giovedì 4 luglio 2019

Adelio Fusé “Tempo ventriloquo” (Book Editore, 2019)



Il “tu” a cui si rivolge il poeta è un Doppio anche critico, un “detective di nomadismi”, nel continuo andare attraverso l’espressione canterina di un tempo in duplice accezione: tempo universale e tempo individuale. Quasi una presocratica necessità di conciliare ragione ed esperienza dopo l’ancoraggio eleatico all’essere. Ma c’è anche tutto il vissuto e il pensato che antepone al gesto la responsabilità di una scelta. “Mi uso dunque esisto:/ e consento ad altri l’uso/ voi compresi”. dice Adelio Fusé in questo suo sempre coinvolgente esito poetico dal titolo “Tempo ventriloquo”. Nel passo sicuro di differenti combinazioni strofiche si amalgama l’evolvente richiamo alla cedevole penalità attesa e, nello stesso tempo, osservata come dicibile, narrabile dialogo tra l’affermazione  in evento e l’inestricabile suono delle sillabe congedate. Fusè sollecita il verso, in questa occasione, verso un più aperto intento comunicativo, nell’urgenza di allontanarsi dal quantificabile in costruzione assidua ma divelta dalla preoccupazione semantica. Il tempo che concede il tu proponibile riabilita avventure solo apparentemente nugaci, impone gravido l’utilità dialettica delle tesi. Rari ritorni fonetici in assenza d’insistenza rivelano accorti e assaporanti quasi un pullulare di emersi tratteggi, l’impatto della vita e il perdurare paziente nella superficie. E davvero Fusé insegue, in questo testo, il suono notturno di contemporanee sirene inavvistabili; l’emotiva domanda che reinterpreta sensualmente l’empatia travolta dei desideri, lo scorrimento che non è misura ma stato di veglia (e mi ricollego al precedente titolo poetico dell’autore “La veglia del sonnambulo”). Come allora ondeggiare sui detriti e le insidie, nella testimonianza dei versi...”si è mai là dove si vorrebbe/ soprattutto nei giorni di pioggia/ quella sghemba e sottile/ intermittente con la battente”; oltre l’apertura verso sviluppi inattesi e indocili. “Diremo più tardi quello che deve essere detto”, scriveva Franco Fortini in “Paesaggio con serpente”, “Per ora guardate la bella curva dell’oleandro,/ i lampi della magnolia”; e il guardare di Fusé è un imprimersi le sequenze, alla cadenza di un tempo musicale e mistico. Il ritmo accondiscende a strutture eclatanti di esiti linguisticamente felici: “la pioggia s’impioggia s’impiovasca/ ma questa è pioggerella/ non l’acquazzonesco”, ed allora coniuga la strofa nella sua collocazione visuale il passo desto e deciso della ricerca consapevole e critica. C’è una costante necessità di domande urbane, empatici silenzi, tempi ricorrenti ma impalpabili; la soglia invita ad un passo arduo, spesso incerto, che obbliga ad un quotidiano, minimo coraggio. La stessa implorazione, la sua possibilità, è già determinato sollievo, mobilità interpretabile nelle cromie del flusso quale il verso lungo: “fino al mare porto arso di un salpare al plurale”. Sembra quasi un desiderio d’incontri imprevisti capaci di superare i limiti del definibile e dell’imponibile (tema toccato da Fusé nel suo volume in prosa “L’astrazione non è la mia passione principale”); un senso di coltivato smarrimento in potenzialità di stimoli eversivi. Potente l’immagine della cenere a testimonianza di un respiro dall’individuale all’universale, nella traduzione di un ben altro impulso rispetto a quello di un semplice calcolo temporale asettico. Ci appare, quindi, un Adelio Fusé in viaggio, desideroso di conciliare gli estremi del presente con le propaggini dell’infinito, rimarcando una saggezza ironica: “se ti affretti all’osteria sul canale/ avremo un giro di bicchieri”.
                                                                                                                                  Andrea Rompianesi

 

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