 Maggio

ore 17:30

  I MAGNIFICI 100

MEDinLUCANIA TV

Social Media MED

  MEDinLUCANIA FOCUS ritorna con altri 6 importanti autori  per raccontare la Lucania attraverso i libri 

 Gianfranco Blasi (Potenza)

Nunzio Festa (Pomarico)

Bruno Di Pietro (Montemurro)

Vincenzo Corraro (Viggianello)

Filippo Gazzaneo (Senise)

Prospero Cascini (Castelsaraceno)

 

Conduce Leo Pisani

 Introduce Dino Nicolia

 Regia Michelangelo Tarasco


Il 29 Maggio alle ore 17,30 in TV (medinlucana tv) 6 autori lucani parleranno della LUCANIA attraverso le proprie pubblicazioni in un incontro condotto dal giornalista Leo Pisani. Ne parleranno G.Blasi, già parlamentare della Repubblica, appassionato di Poesia: si ispira ad un filone letterario  nato negli Stati Uniti nei primi del 900 “IMAGISMO”. E’ il piu’ intraprendente divulgatore culturale della nostra Regione.  

N. Festa : è nato a Matera, ha vissuto a Pomarico, in Lunigiana e ora vive in Romagna. Giornalista, poeta e scrittore collabora  con Liguriaday, Corriere Romagna  ed altri spazi  cartacei e telematici .

B. Di PIETRO( vive e lavora a Napoli esercitando la professione forense ) ha pubblicato alcune  raccolte poetiche, suoi interventi di critica  sono apparsi su Nazione Indiana. E’ presente in numerose antologie. Fondatore con Gabriele Frasca e Mariano Baino della casa editrice ”d’IF”. Vincenzo Curraro vive sui monti del Pollino, docente di lettere, ha esordito nella narrativa nel 2005 con il romanzo “Sahara Consilina”, poi la raccolta di racconti ”dimmi che centra la felicità”, poi la raccolta di poesia ”l’età del bosco”: Scrive testi per spettacoli per bambini per il Millenium Enseble, gruppo di fiati  romani.

Filippo Gazzaneo , vive a Senise e insegna storia e filosofia , narratore e poeta: traspare nella sua attività artistica il suo antico AMORE per l’ideazione, la scrittura e regia di spettacoli teatrali, scrittura di testi di analisi ,critica letteraria, filosofica e storica. 

P. Cascini, già dirigente scolastico, già consulente psicologo presso le case circondariali di Potenza e Lagonegro, nel 2016 ,dopo sessant’anni dalla sua primina (1956),si è pensionato e si è dedicato alla Poesia come amore per la sua terra e la sua Regione e i suoi affetti. Nel 2024    la sua silloge” IL GIROTONDO.. tra primina e buona scuola nella  Lucania” ha vinto il primo premio al concorso nazionale di Poesia  “ versi nel borgo”. E nel 2025 L’opera “L’unicita’ della Lucania: un approccio fotografico e poetico” è stata premiata nel concorso letterario internazionale COSENZA.. CITTA’ FEDERICIANA. 

L’incontro sarà introdotto da Dino Nicolia, Funzionario della commissione Europea  dal1988,dove si è occupato  di Politica Industriale, Politica Ambientale e ora di PAC (Politica Agricola Comune)e segue i programmi di sviluppo rurale delle piu’ importanti Regioni Meridionali . Ha pubblicato un importante testo sulla strategia euro mediterranea e le politiche di sviluppo per il mezzogiorno con prefazione dell’ex presidente ONU l’egiziano Boutros Ghali E’ Presidente dell’associazione MEDinLUCANIA una associazione che riabilita  l’impegno civile al servizio del bene COMUNE.

La Regia sarà curata da Michelangelo Tarasco! 

 


 

venerdì 16 maggio 2025

Antonio Rossi “Quandoltre” (Book Editore, 2025)

 

                               


