Il romanzo di Carlo Zanzi “Corpi imperfetti” si dipana in una doppia scrittura: una in cui il protagonista si narra in prima persona, l’altra in cui le vicende vengono rappresentate in terza persona. Ciò che lega i due momenti narrativi, apparentemente così diversi tra loro, almeno nella forma, è la ricerca di un perché sulla fragilità umana. Mauro si interroga sulla propria decadenza, si arrovella per trovare una spiegazione al suo malessere fisico che diventa immediatamente anche malessere morale, mentre l’autore, scegliendo una narrazione in terza persona, mette in luce una serie di gesti, situazioni, linguaggio, che portano il lettore a riflettere sulle astenie, sulle incertezze, sulle frustrazioni che offre la vita. Non è nuovo, Zanzi, ad una narrazione costruita sulla debolezza umana. Ma in questo nuovo romanzo le domande rimbalzano più prepotenti e trovano un’esplicita risposta nel dialogo con Dio. Non è facile raggiungere un equilibrio sentimentale qui in terra. Non è facile non soggiacere al dolore per la perdita di un figlio. Ma la speranza di un ritrovarsi in un possibile aldilà dà forza e continuità ad un’esistenza che sente la propria fine imminente.
Chiaramente non si tratta di un
romanzo a tesi. La vita è vista e descritta in maniera realistica. Zanzi non
pretende alcun insegnamento, né ci obbliga a determinate condivisioni. La
constatazione dell’imperfezione umana rende il racconto più vicino al lettore e
lo invoglia a riflessioni che forse in periodi recenti non si è più usi
ponderare. Tra l’altro, la presenza del covid, pur non essendone la conduzione
principale, rende più concreta e attuale la considerazione sull’inconsistenza e
la fragilità dell’uomo. Anche l’amore che i due giovani protagonisti perseguono
ha un andamento oscillante e a volte decisamente incerto. Oltre alla presenza
della pandemia, l’autore fa un quadro della “sua” città, Varese, che risulta
perfettamente parallelo e intrinseco alla vita dei suoi personaggi. Varese è
presente nei pensieri, nei gesti, nelle abitudini dei protagonisti, viene
descritta, non dico nei minimi particolari, ma nella verità di una realtà
urbana vista a tutto tondo: con le sue vie, le sue chiese, le sue piazze, i
suoi pregi e i suoi difetti. Non è un caso se in uno degli ultimi capitoli
Zanzi parli del funerale di Maroni. In tale contesto non possiamo omettere che
lo scrittore è anche autore di un Valzer par Varés (parole e musica) che
lo ha reso celebre in città.
Nel capitolo finale, come fosse
un postscriptum, troviamo un’annotazione personale. L’autore abbandona le vesti
dello scrittore per indossare i panni del figlio. Ritroviamo così un omaggio a
sua madre Ines, redatto a pochi mesi di distanza dalla sua morte. Omaggio che
comunque rimane nel contesto del romanzo: una meditazione sulla fragilità umana
nel commovente ricordo della scomparsa di una persona cara. È il desiderio di
un figlio che non vuole dimenticare il valore e l’importanza della propria
madre, come “un bisogno di annotare i ricordi di lei, un tentativo estremo e
‘inutile’ (eppure potente) per sentirla vicina.” E anche in quest’ultima riflessione ci si
sente la labilità di ciò che l’uomo vorrebbe e la sua inutile, seppur immensa e
vigorosa, inanità.
Enea Biumi
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