martedì 15 aprile 2025

Carlo Banfi, Lo svizzero del Canton TI, Giuliano Ladolfi Editore, 2025


 Con questo romanzo Banfi ritorna alla descrizione del suo mondo rurale per farne un elogio spassionato, sincero, certo, ma non nostalgico, bensì realistico e attuale. L’incipit stesso ci immette immediatamente in un’atmosfera contadina che si materializza attraverso un colloquio ideale con una donna di nome Oniria.

“Oniria, tu vuoi che io ti racconti come sono questi miei giorni infiniti di sole, con la terra riarsa e la tenue ombra che ti dà sollievo nel pomeriggio infuocato. Cammino coi piedi scalzi nell’erba da poco rasata e senti la frescura che ti tonifica, ma manca l’ardire di affrontare il campo aperto, regno di luce.” (…) “Oniria tu vuoi che io ti racconti di questa continua attesa e intanto il sole arde e divora le cime anzi che precipitino nel freddo squallore dopo il crepuscolo.” “Ed è già sera, la mia sera.”

In questo approccio, che possiede un sapore e una forza poetica montaliana, possiamo scorgere una specie di correlativo oggettivo che ci indica il percorso. I giorni di sole sono senz’altro momenti di vita, mentre la terra riarsa fa pensare alle difficoltà che si incontrano giorno dopo giorno, in cui solo una tenue ombra dà sollievo al pomeriggio infuocato.  Allo stesso modo l’incedere a piedi scalzi non fa altro che sottolineare una contrapposizione esistenziale: da una parte l’ardire e l’ardore nell’affrontare il quotidiano, dall’altra la fatica di fronte a problemi spesso irrisolvibili, che creano disagio e paura di fronte alla realtà. La continua attesa, invece, mi fa pensare ad una aspettativa di un futuro migliore prima che il male o il dolore ci assalgano (anzi che le cime precipitino nel freddo squallore). Mentre la sera, non è necessario sottolinearlo, riprende la metafora foscoliana della morte.

Non vorrei però forzare la mano ad una interpretazione allegorica di un romanzo che è espressione di realismo e di attualità, per quanto sentimentalmente affine ad un inno amorevole e poetico nei confronti della natura. Oltretutto il nome scelto per l’interlocutrice ci fa intravedere come il racconto sia a mezzo tra desiderio e sogno. E ci indica un auspicio: che il desiderio si avveri ed il sogno ci permetta il ritrovo in un locus amoenus, ricreato attraverso la scrittura in un’ideale di vita in sintonia con la natura stessa, scandita dalle stagioni e dalla storia.

Un primo elemento, quindi, che emerge immediatamente, al di là dell’approccio lirico riscontrato, è l’incontro con la “Grande Madre”, la Terra. Un incontro sostenuto da sincero affetto, come atto dovuto di riconoscenza. Un incontro di devozione e ammirazione per i doni che Cibele ci offre, per il prodigio dei frutti che ne sortono, per la necessità di un sostentamento vitale, per la visione pacifica, ancorché difficoltosa, di animali che interagiscono con gli uomini.

Spesso Banfi, nei suoi colloqui, mi parla del suo “eremo”, una specie di personale e solitario rifugio. Che non è soltanto una costruzione materiale, vale a dire casa fatta di sassi e mattoni con allegato terreno agricolo e boschivo, bensì edificio (e artificio) letterario, innalzato in un mondo protetto, in cui si fondono l’Arcadia teocritea, le Bucoliche virgiliane, e le Mirici pascoliane, il tutto riportato alla contemporaneità in cui i ricordi d’infanzia della campagna del basso varesotto (Caronno Pertusella), il lavoro quotidiano (insegnante a Luino), la storia (la liberazione del ’45 attraverso le lotte partigiane) e l’attualità (la recente pandemia) si fondono in un unicum corpus. Si tratta, per intendersi, come una indispensabile voglia di equilibrio - forse impossibile - tra la ricerca della serenità personale e le tragedie della Storia, analizzate in forma profonda e adeguata.

D’altra parte l’autore non è nuovo a questo procedere. Si possono ricordare a tal proposito i suoi precedenti romanzi. Infatti, “Il capanno”, “La via Palestrina”, “Linea Cadorna”, offrono contenuti che si avvicinano prevalentemente ai due filoni individuati in “Lo svizzero del Canton Ti”: la Natura e la Storia. In tale contesto il suo sguardo si inoltra nei dettagli, si fa investigatore e accanto ad una panoramica oggettiva della campagna costruisce soggettivamente sentimenti, proiezioni, inibizioni, storie vere o veritiere di una umanità spesso sconvolta ed oltraggiata, quasi sempre succube di un destino contrastato e crudele. Così l’incontro con la storia antica (quella del ‘500), con la tragedia della seconda guerra mondiale, con l’idillio campagnolo, diventano occasione per uno sguardo ai comportamenti d’oggigiorno. Oggi, ci suggerisce Banfi, gli istinti dei giovani e la loro educazione vengono deviati sull’effimero e su un inconsistente edonismo, che non portano a nulla, non lasciano impronte e spesso sono delinquenziali e ammorbanti l’esistenza comunitaria.

L’autore è consapevole di non avere a disposizione la bacchetta magica, ma nel contempo non vuole rinunciare alla denuncia. Di fronte alla crisi economica che ci attanaglia non pone soluzioni, ma verifiche. Esistono problemi di immigrazione ed emigrazione che non vanno affrontati con vuoti slogan che non concludono nulla. Anche perché, molto probabilmente, l’uomo in sé non è capace di appianare le cose. È necessario, dopo aver fatto i conti con il dolore fisico e con l’angoscia morale, che l’uomo da solo non potrà risolvere, andare oltre. Per questo Banfi introduce l’argomento religioso attraverso l’incontro, ad esempio, con le Romite del Sacro Monte. O l’accenno a papa Francesco che indica la corsa al denaro come uno dei peggiori mali dell’umanità.

Ecco allora che davanti a tutta una serie di problematiche odierne, la vita rurale si trasforma idealmente in un luogo di serenità e pacifica convivenza, un ultimo angolo di mitica “età dell’oro”, momento di sopravvivenza idilliaca, tipica delle utopie letterarie. Tuttavia non possiamo estraniarci o rinchiuderci in torri d’avorio. Per l’intellettuale la ricerca della verità è un fatto incontrovertibile. Irrinunciabile. È per questo che in “Lo svizzero del Canton Ti” le descrizioni sono realistiche, vivaci e sempre dosate e raffinate. Banfi, in ultima analisi, non rinuncia al concetto di αλήθεια (verità) che unito a quello di ασυχια (tranquillità) mi fa comprendere anche la sua poetica. Questi due parametri possono avere una funzione catartica nel suo romanzo. Sicuramente lo sono nella vita.

“Eri tu, Oniria, volto di sogno, augurio di ogni bene e felicità.”

 Enea Biumi


Nessun commento:

Posta un commento

Carlo Zanzi, Corpi imperfetti, Macchione Varese, 2025, € 15,00

  Il romanzo di Carlo Zanzi “C orpi imperfetti ” si dipana in una doppia scrittura: una in cui il protagonista si narra in prima persona, l’...