lunedì 22 agosto 2022

Rosario Aveni, Accade, Genesi Editrice, Torino, 2020


 

La cifra costante della raccolta “Accade” di Rosario Aveni è il presente. Nell’architettura dei suoi versi è infatti possibile leggere quanto di reale succede (accade, appunto) senza sbavature retoriche o vani rimpianti. Tanto è vero che “in questa stagione/ rimpianti sono petali di fiori/ recisi dal vento”, vale a dire qualcosa destinata a scomparire, qualcosa su cui è inutile soffermarsi: meglio guardare a ciò che è vigente perché c’è chi “nasce e muore/ nel suo stesso divenire/ come la vita/ l’amore/ una farfalla/ dalla sera all’alba.”

Esiste allora un disegno, una specie di afflusso sensoriale, capace e determinato che riverbera l’attualità trasformandola in poesia. Rosario Aveni riesce a tessere versi in uno spazio temporale e geografico che coniuga fisicità e spiritualità in un ordine compatto e naturale, dove il pensiero si abbandona a punti pertinaci di riflessione – che Gros-Pietro chiama “moto perpetuo di una storia infinita” – come fossero sassi buttati nel lago atti a creare concentrici cerchi di emozioni.

Qui si abbandonano, dunque, le smagliature dell’anima, gli inganni del tempo, le reiterazioni di quesiti senza risposta, per ritornare ad ascoltare il peso dei propri passi, per non confondersi nell’irrazionale, attenendosi al rigore del quotidiano, l’unico in grado ancora di suggestioni poetiche al di là di mere fantasie o profezie.

“Il parco si svuota/ la gente torna a casa/ Resto seduto/ su questa panchina/ a contemplare / un tramonto radioso”.

Si tratta quindi di un percorso poetico che insiste su spunti, lacerti, agnizioni, trame, visioni che, come in un mosaico, si intrecciano, attraverso anche ad una serie di correlativi oggettivi, e dialogano tra loro offrendo al lettore abbrivii di forte impatto emotivo. Non altrimenti si comprenderebbero quelle “onde anomale di pensieri” o quel suo erigere “un muro/ fra me e il mondo/ convinto / che il mio spazio vitale / fosse illuminato dal buio/ In una notte senza stelle/ ritrovai/ l’aquilone e l’anima”. Allo stesso modo “tutto / appare più vero/al calar della sera”, e non sembri una contraddizione (il buio in effetti dovrebbe rendere tutto più incerto e misterioso). Contrariamente, invece, la sera rende più comprensibile il mondo, gli uomini, nonché “il cuore (che) pulsa/ effimeri attimi d’amore”.

In questo contesto non manca il desiderio dell’assoluto “anelo che ritorni/ l’angelo dell’alba/ per riprendere il volo/ raggiungere insieme/ il paradiso perduto/ sospeso nel buio”. Infatti, la contemplazione della natura o il ricordo che si fa vivo e pressante (“l’inevitabile avvenne/ senza rimorsi/ senza che alcuno/ lo venisse a sapere”) rimangono un passe-partout per segnalare, o in alcuni casi mimetizzare, il proprio ego (“ma gli occhi/ non mentono/ Riflettono la luce/ di chi sono”)

È necessario e opportuno, alla fine, segnalare il ritmo dei versi, adottato in forme brevi, senza punteggiatura, dove l’enjambement rientra come un intercalare espressionistico, in un modello stilistico musicalmente sciolto e convincente che fa da cartina di tornasole all’elaborazione e all’approfondimento contenutistico che rievoca transiti umani tra sofferenze e riflessioni, slanci e abbandoni, realtà e fantasia.

 

Enea Biumi

 

venerdì 19 agosto 2022

Walter Chiappelli, Sì, Genesi Editrice, Torino, 2021


 

La dinamica musicale contenuta nelle liriche di Walter Chiappelli fa sì che le sue liriche approdino ad un racconto che abbraccia la totalità dell’esistenza. Lo dimostra quel “Sì” che dà vita e senso all’intera raccolta. Siamo di fronte ad un’architettura volta non solo a costruire metaforicamente una meditazione ed una riflessione, laica o religiosa poco importa, bensì a delineare una ritmica attraverso assonanze e consonanze atte ad esprimere un respiro del verso e la sua profondità.

