Con
questo romanzo Banfi ritorna alla descrizione del suo mondo rurale per farne un
elogio spassionato, sincero, certo, ma non nostalgico, bensì realistico e
attuale. L’incipit stesso ci immette immediatamente in un’atmosfera contadina
che si materializza attraverso un colloquio ideale con una donna di nome
Oniria.
“Oniria,
tu vuoi che io ti racconti come sono questi miei giorni infiniti di sole, con
la terra riarsa e la tenue ombra che ti dà sollievo nel pomeriggio infuocato.
Cammino coi piedi scalzi nell’erba da poco rasata e senti la frescura che ti
tonifica, ma manca l’ardire di affrontare il campo aperto, regno di luce.” (…)
“Oniria tu vuoi che io ti racconti di questa continua attesa e intanto il sole
arde e divora le cime anzi che precipitino nel freddo squallore dopo il
crepuscolo.” “Ed è già sera, la mia sera.”
In
questo approccio, che possiede un sapore e una forza poetica montaliana,
possiamo scorgere una specie di correlativo oggettivo che ci indica il
percorso. I giorni di sole sono senz’altro momenti di vita,
mentre la terra riarsa fa pensare alle difficoltà che si
incontrano giorno dopo giorno, in cui solo una tenue ombra dà
sollievo al pomeriggio infuocato. Allo stesso modo l’incedere
a piedi scalzi non fa altro che sottolineare una
contrapposizione esistenziale: da una parte l’ardire e l’ardore nell’affrontare
il quotidiano, dall’altra la fatica di fronte a problemi spesso irrisolvibili,
che creano disagio e paura di fronte alla realtà. La continua attesa,
invece, mi fa pensare ad una aspettativa di un futuro migliore prima che il
male o il dolore ci assalgano (anzi che le cime precipitino nel freddo
squallore). Mentre la sera, non è necessario sottolinearlo,
riprende la metafora foscoliana della morte.
Non
vorrei però forzare la mano ad una interpretazione allegorica di un romanzo che
è espressione di realismo e di attualità, per quanto sentimentalmente affine ad
un inno amorevole e poetico nei confronti della natura. Oltretutto il nome
scelto per l’interlocutrice ci fa intravedere come il racconto sia a mezzo tra
desiderio e sogno. E ci indica un auspicio: che il desiderio si avveri ed il
sogno ci permetta il ritrovo in un locus amoenus, ricreato attraverso la scrittura in un’ideale di
vita in sintonia con la natura stessa, scandita dalle stagioni e dalla storia.
Un
primo elemento, quindi, che emerge immediatamente, al di là dell’approccio
lirico riscontrato, è l’incontro con la “Grande Madre”, la Terra. Un
incontro sostenuto da sincero affetto, come atto dovuto di riconoscenza. Un
incontro di devozione e ammirazione per i doni che Cibele ci offre, per il
prodigio dei frutti che ne sortono, per la necessità di un sostentamento
vitale, per la visione pacifica, ancorché difficoltosa, di animali che
interagiscono con gli uomini.
Spesso Banfi, nei suoi colloqui, mi parla del suo “eremo”,
una specie di personale e solitario rifugio. Che non è soltanto una costruzione
materiale, vale a dire casa fatta di sassi e mattoni con allegato terreno
agricolo e boschivo, bensì edificio (e artificio) letterario, innalzato in un
mondo protetto, in cui si fondono l’Arcadia teocritea, le Bucoliche virgiliane,
e le Mirici pascoliane, il tutto riportato alla contemporaneità in cui i
ricordi d’infanzia della campagna del basso varesotto (Caronno Pertusella), il
lavoro quotidiano (insegnante a Luino), la storia (la liberazione del ’45
attraverso le lotte partigiane) e l’attualità (la recente pandemia) si fondono
in un unicum corpus. Si tratta, per intendersi, come una
indispensabile voglia di equilibrio - forse impossibile - tra
la ricerca della serenità personale e le tragedie della Storia, analizzate in
forma profonda e adeguata.
D’altra
parte l’autore non è nuovo a questo procedere. Si possono ricordare a tal
proposito i suoi precedenti romanzi. Infatti, “Il capanno”, “La via
Palestrina”, “Linea Cadorna”, offrono contenuti che si avvicinano
prevalentemente ai due filoni individuati in “Lo svizzero del Canton Ti”: la
Natura e la Storia. In tale contesto il suo sguardo si inoltra nei dettagli, si
fa investigatore e accanto ad una panoramica oggettiva della campagna
costruisce soggettivamente sentimenti, proiezioni, inibizioni, storie vere o
veritiere di una umanità spesso sconvolta ed oltraggiata, quasi sempre succube
di un destino contrastato e crudele. Così l’incontro con la storia antica
(quella del ‘500), con la tragedia della seconda guerra mondiale, con l’idillio
campagnolo, diventano occasione per uno sguardo ai comportamenti d’oggigiorno.
Oggi, ci suggerisce Banfi, gli istinti dei giovani e la loro educazione vengono
deviati sull’effimero e su un inconsistente edonismo, che non portano a nulla,
non lasciano impronte e spesso sono delinquenziali e ammorbanti l’esistenza
comunitaria.
L’autore
è consapevole di non avere a disposizione la bacchetta magica, ma nel contempo
non vuole rinunciare alla denuncia. Di fronte alla crisi economica che ci
attanaglia non pone soluzioni, ma verifiche. Esistono problemi di immigrazione
ed emigrazione che non vanno affrontati con vuoti slogan che non concludono
nulla. Anche perché, molto probabilmente, l’uomo in sé non è capace di
appianare le cose. È necessario, dopo aver fatto i conti con il dolore fisico e
con l’angoscia morale, che l’uomo da solo non potrà risolvere, andare oltre.
Per questo Banfi introduce l’argomento religioso attraverso l’incontro, ad
esempio, con le Romite del Sacro Monte. O l’accenno a papa Francesco che indica
la corsa al denaro come uno dei peggiori mali dell’umanità.
Ecco
allora che davanti a tutta una serie di problematiche odierne, la vita rurale
si trasforma idealmente in un luogo di serenità e pacifica convivenza, un
ultimo angolo di mitica “età dell’oro”, momento di
sopravvivenza idilliaca, tipica delle utopie letterarie. Tuttavia non possiamo
estraniarci o rinchiuderci in torri d’avorio. Per l’intellettuale la ricerca
della verità è un fatto incontrovertibile. Irrinunciabile. È per questo che
in “Lo svizzero del Canton Ti” le descrizioni sono
realistiche, vivaci e sempre dosate e raffinate. Banfi, in ultima analisi, non
rinuncia al concetto di αλήθεια
(verità) che unito a quello di ασυχια (tranquillità) mi fa comprendere anche la
sua poetica. Questi due parametri possono avere una funzione catartica nel suo
romanzo. Sicuramente lo sono nella vita.
“Eri
tu, Oniria, volto di sogno, augurio di ogni bene e felicità.”
Enea Biumi
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