 Davvero possiamo cogliere l’identità di una partitura specificamente vitale e accuratamente fonosimbolica, attrezzata ad uso sintattico svelante oltre l’approssimarsi reiterato del quotidiano, verso ulteriori esegesi del reale. “Quandoltre”, titolo poetico di Antonio Rossi, assume la valenza di una interpretazione compatibile con l’imprevisto del dato, accostandosi alle cose attraverso una variegata composizione ontologica. ”Una fune affilata/ nottetempo il prato/ delimita; nessuna/ lesione o suppletivo/ assillo da essa procede”; così comporta lo stratificato geologico che si riflette nell’atto del definire, nella poiesi articolata, il lessico materico concretizzante gli spazi, i luoghi, le configurazioni periferiche attinenti alla pratica elaborativa posata sulla capacità dell’autore di essenzializzare nel nitore semantico, la pluralità dei suggerimenti; umori di anastrofe o iperbato determinano schemi linguistici di una sapiente formazione strutturale. La scrittura poetica di Antonio Rossi è pregiata, raffinata, accurata; imposta calibrature ad evento nello stimolo, poi fissate appena da successione dei termini e concede esemplare fusione di nitore e ritmo, nel delineare le cognizioni che l’ambiente suscita nell’osservatore quando la molteplicità dei dati richiede la forza delegata al processo di sintesi. “Soppalchi a sfalsata geometria/ e multiple capriate nonché tramezzi/ unitamente a studiati avancorpi”; quasi intelaiature foniche decrittate e riprodotte in assunzioni di termini strutturalmente composti in una espressività solida, come innestate nel corpo degli ambienti quasi fossero cantieri che rendono la loro configurazione oggettuale in versi includenti fonetici supporti, destinazioni e fogge, ponteggi e arredi, travetti e andatoie. “Colorate lanterne trattengono”...come possibili interni d’inespresse vicende fermate in un tempo sospeso; atmosfere e giacimenti, utensili e abissi contendono alla spazialità della pagina l’incessante metamorfosi appagata nella sedimentazione di un linguaggio che ferma l’inquadratura in una davvero sorvegliata regia densa e protratta nella non esclusa visibilità diuturna pure tra i vapori sprigionati, “sotto un cielo che solo detriti/ e schegge porta”. Sfoghi e parole, sospiri e pertugi, disamine e istanze conducono ad adagi costituenti la precisione espressiva della sintesi poetica in un comporre fonetico attento alla sosta, alla calibratura prosodica, nella trasposizione di segni che dalla natura circostante esplicitano traiettorie e mutamenti non solo consueti. “La lungamente disattesa/ stazione di ristoro i vaganti/ fra i piani larghi accoglie”; c’è un sentire di afflati notturni scolpiti in una visibilità musicale che denota frequenze sillabiche, ritmi posanti la fruizione accentuata attraverso vegetali rimandi e meccaniche deviazioni. Antonio Rossi si pone in questo suo lavoro testuale “ad una certa distanza” per osservare con cognizione e senso maieutico della scrittura poetica dove è segno cogliere l’accento accorto della definizione rigorosa. “Ma pur se’n vanno/ flussi e folate contro la più alta/ scogliera e le onde che dal deserto/ cortile s’intravedono a sé ogni cosa/ chiamando”.

 

                                                              Andrea Rompianesi

 


Tre lucani tra i premiati al Diciassettesimo concorso letterario “Cosenza città federiciana”

 


L’associazione socio-culturale “club della Poesia”di Cosenza che, da sempre, organizza il Concorso ha diffuso una nota stampa nella quale comunica i premiati del concorso Letterario internazionale.

Nella sezione poesia libri editi, sottosezione “plausi ars poetica” è inserita la silloge “L’unicità Della Lucania: un approccio fotografico e poetico” di Prospero e Valerio Cascini, Monetti editore, presentata l’anno scorso al salone del libro di Torino e che sara   presentata nel comune di Grugliasco (To) sabato prossimo 17 maggio, unitamente all’inaugurazione della mostra “Terre lucane” del pittore Gianni Bergamini che ha già  tradotto in dipinti tante poesie della silloge. Lo stesso comunicato informa che nella sezione narrativa edita, sottosezione menzioni d’onore è inserito il testo “Altomonte e dintorni” di Nuccio Provenzano, Pellegrini Editore.

Le commissioni giudicatrici sono state così composte: sez. poesia, presidente prof.ssa Concetta Natoli (poetessa, scrittrice) presidente onorario dott. Vincenzo  Galluzzi (dirigente medico e Poeta) e i membri giurati Elvira Dodaro, Valentina Iusi, Gioconda Oliano, Teresa Esposito, Antonio Marullo, Giuseppe Piluso e Pierpaolo Rodighiero. Tutti poeti o esperti della materia.

La commissione Sezione narrativa è stata presieduta dal prof. Rolando Perri (dirigente scolastico, saggista, recensore etterario). Gli altri giurati sono stati Tommaso Orsimarsi, Antonella Daffinoti, Erminia Madeo e Maria de Fazio. Tutti esperti della materia. I tre premiati sono originari della zona sud della Basilicata (i cugini Cascini di Castelsaraceno) e Nuccio Provenzano di (San Severino Lucano).

Valerio Cascini vive dal 1963 a Torino, ma frequenta Castelsaraceno da sempre e scrive le sue poesie in vernacolo castellano-lucano. Nuccio e Prospero sono stati tanti anni insieme a Lagonegro: loro città studi. Nuccio, da tempo ormai, vive ad Altomonte e come un buon lucano ama il paese in cui vive.

Le premiazioni ci saranno il 14 e 15 giugno presso l’hotel san Francesco Rende (Cs).


 