È come quando si ascolta una perfetta partitura che il direttore d’orchestra calibra e dirige attraverso pause, forti e piani, improvvise accelerate di tempo, virtuosi silenzi. Davanti a queste forme il contenuto diventa ipso facto comprensibilmente chiaro, adamantino. Ed allora, come in un susseguirsi di aforismi, riappare la forza della poesia.

“…snebbiare snebbiare/ verso dopo verso varie poesie / vagamente ermetiche / e sperare di scorgere raggi d’amore/ le ali della gioia a pieno volo”

Amore, gioia, speranza: ecco i pali sui quali viene consolidata la parola poetica che serve da faro per proseguire il viaggio, sebbene in alcuni momenti il dolore ed il male abbiano la capacità di sopraffare il bene e la felicità. Ed ecco a questo punto affacciarsi l’alchimia della fede che disgela e cicatrizza la vita.

Sono i testi di Chiappelli volutamente personali, ma nello stesso tempo trascendono il sé e si fanno portatori di testimonianze. Non c’è ambiguità, ma riflessione autentica. Non c’è retorica, ma capacità persuasiva.

“Il fuoco non incenerisce la luce/ né l’acqua può affogarla/ il dio sole raggia la sua verità/ sa che nessuna potenza palpitante / può spengerla o mutarla in menzogna”

Oltre alla gradevolezza e alla bellezza insite in queste liriche, dobbiamo notare anche il desiderio di ricerca della verità: non quella assoluta, filosofica, ma quella del quotidiano, dell’hinc et nunc, dell’attimo fuggente. Non a caso in una sua poesia l’autore dirà: “Fra 18 anni avrò cent’anni/ bel bersaglio se riesco a centrarlo…/ ma occorre che qualcuno/ con arco teso e con gran cura / lanci spero con gentilezza/ uhi, senza innervosire il dolore/ ch’è sempre all’erta e mai sazio”

Le domande e le constatazioni sono quindi all’ordine del giorno. Si susseguono ininterrottamente come un fiume in piena. Ci si chiede che cosa sia l’amicizia, la lealtà, l’amore (erotico o platonico), l’odio, che valore abbia il denaro: quesiti che spesso si risolvono in altri quesiti e paiono a volte come sequenze di pascoliana o leopardiana memoria, rivalutando ora le piccole cose nella consapevolezza della loro grandezza, ora le incognite esistenziali sul tempo e sul mistero.

Non mancano nemmeno nei testi di Chiappelli gli istanti propedeutici della natura che ci accompagna notte e giorno, che ci culla e ci ammansisce. Né viene meno il ricordo di tempi in cui povertà e inconsapevolezza non distruggevano affatto la serenità del vivere. Anzi la rinvigorivano e ne illuminavano il prosieguo.

 

Enea Biumi           

 

Adelfo Maurizio Forni, “Quel giorno” – “Kintsugi”, Genesi Editrice, Torino, 2021 – 2022


 

 

 

Il tempo è l’elemento che unisce e racchiude gli episodi di questi due pregevoli volumetti di racconti. Ma non il tempo tradizionale, come lo intendiamo noi principalmente (un prima, un adesso e un dopo), bensì un tempo del tutto soggettivo e intimo. A ben vedere si tratta di un cammino interiore orchestrato su situazioni esterne al limite del doloroso, della ricerca del meglio o dell’indifferenza sostanzialmente priva di una qualsiasi meta. Ciò che ne risulta è uno schizzo di concreta umanità trasmessa attraverso l’esperienza personale e diretta dell’autore, il quale ama però celarsi quasi sempre dietro un volto, un nome, un avvenimento. I vari riferimenti diventano quindi il teatro che investe il lettore e lo conduce come dietro le quinte alla visione di uno spettacolo in fieri facendolo spesso sentire partecipe e attore lui stesso su quel palcoscenico che è la vita.

In tal modo prendono vita e si distinguono i vari racconti in una specie di eidophor in cui si avvicendano i personaggi o, per meglio dire, i diversi tipi con una loro intrinseca peculiarità. I tanti quadri che si dipano, non in successioni strettamente temporali, appaiono simili a commensali che discutono e dissertano acronicamente in un eterogeneo simposium, ubbidendo solo al caso o per meglio dire alla fantasia e alla penna dell’autore che ne traccia i profili.

Non dobbiamo meravigliarci quindi se, in questo modus vivendi e operandi, sussiste sempre un adynaton che si spiega solo se si è compiuto quel passo, ci si è attenuti a quel tale desiderio, si è espressa quella parola o quel giudizio. Da lì non si può più retrocedere. È il fato, o chi per esso, che lo vuole perché ormai le scelte sono state fatte e non si può scappare.

