mercoledì 17 luglio 2019

Flavio Ermini “Edeniche” (Moretti e Vitali Editori, 2019)




E’ sapienziale il tono di Flavio Ermini in “Edeniche”; la poesia sviluppa un verso prosastico a contenuto filosofico dove si assiste ad una evocazione del “darsi iniziale” di un’età in cui il tempo riposava nell’essere. Il moto aurorale dell’esistenza richiama la nostra osservazione vigile prima della cosa, all’esatto processo di appartenenza come enti, nella consapevolezza di una separazione degli esseri dalla sostanza, verso un destino di conflitti e contrasti. Recuperare un’acquisizione perduta, dunque, s’impone come progetto ampiamente trattato nella consistenza saggistica della riflessione poetante. Ermini è autore profondo e inquieto di fronte al destino degli uomini; ha vissuto stagioni accorate di meditazione sul compito terreno dei mortali, sulla sofferta determinazione nel cogliere un tratto che auspichi consapevolezza primigenia, mutamento arcaico, forse quell’indefinito che era principio degli esseri per Anassimandro. Qualcuno potrebbe affermare giustamente che se è vero che non c’è inizio senza fine, non può nemmeno esserci allora fine senza inizio. E ben oltre andava la riflessione di Heidegger, così spesso volutamente frainteso su basi ideologiche, nel recupero di un concetto di essere collocabile all’inizio di una tradizione da reinterpretare alla luce di un esito che richiede il significato della nostra temporalità, ponendolo come irrisolto quesito. Ma, continuava Heidegger, proprio “l’indefinibilità dell’essere non esenta dalla domanda circa il suo senso, al contrario la provoca”. Da qui, la necessità ribadita, dunque, di un significato. Si parla quindi di principio, dolore, sostanza, essere per la morte ma, contemporaneamente, in lineare continuità, di sogno e azzurrità, di stelle e ultima terra, di luce originaria, del divino. Ermini ci presenta una forma di cacciata dall’Eden, di una condanna all’esilio. In realtà il tema biblico, nella sua accezione più esegetica che si fonda sui generi letterari, vede la libera scelta dell’uomo che proprio della sua libertà si fa vanto, disconoscendo un rapporto di filiazione in una volontaria espressione di superbia. Voler contare solo sui mezzi umani mette a confronto immediato con le capacità ma anche con i limiti. Ci sono accenni tra i versi che evocano il movimento e mutamento di afflato inesorabilmente tomistico, così come la suggestione di una “trasformatio mundi”. Il verso lungo pianifica l’attribuzione dei passaggi che, implacabili, determinano l’assuefazione ad una pratica di lettura dilatata alla vocazione assertiva. Una dizione linguisticamente lenitiva, quasi progettata su moduli di respirazione interiore, nella peculiarità conoscitiva rivolta all’origine, apre aree di approfondimento ancorato al nostro domandare. “Sotto uno spazio definito da stelle inerti e tenebre/ prelude all’incontro con la morte l’atto di cadere”, e proprio la filosofia, sosteneva Emanuele Severino, nasce come risposta di fronte alla domanda che la morte stessa ci suscita. Emerge, ad un certo punto, il tema specifico della discordia tra gli umani; quella radicale lotta che conduce al contrasto estremo, alla guerra. Si apre uno scenario di rovine da terra desolata all’interno del quale il poeta disegna le indicative configurazioni del principio. C’è una ricerca del sentire che determina acquisizione di fratture, intenti di progetto. Scriveva Schelling: “Il limite che Fichte poneva fuori dell’Io, fu posto così da me nell’Io stesso, e il processo divenne un processo puramente immanente, nel quale l’Io si occupa solamente di se stesso, della contraddizione sua propria, posta in lui stesso, di essere cioè insieme soggetto e oggetto, finito come coscienza e infinito in quanto Principio produttore dell’universo”. E, al di là del persistente riflettere, adombra la prospettiva dell’esilio, la sua determinata osservanza; infatti “ha voci ovunque il cantiere dell’uomo/ nel richiamare alla mente la casa natale/ che spinge l’esule a uno stato di sconforto/ in quanto elemento destinato alla fine”. Precarietà e senso del dissolvimento incombono nella poesia di Ermini, ma proprio questa identità che si pone di fronte come destino fa sì che, paradossalmente, il destino stesso acquisisca il suo più profondo significato ontologico.
 
Andrea Rompianesi

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