lunedì 5 maggio 2025

Carlo Ricci Bertarelli, Trasformazioni, Il Convivio Editore, 2023, € 8,00








Gli “appunti di passaggio”, come li definisce l’autore nel sottotitolo alla raccolta, si riferiscono alla città di Milano. Una città spesso in contraddizione con se stessa, una città che mette alla prova chi la incontra, una città che affascina e che spaventa, ma che alla fine ci coinvolge e ci avvolge. A ben vedere il poeta Carlo Ricci Bertarelli si inoltra fra le mura e le vie della città cercando di scoprirne i segreti, di carpire il suo evolversi, di capirne gli umori e le frequentazioni. “Trasformazioni” è una silloge di profondo desiderio e d’amore per Milano, vista e visitata con consapevolezza e ottiche sempre diverse, come disparate sono le occasioni di incontro. L’autore, esplicitamente, non sostiene d’amare la città. Ma i suoi percorsi, i suoi “fotogrammi” non sono altro che la traduzione della magia e del fascino che Milano offre. Carlo Ricci Bertarelli è uno dei tanti non milanesi d’origine che diventano nel tempo milanesi de facto. Lo testimoniano queste liriche che sono il prodotto di un vissuto interiore in intimo contatto con la città. “Sono solo / appunti di passaggio” afferma nella prima poesia che introduce la silloge. Tuttavia, mano a mano che il lettore prosegue, si rende conto che gli appunti diventano momenti essenziali per una comunione d’affetti che anelano all’essenza stessa della città. “Mi passa accanto la città / traccia confini d’inverno e cemento / nei profili scossi dei mattoni / terre di fraintendimenti // di crepe marmoree // ma i confini sono traiettorie distratte / di grafici / estratte dal sedimento”. Ecco che Milano si insinua nei pensieri del poeta attraverso le sue case, le sue vie, i suoi inganni prospettici e quasi surreali, che diventano interlocutori, comunque, di un tragitto, di uno scorrere, di un 
πάντα ῥεῖ esistenziale. E allora il suo viaggio si fa più reale e dichiarato: “L’ululato del treno / scuote i sotterranei”, “Dal tunnel della metropolitana / le scale eruttano passi”. Così la mimesi diventa un contributo alla comprensione, coniugando aspetti occasionali, come un incidente d’auto, a visioni dal sapore strettamente realistici come: “Nell’attesa / il sole ormai è sorto/ la città è già in fiamme”, “È mattino presto / l’asfalto d’agosto già ribolle.”, “Nel giorno che s’attarda a fioca luce”, “Mi sorprende la sera / in uno slargo tra le case nell’ora / che ti ho rivisto camminare tra le aiuole”. La visione esterna, reale, della città viene introiettata nella coscienza dell’autore tanto che non vi è più differenza tra una fotografia e una riflessione, tra quello che appare e quello che invece è il sentimento del poeta. “Così mentre cammini alzi il naso, comunque / rimani risucchiato da quelle altezze / e stai lì stupito a guardare la trasformazione / ognuna come un’ombra che sorge o un racconto / e subito rientri, invischiato / senza parlare. – Guardali: sono gli Dei – Pensi.”. Nasce così quasi un prodigio: Milano che affascina e strega il poeta, che non gli permette di distaccarsene, che lo trattiene e lo culla. “A Milano, a passeggiare in centro / è come passeggiare in salotto: / un salotto ben arredato, curato. / Nelle vie eleganti del centro / sembra di non uscire di casa / passi di strada in strada / come di stanza in stanza;”. Nonostante ciò, l’autore è costretto a staccarsene. Forse per questo è indotto a sottolineare, attraverso una rievocazione in versi, il suo rapporto con la città, a cantarne elogi e difetti, ad offrire al lettore un diario particolarmente emotivo. Alla fine, una confessione traduce in sintesi il suo stato d’animo: “Se non fossi / dei miei boschi / delle nebbie novembrine // di questo cielo incastonato / tra grovigli di colline // d’etrusche radure / di terre brune // abiterei te / sarei delle tue brine :/ sinceramente // mia cara Milano”.



Enea Biumi

 


giovedì 17 aprile 2025

Carlo Zanzi, Corpi imperfetti, Macchione Varese, 2025, € 15,00

 



Il romanzo di Carlo Zanzi “Corpi imperfetti” si dipana in una doppia scrittura: una in cui il protagonista si narra in prima persona, l’altra in cui le vicende vengono rappresentate in terza persona. Ciò che lega i due momenti narrativi, apparentemente così diversi tra loro, almeno nella forma, è la ricerca di un perché sulla fragilità umana. Mauro si interroga sulla propria decadenza, si arrovella per trovare una spiegazione al suo malessere fisico che diventa immediatamente anche malessere morale, mentre l’autore, scegliendo una narrazione in terza persona, mette in luce una serie di gesti, situazioni, linguaggio, che portano il lettore a riflettere sulle astenie, sulle incertezze, sulle frustrazioni che offre la vita. Non è nuovo, Zanzi, ad una narrazione costruita sulla debolezza umana. Ma in questo nuovo romanzo le domande rimbalzano più prepotenti e trovano un’esplicita risposta nel dialogo con Dio. Non è facile raggiungere un equilibrio sentimentale qui in terra. Non è facile non soggiacere al dolore per la perdita di un figlio. Ma la speranza di un ritrovarsi in un possibile aldilà dà forza e continuità ad un’esistenza che sente la propria fine imminente.

Chiaramente non si tratta di un romanzo a tesi. La vita è vista e descritta in maniera realistica. Zanzi non pretende alcun insegnamento, né ci obbliga a determinate condivisioni. La constatazione dell’imperfezione umana rende il racconto più vicino al lettore e lo invoglia a riflessioni che forse in periodi recenti non si è più usi ponderare. Tra l’altro, la presenza del covid, pur non essendone la conduzione principale, rende più concreta e attuale la considerazione sull’inconsistenza e la fragilità dell’uomo. Anche l’amore che i due giovani protagonisti perseguono ha un andamento oscillante e a volte decisamente incerto. Oltre alla presenza della pandemia, l’autore fa un quadro della “sua” città, Varese, che risulta perfettamente parallelo e intrinseco alla vita dei suoi personaggi. Varese è presente nei pensieri, nei gesti, nelle abitudini dei protagonisti, viene descritta, non dico nei minimi particolari, ma nella verità di una realtà urbana vista a tutto tondo: con le sue vie, le sue chiese, le sue piazze, i suoi pregi e i suoi difetti. Non è un caso se in uno degli ultimi capitoli Zanzi parli del funerale di Maroni. In tale contesto non possiamo omettere che lo scrittore è anche autore di un Valzer par Varés (parole e musica) che lo ha reso celebre in città.

