Corporatura
inerente ad un elemento vitale che sorge e immette nella pagina la complessità
del rilievo natura, nella efficacia prosodica di un’intesa, come nello sviluppo
asimmetrico dei passaggi versificati. E’ davvero intensa e originale la voce di
Nina Nasilli in questo suo esito poetico “L’Orsuta”. Assonanza e iterazione
compongono già inizialmente una tessitura di rimandi: “cavaliere bardato d’armi
fulgenti/ e valido scudo/ pretende anche la schiena/ nuda del nero cavallo/
nero-selvaggio/ che schiuma”. L’approssimarsi è alle scadenze dei tempi
ritrovati in una partecipazione sempre umorale, di una consistenza sensuale e
vibrante, al verso breve coniugata in uno spessore che deterge e rende una
limpidezza svelante. Condizione di estraniato abbandono collettivo impone la
ricerca di una necessità che Nina Nasilli ben individua nell’urgenza che chiama
a ritrovare capacità d’ascolto e vocazione relazionale, come disciplina
d’attesa e forza compiuta nell’intreccio dei pensieri ma anche di auspicabili
vicinanze fisiche e ritrovati riconoscimenti lievi e provati, tendenze liberate
in origini capaci di accogliere nella sospensione che ci fa umili; “albeggia il
fiume/ là in fondo/ dove lo sguardo quasi/ più lo raggiunge”. La materia è
testimone apparentemente inerte di un possibile salvataggio quotidiano,
condotto ai lati della fragilità panica, della prospettiva liminare attesa tra
le forre dell’imprevisto misurato. Si è dove il segno si fa parola, lemma,
sintagma, vocazione partecipata nella coerente semantica che imprime il rigore
stilistico in verticalismo figurato a flusso discenditivo. La domanda sul senso
delle cose e sul fare nelle cose coniuga le stagioni in una trasposizione
scritturale che si essenzializza e non esclude anche occasioni raffigurate in
diversità di caratteri. “Se apprenderlo potessi/ sarei foglia/ o filo d’erba”
scrive Nasilli in un’eco alla Whitman da coincidenza di spirito e natura. Ed è
poi un richiamo alla responsabilità dell’uomo, al di là di tempi e
osservazioni, arti e corpuscoli, riconoscersi deboli, minuscoli...”ma sei
formica/ visto dall’alto” con un insegnamento che ci riporta a quell’anonimia
di formiche che fu di Domenico Cara. Ancora l’attenzione del verso si sofferma
sulla consistenza tangibile del corpo, e del corpo estraneo. La mancanza e
l’assenza, il dono non desiderato, ma anche l’inesorabile fuga da quella
bellezza che condiziona e sconvolge. C’è un sentire che è memoria partecipe e
considera il “tu” nella versione che si pone in attesa della più intima
adesione quale concentrato di spunti personali: “dal disarmo resta/ un profumo
d’ebano/ e sapone:”, come altro da dire o intendere, accennare, quando “nessun
contorno/ a confermare il nostro/ debole ricordo./ Nessun paesaggio”. La
sezione eponima sviluppa una sorta di danza linguistica veloce e allitterante,
dove le condizioni si addentrano nell’esegesi di rimando e riflesso: “E’ il
sentire.../ sentire che si abbruna/ si aggruma/ e si inorsa”. Quindi l’Orsuta è
animata nel suo “irto pelo”, qualcosa che si distingue nel vibrare vissuto,
l’annidarsi nelle forme del gesto che sa difendersi ma anche aggredire con
bramosia vorace e desiderio famelico, nella innocenza sostanziale
dell’approccio. La domanda che ancora l’autrice interpreta è corso naturale,
così come vita di chi resta, inesorabilmente piccola, assenza presente di chi
manca, tratto che inciso nel verso breve si fa traccia semantica di una
percezione tra le cose, tra i colori a scorgersi nel bianco, nell’azzurro, nel
rosso. Continua aperta una dicitura che conduce attraverso rimandi
fonetici e reiterazioni di parole-
chiave e di ruoli al limite dell’elemento interpretabile oltre il contenimento
contingente. “Tu gemi il tuo silenzio/ a mezzanotte – (che è)/ del giorno il
punto più infedele/ al giorno/ e nessuno crederà/ a questo tuo grido immondo”
scrive Nina Nasilli, nella condensazione del percorso, nella sua stessa
interpunzione dove si coglie la pausa della domanda partecipe, il tentativo
ermeneutico nella compresenza delle intuizioni, delle trasformazioni, della
suggestione inerente ai ricordi e alle speranze: “arrossisce anche il palmo
della mano/ approssimando allo stelo/ e le dita girano la testa all’indietro/
per non violare di più il suo segreto”; attenzioni rivolte alle innumerevoli
creature nella fascinazione di un succedersi attraverso una versificazione che
giunge allo iato espresso all’interno dello stesso verso, veicolando,
nell’esito finale, anche un riferimento alla poesia di Marina Cvetaeva. Un
tracciato poetico, questo di Nina Nasilli, dove si dà voce all’inespresso, a
ciò che spesso rimane intraducibile ma che interroga nella forma più intima, “e
anche tu- quello che fai/ lo gridi ancora dal Silenzio”.
Andrea Rompianesi
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