I due volumetti parlano appunto di una data fondamentale. “È proprio quel giorno in cui abbiamo preso una decisione, o abbiamo ascoltato qualcosa, quando siamo rimasti folgorati, quando abbiamo scelto consapevolmente o meno se andare a destra o a sinistra, quel momento in cui ci siamo ritrovati vestiti in un altro modo e incamminati in un percorso che ha cambiato la nostra esistenza.”

Significativo, a questo proposito, è anche il passo tratto da Enrico V di William Shakespeare che recita: “chi non morirà oggi e vivrà sino alla vecchiaia, ogni anno, la vigilia, conviterà i vicini (...) Felici noi, noi pochi, schiera di fratelli.” Il che evidenzia e giustifica, rafforzato da un punto di vista letterario,  il coinvolgimento in un possibile e ideale banchetto di amici e lettori.

La struttura dei due volumetti offre quindi una chiave di lettura asimmetrica: da una parte, in un crogiuolo di avvenimenti che seguono e inseguono la coscienza, ci stanno e vivono e amano e muoiono i personaggi, dall’altra in un arco di tempo ben delineato si innestano le storie dei protagonisti. Già questa esposizione, a double face, si potrebbe dire, racconta che la realtà fattuale va introiettata e analizzata per segmenti, mai accettata per così com’è o come potrebbe apparire.

Ecco allora uscire come da un magico cilindro figure esemplari quali Freda, Peppino, Francesco, Anna, Oksana, Deo, Edoardo e via dicendo: tutti personaggi nati dall’esperienza di Forni e maturati in una specie di quaderno diaristico attento e scrupoloso. Lo stanno a dimostrare le varie date che l’autore inserisce all’inizio del racconto, nonché le note e le sottolineature in corso d’opera, che motivano la curiosità del lettore. Così inquadrate in una sorta di autoreferenzialità, le vicende dei protagonisti creano il substrato e l’humus che sono la ricchezza dei racconti.

In queste pagine siamo quindi portati a cogliere, insieme con gli attori principali, momenti di una vita problematica che si interroga sul proprio essere: momenti che sono al tempo stesso testimonianza e segno etico, ovvero schizzi di una umanità che si racconta attraverso un’esperienza propria e imprescindibile. Ascoltiamo vicissitudini che si intrecciano in volti   rintracciabili nella quotidianità: una grande partitura diretta e progettata dall’esperienza dell’autore, nel desiderio di trasmetterci momenti atti a renderci più sensibili e attenti, più riflessivi e savi, perché “chiusa una porta si apre un portone”.

Orgogliosamente Maurizio Adelfo Forni sottolinea che si tratta del suo nono libro. Romanticamente possiamo definirlo il suo nono figlio: una successione che non smentisce le sue capacità di scrittura, anzi le esalta e le affina. Lo scopo – sembra alla fine suggerire l’autore – almeno in questo scorcio di tempo, sicuramente non brillante né consolante, è quello di risorgere più “impreziositi”, insieme e in grazie dei racconti, secondo quell’arte che i giapponesi chiamano “kintsugi”, vale a dire abilità nel rimettere a posto i pezzi che possono essersi rotti o rovinati e farli rinascere a nuova e miglior vita.

                                                                                        Enea Biumi

             

martedì 26 luglio 2022

ANDREA ROMPIANESI "DA ERE RELATE" PUNTOACAPO, EDITRICE, PASTURANA (AL) 2022


Con “Da ere relate” Andrea Rompianesi si fa portavoce di una duplice concezione poetica. Da una parte la dicotomia prosa-poesia si frantuma per formare un unicum poetico, dall’altra la poesia avvalora l’apporto filosofico da cui ha scaturigine la weltamshaung dello scrittore stesso.

Non era semplice né scontato un simile procedimento, ma l’elaborazione avvenuta fa sì che il lettore si trovi di fronte ad una serie di riflessioni che lo conducono, attraverso puntuali specificazioni, ad un approfondimento di ciò che lega la razionalità e l’irrazionalità, la natura ed il suo procedere, il pragmatismo e il sentimento utopico.

“Se poi aristotelica voce insinuasse ciò che è assolutamente vero così anche assolutamente essere, condurrei in sommo grado il passaggio all’ambìto progetto di volo, di corale rinascente dilucolo.”