Nel capitolo finale, come fosse un postscriptum, troviamo un’annotazione personale. L’autore abbandona le vesti dello scrittore per indossare i panni del figlio. Ritroviamo così un omaggio a sua madre Ines, redatto a pochi mesi di distanza dalla sua morte. Omaggio che comunque rimane nel contesto del romanzo: una meditazione sulla fragilità umana nel commovente ricordo della scomparsa di una persona cara. È il desiderio di un figlio che non vuole dimenticare il valore e l’importanza della propria madre, come “un bisogno di annotare i ricordi di lei, un tentativo estremo e ‘inutile’ (eppure potente) per sentirla vicina.”  E anche in quest’ultima riflessione ci si sente la labilità di ciò che l’uomo vorrebbe e la sua inutile, seppur immensa e vigorosa, inanità.

Enea Biumi


martedì 15 aprile 2025

Carlo Banfi, Lo svizzero del Canton TI, Giuliano Ladolfi Editore, 2025




Con questo romanzo Banfi ritorna alla descrizione del suo mondo rurale per farne un elogio spassionato, sincero, certo, ma non nostalgico, bensì realistico e attuale. L’incipit stesso ci immette immediatamente in un’atmosfera contadina che si materializza attraverso un colloquio ideale con una donna di nome Oniria.

“Oniria, tu vuoi che io ti racconti come sono questi miei giorni infiniti di sole, con la terra riarsa e la tenue ombra che ti dà sollievo nel pomeriggio infuocato. Cammino coi piedi scalzi nell’erba da poco rasata e senti la frescura che ti tonifica, ma manca l’ardire di affrontare il campo aperto, regno di luce.” (…) “Oniria tu vuoi che io ti racconti di questa continua attesa e intanto il sole arde e divora le cime anzi che precipitino nel freddo squallore dopo il crepuscolo.” “Ed è già sera, la mia sera.”

In questo approccio, che possiede un sapore e una forza poetica montaliana, possiamo scorgere una specie di correlativo oggettivo che ci indica il percorso. I giorni di sole sono senz’altro momenti di vita, mentre la terra riarsa fa pensare alle difficoltà che si incontrano giorno dopo giorno, in cui solo una tenue ombra dà sollievo al pomeriggio infuocato. Allo stesso modo l’incedere a piedi scalzi non fa altro che sottolineare una contrapposizione esistenziale: da una parte l’ardire e l’ardore nell’affrontare il quotidiano, dall’altra la fatica di fronte a problemi spesso irrisolvibili, che creano disagio e paura di fronte alla realtà. La continua attesa, invece, mi fa pensare ad una aspettativa di un futuro migliore prima che il male o il dolore ci assalgano (anzi che le cime precipitino nel freddo squallore). Mentre la sera, non è necessario sottolinearlo, riprende la metafora foscoliana della morte.

Non vorrei però forzare la mano ad una interpretazione allegorica di un romanzo che è espressione di realismo e di attualità, per quanto sentimentalmente affine ad un inno amorevole e poetico nei confronti della natura. Oltretutto il nome scelto per l’interlocutrice ci fa intravedere come il racconto sia a mezzo tra desiderio e sogno. E ci indica un auspicio: che il desiderio si avveri ed il sogno ci permetta il ritrovo in un locus amoenus, ricreato attraverso la scrittura in un’ideale di vita in sintonia con la natura stessa, scandita dalle stagioni e dalla storia.

Un primo elemento, quindi, che emerge immediatamente, al di là dell’approccio lirico riscontrato, è l’incontro con la “Grande Madre”, la Terra. Un incontro sostenuto da sincero affetto, come atto dovuto di riconoscenza. Un incontro di devozione e ammirazione per i doni che Cibele ci offre, per il prodigio dei frutti che ne sortono, per la necessità di un sostentamento vitale, per la visione pacifica, ancorché difficoltosa, di animali che interagiscono con gli uomini.

Spesso Banfi, nei suoi colloqui, mi parla del suo “eremo”, una specie di personale e solitario rifugio. Che non è soltanto una costruzione materiale, vale a dire casa fatta di sassi e mattoni con allegato terreno agricolo e boschivo, bensì edificio (e artificio) letterario, innalzato in un mondo protetto, in cui si fondono l’Arcadia teocritea, le Bucoliche virgiliane, e le Mirici pascoliane, il tutto riportato alla contemporaneità in cui i ricordi d’infanzia della campagna del basso varesotto (Caronno Pertusella), il lavoro quotidiano (insegnante a Luino), la storia (la liberazione del ’45 attraverso le lotte partigiane) e l’attualità (la recente pandemia) si fondono in un unicum corpus. Si tratta, per intendersi, come una indispensabile voglia di equilibrio - forse impossibile - tra la ricerca della serenità personale e le tragedie della Storia, analizzate in forma profonda e adeguata.

