Elevazione e,
nello stesso tempo, rarefazione. Un divenire che s’infinita... sono parole di
Ivan Fedeli, prefatore dell’opera “Dove ancora non siamo nati” di Danila Di
Croce. La possibilità di espressività opaca, termine ibrido, non è motivo di
difficile accesso ma, anzi, pregio nel momento in cui ciò deterge da simulacri
riprodotti e apre invece a riferimenti imprevisti. Il riemergere, dunque, è
anche nella poiesi ulteriore, nuova o almeno rinnovata, quando l’accadimento è
cogliere l’alta priorità del fare, del decidere, come rifuggire le distrazioni,
focalizzandosi invece sulla praticabilità delle tregue, dei ritrovamenti oltre
i profili usuali. “Certo, quel punto/ frustra attese e illusioni, ma si
impianta/ sulla retina e rinasce di dentro...”; attraversare intonazioni che
responsabilizzano gli espedienti franti e ricomposti nell’aggrumarsi dei
retaggi. Il salto quotidiano, per Danila Di Croce, è volo ma volo di strada, di
limite e dolore. Se l’imprevisto incalza, tende agguati nel mimetico, ci
confronta con le attese estenuate, “fulminea la detonazione/ oltre il muro
dell’evidenza/ ha già pietrificato il volo”. Ancora l’attenzione qui si rinnova
e conferma la natura sostanzialmente conoscitiva della pratica poetica; codice
a inoltrare la richiesta impellente della traccia generativa come e più di
un’analisi attraverso la quale la compostezza strutturale dei versi si coniuga
con la prudenza del dettato. No, davvero il rischio non è l’opaco, semmai il
suo contrario, poiché il destino insorto dell’evocare il luogo, quello appunto
dove ancora non siamo nati, è di per sé sito ubiquo, bifronte, tendenzialmente
equivoco. Di Croce allora osa tentare la tenerezza dello sguardo compositivo
che si fa premessa; attinge alle risorse esposte nella condivisione oggettiva
ma interpretata, come solo può esserlo ogni confronto con una ipotesi di
realismo. “Si corre in silenzio, ché il fiato/ non basta a dire la fatica/ o lo
slancio e il traguardo/ non è un nome da gridare”; come l’insistenza di un
confronto collettivo con l’incompiuto che resta parte e sintomo della
dispersione dinamica che disegna tessere e mietiture assorte. La solitudine è
quindi “randagia” ma, o forse proprio per questo, sostiene “il canto nuovo
dell’estate”, quando il linguaggio cerca il suo senso nel farsi, nel dislocarsi
autentico e condotto attraverso le forre delle perturbazioni terrigne. Allora
qualcosa s’accende, compone evidenze d’inciampo, impressioni aperte, “un cielo
bianco di assenza e di niente”, come la capacità lieve di concentrare nei versi
una sorta di riproducibilità materica inoltrata verso l’esegesi violabile attraverso
voli, appunto, che conducono la tracciatura delle urgenze sospese. In Danila Di
Croce la poesia vuole aggirarsi nella direzione di un’ apertura verso le cose,
verso le rinascite (nascere è forse sempre un rinascere), sviluppando ipotesi
di relazione tra gli opposti, vegliando nelle atmosfere della notte. Una
diversa gravità insinua il senso dell’acquisizione ma anche della dispersione;
Hegel parlava della capacità di sostare nel negativo, nella contrapposizione
che contribuisce alla molteplice sintesi di altro esito. “Si accorgono spesso
le notti/ che tutto sviene il nostro cielo/ e che quaggiù deraglia pure il
vento” dicono i versi dell’autrice, quasi a riportare quelle sensazioni
accostate al senso di una nostalgia franta che può essere presa d’atto di una
identità da comporre nella complessità biografica del mosaico policromo
attestante la nostra tramatura. E ci saranno fondi di storie e di segreti, di
nomi e nodi, inviti e abitudini, soste e risalite, così serviranno giorni e
strade inesauste per difendere il ruolo e l’anticipazione di ciò che detiene
bellezza, quasi un riverbero che la poesia ritrova e raccoglie, ricrea nella
dimensione della risorgenza, dopo le pause esitanti del ricordo. Può esserci
forse un’intesa di nomi che incrociano le intenzioni stesse ben sapendo, come
scritto da Daniele Mencarelli, che sia di ieri o di oggi, nulla c’appartiene.
Andrea Rompianesi