In questa breve estrapolazione di una frase si può avvalorare e quindi giustificare l’affermazione sostenuta poc’anzi. Non c’è chi non veda uno svolgersi stilistico di prosa poetica che si accolla e regge lo studio e l’introspezione filosofica. Se ciò non bastasse basta ricorrere al pensiero VII della seconda parte, riprodotto secondo uno schema poetico verticale (VII bis).

Lo stile si traduce ipso facto in un filo conduttore che ci trasporta a riconsiderare il criticismo kantiano non solo come momento più elevato del pensiero filosofico ma anche come punto di partenza che ha saputo o per lo meno ha cercato di superare il dogmatismo metafisico. Da qui si impone la conoscenza, o quel che ne resta.

“Ma più di ogni iato, torna il rigore del mio criticismo solerte, di più relativo, così da non porre verità spendibili da una ragion pura, ma concedendo il tono seducente del compromesso con la ragion pratica, necessitante l’imperativo categorico dell’ordine a dirsi la libertà personale termina dove inizia l’altrui.”

Non è un caso, come si vede, che l’exergum iniziale riporti proprio una citazione del grande filosofo tedesco, così come non è un caso che nella seconda parte della raccolta venga riportata una citazione di San Tommaso riguardante l’esistenza di Dio. Siamo su due fronti paralleli che si compongono e scompongono come un puzzle e che ci inducono a profondi ripensamenti: su noi stessi, sulla vita, sulla natura, sulle convinzioni e convenzioni.

Se riconsideriamo il titolo, che a prima vista può apparire criptico, ci accorgiamo allora che le ere sono il passaggio del tempo, del nostro tempo, del nostro sapere e conoscere, delle nostre incerte certezze. E quell’aggettivo relate (dal participio passivo del verbo latino referre) non sta solo ad indicare qualcosa cui si riferisce, bensì una relazione a 360 gradi con noi stessi e il mondo che ci circonda.

“(…) certo bisogna reagire, tornare alle cose. Riacquistare rapporto con i fenomeni, giungere alla visione d’origine, concedere attesa (supposta attenzione?) per coscienza intenzionale attraverso (mia cara) (e nel senso) di una epoché (sospeso il giudizio) (…) Intersoggettività trascendentale o insieme delle umane operazioni.”

Ed ecco allora la necessità di rivolgersi ad altro. Meglio ancora: ricercare il Supremo, ciò che non si percepisce se non con la fede, riconoscere che altrimenti è un fallire, un venir meno: cercare un aggrappo, chi ci sostiene.

“Il mio, a un punto, precipitare scomposto, turrito, avulso, nell’acquoso ristagno di una escatologica incognita, attempata ad angoscia. (…) Lo Spirito ha invaso il silenzio, sospinto l’acceso tumulto alzandolo in fede aperta, così come accolta, assunta. Da segno su pelle, su animo, inizia anche il tempo riflesso del cogliere il dato pensante che espone il pensiero. Fede e ragione… riamato.”

A questo punto sembra che ogni ostacolo sia stato rimosso. La filosofia ha offerto se stessa come Vestale sacrificale e sacrificata, la teologia ha guidato e ordinato il soccorso. Non rimane che andare “verso l’Assoluto trascendente/ (l’Essere divino è il suo stesso essere sussistente; gli enti hanno l’essere per partecipazione) // verso il Padre / «… come io vi ho amato…»”

 

Enea Biumi


giovedì 2 giugno 2022

Gianfranco Galante. Un nome, solo: Mario, il nome di "Nessuno", Scriptores, Varese, 2022


 

C’è una domanda posta alla fine di ogni capitolo (bisogna arrivare a pag. 124 per non più incontrarla; la ritroveremo poi come atto conclusivo del romanzo) ed è: “In pace?”. Se fossimo a teatro indicheremmo questa frase come un tormentone. Si chiamano tormentoni proprio perché tormentano, perseguitano gli spettatori o con lo scopo di suscitare risate, o con lo scopo di farli riflettere su ciò che sta avvenendo sul palcoscenico.

Ecco: quella domanda ripetuta a dismisura tende a farci soffermare sul protagonista, che a sua volta si interroga in continuazione. In effetti, la narrazione viaggia nell’inconscio di Mario per farlo emergere non tanto e non solo al lettore, ma soprattutto a se stesso. Non altrimenti si leggerebbero queste pagine se non come un tentativo di dare un senso alla propria vita.