D’altra parte l’autore non è nuovo a questo procedere. Si possono ricordare a tal proposito i suoi precedenti romanzi. Infatti, “Il capanno”, “La via Palestrina”, “Linea Cadorna”, offrono contenuti che si avvicinano prevalentemente ai due filoni individuati in “Lo svizzero del Canton Ti”: la Natura e la Storia. In tale contesto il suo sguardo si inoltra nei dettagli, si fa investigatore e accanto ad una panoramica oggettiva della campagna costruisce soggettivamente sentimenti, proiezioni, inibizioni, storie vere o veritiere di una umanità spesso sconvolta ed oltraggiata, quasi sempre succube di un destino contrastato e crudele. Così l’incontro con la storia antica (quella del ‘500), con la tragedia della seconda guerra mondiale, con l’idillio campagnolo, diventano occasione per uno sguardo ai comportamenti d’oggigiorno. Oggi, ci suggerisce Banfi, gli istinti dei giovani e la loro educazione vengono deviati sull’effimero e su un inconsistente edonismo, che non portano a nulla, non lasciano impronte e spesso sono delinquenziali e ammorbanti l’esistenza comunitaria.

L’autore è consapevole di non avere a disposizione la bacchetta magica, ma nel contempo non vuole rinunciare alla denuncia. Di fronte alla crisi economica che ci attanaglia non pone soluzioni, ma verifiche. Esistono problemi di immigrazione ed emigrazione che non vanno affrontati con vuoti slogan che non concludono nulla. Anche perché, molto probabilmente, l’uomo in sé non è capace di appianare le cose. È necessario, dopo aver fatto i conti con il dolore fisico e con l’angoscia morale, che l’uomo da solo non potrà risolvere, andare oltre. Per questo Banfi introduce l’argomento religioso attraverso l’incontro, ad esempio, con le Romite del Sacro Monte. O l’accenno a papa Francesco che indica la corsa al denaro come uno dei peggiori mali dell’umanità.

Ecco allora che davanti a tutta una serie di problematiche odierne, la vita rurale si trasforma idealmente in un luogo di serenità e pacifica convivenza, un ultimo angolo di mitica “età dell’oro”, momento di sopravvivenza idilliaca, tipica delle utopie letterarie. Tuttavia non possiamo estraniarci o rinchiuderci in torri d’avorio. Per l’intellettuale la ricerca della verità è un fatto incontrovertibile. Irrinunciabile. È per questo che in “Lo svizzero del Canton Ti” le descrizioni sono realistiche, vivaci e sempre dosate e raffinate. Banfi, in ultima analisi, non rinuncia al concetto di αλήθεια (verità) che unito a quello di ασυχια (tranquillità) mi fa comprendere anche la sua poetica. Questi due parametri possono avere una funzione catartica nel suo romanzo. Sicuramente lo sono nella vita.

“Eri tu, Oniria, volto di sogno, augurio di ogni bene e felicità.”

Enea Biumi


domenica 13 aprile 2025

Marilyn Bobes, Cancellare il tutto, Genesi Editrice, Torino

 



Lo scrittore e poeta uruguaiano Mario Benedetti, discettando in un breve saggio sulla poesia cubana del secolo XX,(1) annotava – cito parafrasando – come la maledizione consumistica avesse relegato la poesia ad un articolo che non si vende. Di conseguenza gli editori si rivolgono soprattutto al mercato del romanzo, indirizzandogli, e spesso imponendogli, contenuti e forme che non lascino dubbi sul guadagno economico. Di fatto però il povero poeta viene liberato da qualsiasi imposizione, sia ideologica che stilistica, per cui, a questo punto, può riversare la propria sensibilità su ciò che più gli aggrada e gli detta il cuore. Per quanto riguarda la poesia si tratta evidentemente di un fattore positivo. La marginalità, infatti, in cui essa viene rinchiusa le permette una libertà incancellabile e insopprimibile. In questo clima di apparente emarginazione, una specie di borderline letteraria, si situa la silloge poetica “Cancellare il tutto” di Marilyn Bobes, poetessa contemporanea di origine cubana. Sottolineo l’aggettivo apparente e il termine emarginazione, perché ad una disamina più approfondita i suoi versi appaiono come tante frecce destinate a imporsi in un panorama culturale più esteso e ricco. Versi “pesanti” i suoi: e “pensanti”. Pesanti perché affondano nelle radici più profonde del nostro essere uomini. Pensanti perché creano un circuito di situazioni, domande e riflessioni che non lasciano spazio al pressapochismo o all’adiaforia. “Né tu né io sappiamo / cosa c’è / dietro i suoni imprevedibili del crepuscolo. / Noia? / Sterilità?” “Perché salire di quota / in un verso strisciante / come la spiritualità / dei tuoi contemporanei?” “Da tutte le parti echi / nei vicoli in rovina / di questa piazza assediata”. Mi sembra quasi di assistere a quelle partiture musicali di Edgar Varèse o Luigi Nono che nel disordine delle note richiamano l’ordine delle cose. La comunicazione pertanto diviene più intensa ed emotivamente certa, confluendo e affluendo nel vasto e misterioso mondo della poesia. Non è difficile notare come in ogni verso si respiri un senso di libertà, un desiderio di emancipazione da ogni struttura soffocante la propria personalità, una voglia di resilienza ad ogni tipo di costrizione e sottomissione. “Non li convincerai / con pochi / sintagmi / vinti / dall’abuso”. Non si tratta, attenzione, di mera protesta. La scrittura della poetessa cubana converge in una direzione in cui è necessario apprendere per riconoscere se stessi, per trovare la propria dimensione e identità, per sapere se esista o meno una vocazione cui appellarsi. “Arrenditi ora / all’ipotetica disgrazia / di avermi preso in considerazione”. Insomma, ella chiede e si domanda, anche se nessuno risponde, e risponde e si risponde, sebbene nessuno domandi. “E tu non sei tu / e io non sono io. / Nemmeno / caricature / delle nostre passate / identità”.

“Cancellare il tutto” mi riporta alla mente il finale apocalittico della Coscienza di Zeno, la constatazione che “la vita attuale è inquinata alle radici”, la riflessione sull’uomo occhialuto che costruisce ordigni tali da distruggere ogni cosa perché si possa finalmente ritornare alla salute-salvezza tanto auspicata.(2) La silloge della poetessa cubana suggerirebbe quindi, in un primo momento, di cancellare tutto ciò che è stato, cancellare il male ed il bene, cancellare l’immagine del passato e del futuro, cancellare la storia personale e collettiva, affinché si giunga ad una laica epifania attraverso una rigenerante purificazione totale. “Abbiamo dimenticato / che il mondo è un inferno / ma desideravamo / la possibilità del paradiso / dopo il purgatorio.” Tuttavia, al contrario di quanto farebbe supporre il titolo ad una prima e superficiale lettura, i suoi versi diventano una ricerca della verità, un discrimine tra illusione e realtà, tra fantasia e concretezza, ribadendo in maniera icastica che la salvezza – di se stessi e del mondo – è una incessabile ricerca, un controllo meticoloso del possibile e dell’impossibile. “Né la bellezza era verità / né la verità nasconde / quel pezzo di cielo / che ci avrebbero promesso”. Ed ecco, allora che in questo contesto la parola assume un’importanza suprema per la sua autenticità e inalienabilità. Marilyn Bobes stessa lo sottolinea più volte. La parola, spesso evocata e idolatrata, diventa non solo parte della vita della poetessa, ma pure della nostra. Ci accompagna. Ci imprigiona. Ci distrae. Ci umilia. Ci ridicolizza. Ci aiuta. Ci salva. “Contaminati / da quei versi mortuari / che ci conducono alla morte, / i versi volano / come frecce / e si conficcano con certezza / nel corpo / di San Sebastiano. / Cosa farai dopo il Greco, / Van Dyck / e Botticelli?” Nel coacervo di segni, apparentemente indecifrabili, la poesia svela il suo significato. L’incontro-scontro con la parola accompagna dunque l’esistenza della poetessa. Direi che in fondo la sublima in un confronto sempre rigoroso, accorto, mai debordante, ma nello stesso tempo ironico e sagace. Cancellare il tutto, quindi, assume anche il significato di un allarme. Intenso. Vicino. Umanamente incalzante. Quell’allarme è come un grido che si dilata, prolungandosi nel tempo. Si ammanta di disperazione. E non cessa di farsi sentire.

Con questa raccolta Marilyn Bobes palesa apertamente un modo di percepire la vita e la letteratura sicuramente autentico, nonché pressante, invitandoci a riflettere sulla effettiva entità dell’essere e della scrittura. L’autrice tende a scoprire una realtà mutevole nel tempo, osservata dai suoi differenti punti di vista, mai univoca né statica. La silloge infatti contiene, sia pur in sottofondo, una fiducia nella forza delle idee che in modo arduo possono penetrare a fondo la realtà per renderla il più possibile comprensibile. “Tre volte moriamo. / La prima, / quando ce ne andiamo. / La seconda, / quando restiamo, / e la terza, / quando ritorniamo”. La poetessa constata che il mondo è costituito da “vittime di differenti crepuscoli”, mentre le parole risultano “prigioniere”, “definitivamente spezzate”, “surreali”. La poesia smaschera dunque le falsità. O per lo meno, ci prova. Anche perché non sta nelle mani del poeta la chiave del tutto. Anzi. Il poeta vive appartato in luoghi in cui le “parole non possono decifrarci”. Sembra a volte una situazione schizofrenica, questa, ribadita dalla poetessa nei versi: “È utile / perdere la lotta / alcune volte. / Per comprendere meglio / quegli esseri geniali / che di solito chiamano / schizofrenici”. Il richiamo alla schizofrenia mi rimanda implicitamente a quei poeti ed artisti che si sono visti depauperati della loro personalità e della loro stessa esistenza. Penso ad Alda Merini, Dino Campana, al cubano José Jacinto Milanés. E l’elenco potrebbe proseguire. Tuttavia credo che per essere artisti un po’ di follia non dovrebbe mancare.(3) Perché comunque è necessario il distacco, l’alienazione sia pur controllata, la spregiudicatezza e l’incoscienza dell’esplorazione. Sulla stessa linea si pone la poetessa cubana, là dove insinua “Le dissociazioni / che vanno e vengono / sono te e le altre: / tutte convivono con te / nella molteplicità del tuo inconscio”. Risulta evidente che, alla fine, il significato sigilla il significante, la materialità si fa rada, quasi surreale, diventa suono e la fonicità così ottenuta (anche nella traduzione) offre spunti di immaginazione ed intuizione che collimano alternandosi in momenti di tangibilità da una parte e di astrazione dall’altra. Il verso sembra raccogliersi attorno alla possibilità di riflettersi nel tempo, di imporsi nell’oggi e nel domani. Infatti, “Noi, quelli di una volta / abbiamo ceduto al tempo / e restiamo bloccati nella storia”, “La Storia non è finita / ma la morte dilaga / senza che venga un profeta / a smantellare le utopie”. Certo, non è detto che la storia sia ancora Magistra vitae. La storia forse non insegna più. O non ha mai insegnato. “Il futuro non è stato / quella sfera magica / che usavamo un tempo per predire / le nascite”. I paragoni diventano però impossibili perché “raccontare racconti / renderebbe interminabile / questa dubbiosa favola”. Nonostante ciò, al di là della “paura del fallimento”, al di là “dell’ignoranza”, perché “solo / i droni del subconscio” possono “ignorare la tua dimenticanza”, “continueremo a leggere Borges / morendo a Parigi / sotto il diluvio tecnologico”. Tutto questo ontologicamente si traduce nell’esistenza quotidiana e insopprimibile della poesia, sebbene ci sia sempre chi si ostina a perseguitarla, a chiuderle la bocca, perché “la poesia / è un esercizio inutile”. “Quando si racconta ciò che accade / proclami la tua assoluta sfiducia / negli effetti della poesia”.

Quella Parigi tecnologica evocata e velatamente invocata ci conduce ad una serie di domande. È forse più utile la modernità? Più desiderabile la tecnologia? Più indispensabile Facebook, tweet, un account? Meglio la “borsa di Louis Bouton”, “i vestiti di Mango”, “le febbrili passerelle di Chanel”? Non c’è risposta. Solo il silenzio. Un silenzio che cade sulle cose, sulle persone, sugli avvenimenti. Il silenzio cui l’anima della poetessa aspira, pretende, incalza. È nel silenzio che si ricrea l’umanità. Questa umanità distrutta dalle guerre, dall’egoismo, dall’arrivismo. “Niente può essere più necessario / di questo silenzio / per recuperare l’antica chiarezza / di quel volto enigmatico”. “Hai scelto il silenzio / meglio per te / non dire / quello che sai”. Si tratta di una introspezione duplice e importante. In questo rientrare in se stessa la poetessa ci rivela innanzitutto i suoi dubbi e le sue incertezze, in secondo luogo ci stimola a riflettere sulla sua fatica e fede poetica: un lavorio intellettuale che vuole riportare al centro dell’attenzione e del dibattito la condizione dell’uomo moderno. Una condizione comunque di per sé difficoltosa e contradditoria: tra la grandezza del passato, l’indeterminatezza del futuro e la supponenza del presente. “Tutti sono tornati alla fine, / ginocchia a terra / permanenti / o eterni /o virtualmente feriti / e come se il ritorno / fosse un patto d’amore / con il passato”. Che scopo avrebbe allora parlare di poesia al giorno d’oggi? La poesia è comunicazione. E oggi, come mai prima d’ora, comunicare non è mai stato così facile, semplice e naturale. Il paradosso però è proprio questo: che nell’epoca della massima comunicazione (in un secondo mi collego con l’amico di New York o di Singapore, posso vedere in diretta quello che accade dall’altra parte del mondo) si innalza all’infinito il muro dell’incomunicabilità. Spesso il dialogo è tra sordi. Ecco la denuncia, la segnalazione di una incapacità esistenziale di rapportarsi agli altri. “I sentieri tortuosi / di tanti personaggi / ti impediscono il contatto”, “Abbandonare la poesia. / Da ciò dipende / la realtà / o quello che sembra già troppo”. Se ne deduce quindi che ognuno opera nella propria torre d’avorio e ascolta solo se stesso. Sento in ciò come una eco di quei versi di Quasimodo in cui il poeta siciliano ribadiva la solitudine e la morte.(4) In conclusione, riusciamo o possiamo comunicare nell’ansia del domani, nel nulla del futuro, nel rifiuto del passato? Ne abbiamo la forza, il coraggio? Si tratta di una serie di domande cui Marilyn Bobes non risponde. Lascia a noi la soluzione, se soluzione esiste. “Noi, / gli analogici / (conversatori e sentimentali) / testimoniamo le decapitazioni”, “Lo schermo diventa una chimera. / E non abbiamo nemmeno / un account su Facebook / che ci trasformi / in quei semplici agnelli digitali”.

Attraverso un uso intelligente e accattivante di porsi davanti ai propri versi, la poetessa cubana ci trasporta in un viaggio che ci conduce ad una interpretazione critica e a volte intuitiva della realtà circostante, costituita da personaggi, avvenimenti e criticità irrisolvibili all’apparenza. E non si tratta di un discorso solo personale, ma universale: coinvolge tutti noi, come del resto nell’universalità si risolve spesso la vera poesia. Il suo linguaggio, infatti, è capace di suscitare emozioni, arrivando al cuore del lettore, e riuscendo ad instaurare con lui un dialogo, o per lo meno ad aprire una breccia importante. Determinanti a questo punto diventano gli accenni biografici che trapelano ora in un verso ora in un altro, come fossero led accesi per la nostra comprensione e complicità. “Scrivi solo / brandelli della tua pelle / strappata / nel corso della vita”. Non disdegna, la poetessa, di mostrare la propria vanità che tuttavia umilia e quasi dileggia come fattore negativo. “Sei famosa / come i crisantemi sulle tombe”, “Abbiamo esaurito uno scrigno di parole / e quelle parole tornano / ma mai / per stabilire / inutili compromessi / né effimeri contratti”, “Strappino dalla mia fronte / quella corona / che non mi ha mai sistemato. / Immeritata del resto, / appassita, / su questi simboli sparsi / di insubordinazione”. Alla fine il confronto tra sé e la scrittura diventa il parallelo per un dibattito sul mondo e su ciò che accade intorno a sé. “Quando la poesia ritorna / non rassomiglia / a quella che è stata / né rinverdisce / la triste ingenuità / con cui pretendevi / cancellare il tutto.” Si intravede in questa raccolta poetica come una rivelazione: la ricerca del proprio io che sembra lottare con i suoi versi, mutando in continuazione circostanze e visioni. Ma proprio in virtù di tali fattori, che possono pure considerarsi come tanti desideri inespressi, l’epilogo non può che essere eticamente inapprensibile: “Voglio che la mia vita / sia un atto riverente”. Assistiamo quindi ad una specie di labirinto dove mistero, arbitrio, aspirazioni, confessioni delineano uno spirito che non si accontenta mai. Ma si tratta di un labirinto che non è mai fine a se stesso: un labirinto ossimoricamente aperto, che comunque non vuole fornire un unico modo – e giusto – di interpretazione dell’esistenza. L’opera rimane accessibile all’intuizione del lettore, alle sue emozioni, alla sua cultura. L’invito, forse sotteso, è quello di non considerare la realtà come appare, ma di appropriarsene in maniera critica, con proprie idee e proprie considerazioni, nella consapevolezza di dover sempre e comunque indagare: il tempo, i giorni, la natura, la vita e la morte. “Per quanto tu abbia letto / i migliori poeti del mondo / sarai solo la migliore per la tua famiglia / e qualche altro ignorante / che non abbia letto Borges, / che cerca nelle tue parole / qualche leggera somiglianza / con quello che nemmeno tu riconosci: / il testo / che un giorno hai voluto scrivere / prima di aver letto Borges”.

Enea Biumi

(1) In “Biblioteca Virtual Miguel de Cervantes”, www.cervantesvirtual.com.

(2) “Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po' più ammalato, ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie”. Da “La coscienza di Zeno”, Italo Svevo, Dall’Oglio, Milano, 1976.

(3) Il rapporto esistente tra arte e pazzia viene segnalato anche da Sigmund Freud in una pagina della sua Interpretazione dei sogni. Il sogno che lì si cita è questo: una giovane donna si trova all'Opera. È una rappresentazione wagneriana durata sino alle sette e tre quarti del mattino. In tutta la platea vi sono dei tavoli dove si mangia e si beve. Suo cugino, che è appena tornato dal viaggio di nozze, siede a uno di questi tavoli con la giovane sposa; accanto a loro c'è un aristocratico. Di lui si dice, molto apertamente, che la giovane signora se l'è portato con sé dal viaggio di nozze, pressappoco come dal viaggio di nozze si porta a casa un cappello. Nel centro della platea si trova un'alta torre (La cosiddetta torre dei pazzi, in tedesco Narrenturm), che ha in cima una piattaforma, circondata da una ringhiera di ferro. Lassù in alto sta il direttore d'orchestra, che ha i tratti di Hans Richter; egli si aggira ininterrottamente dietro la sua ringhiera, suda copiosamente e dirige da lassù l'orchestra, disposta intorno alla base della torre. La donna è seduta con un'amica in un palco. La sorella minore vuole porgerle dalla platea un gran pezzo di carbone, con la motivazione che lei non sapeva che l’opera sarebbe durata così a lungo e sarà ora tutta gelata. L'uomo esasperato e nella furia assalito dal terrore suggerisce l'immagine di un animale ingabbiato. La citata torre dei pazzi (Narrenturm), quindi, sarebbe un ossimoro retorico: unione sintattica intima di due concetti contradditori in una unità, che rimane caricata di una forte tensione. In questo caso il più alto (l'espressione artistica) e il più basso (il manicomio): l’ispirazione e la pazzia. Si tratta di una antitesi che ricorre frequentemente in mistici e asceti: la musica del silenzio, la solitudine musicale di San Juan de La Cruz, per esempio. Attualmente Narrenturm (la torre dei pazzi) antico manicomio di cui allude Freud nell'analisi del sogno, è divenuto museo anatomopatologico dell'Ospedale Centrale di Vienna, ubicato in Hallerstrasse, 9.

(4) Ognuno sta solo sul cuor della terra, / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera.

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                                                                                Giovedi 29 Maggio ore 17:30    I MAGNIFICI 100 MEDinLU...