Oltre tutto non è solo la pace il desiderio ultimo di Mario, bensì il riconoscimento di uno status. In effetti il protagonista sembrerebbe voler insistere su questo aspetto della sua esistenza. Sembrerebbe voler dire: la mia carta di identità è quella dove sta scritto il mio nome, il mio cognome, la mia data di nascita, il luogo, il mestiere, ma quello che io sono veramente dove sta scritto? Ed io stesso so chi sono veramente? Mi riconosco in questo Mario? Oppure sono qualcosa d’altro che nemmeno io so definire e ritrarre?

Si sente in questo rincorrersi di interrogativi la filosofia di un conterraneo di Galante: Pirandello. Certo è che Mario non cambierà identità come Mattia Pascal. Ma come Vitangelo Moscarda si sentirà stretto in una morsa di incomprensione e spesso di inguaribile delusione.

Mi rendo conto di entrare a man bassa nella coscienza del protagonista, nella sua autoanalisi minuziosa e precisa, di strappare il velo del segreto che tante volte ognuno di noi antepone agli altri (e rieccoci al già citato Pirandello: Così è se vi pare). Eppure Mario è quest’uomo interrogante, che guarda dentro di sé, che si autodefinisce – ingiustamente a mio avviso – nessuno. Si crede forse uno sconfitto? Un inetto come lo sveviano Zeno? Sicuramente non è un eroe, né lo vuol essere o diventare. Tanto è vero che alla fine il confronto non sarà solo con se stesso e la propria solitudine, ma con la moglie, che al ritorno del momentaneo esilio, riabbraccerà affettuosamente come non mai.

“Ciò che si racconta” sostiene il critico Vincenzo Capodiferro in Insubriacritica “è il proprio erlebnis, in un flusso vitale continuo, nel riflesso di un fiume eracliteo, ove è difficile ritrovare la posizione dello spettatore e del fiume: entrambi sono risucchiati nel flusso, in un flusso maggiore, come nei paradossi sulla temporalità, derivati dalle riflessioni di Mc-Taggart.”

Ed il protagonista per ben riflettere si allontana per un breve periodo da tutto e da tutti. Ricorda il passato, indaga su eventuali errori, analizza la propria esistenza in un turbinio di domande e di risposte.

“Mario amava sedersi, ogni tanto, sulla terza panchina in quella bella terrazza a strapiombo sul mare. Era una grande piazza arredata da palme e contornata dalle stesse. I blocchi di marmo, che ne creavano giochi geometrici per terra, la illuminavano con il suo bianco candore. Ed i ciottoli, a corredo, davano quel senso di antico e rustico al tempo stesso. La vista, oltre la poderosa ringhiera, poteva vagare a perdita d’occhio sul mare, sulla curva dell’orizzonte, su per il cielo od in cerca di vele che facessero sognare. Mario sedeva sempre solo. Quando si recava sulla grande terrazza, cercava i momenti del giorno in cui non ci fosse afflusso; i troppi turisti lo avrebbero disturbato.”

Seduto, solo, come sottolinea l’autore, sulla “sua” panchina del lungomare dove contempla estatico la natura, vede la propria famiglia, distante ma ben presente nel suo animo, ricorda gli amici, disvela i nodi del suo vissuto. E dopo questo isolamento volontario di meditazione e introspezione, in modo non del tutto sorprendente, Mario si accorge che il tormento non è solo il suo.

“Il vero è che, forse, anche a casa di Mario i familiari soffrivano i propri dubbi, patimenti, riflessioni e bisogno d’aria; bisogno di respirare. Ognuno di loro, forse, nell’intimo soffriva confusione, dolore e rabbia inespresse. Ognuno di loro però, Mario compreso, non può conoscere l’intimo dell’altro a fondo. È intimo, appunto.”

Ed ecco ritornare la domanda cruciale: in pace? Potrà alla fine dormire tranquillamente in pace? L’autore non ci offre una risposta, sebbene nelle ultime pagine venga descritta una riconciliazione familiare spontanea e solida. Ma questa pace sarà veramente duratura?

Come ogni romanzo moderno le risposte le può dare solo il lettore. Non si tratta però di cercare una morale, a mio avviso. Ognuno si costruisce come vuole o sa fare. Ugualmente lo farà quel lettore che Galante ha saputo catturare pagina dopo pagina attraverso un turbinio di interrogazioni per nulla scontate e che danno il senso all’esistenza, a quella Weltanschauung tanto cara ai romanzieri mitteleuropei del novecento.

 

Enea Biumi                                                                                                

 

 

Sandro Gros-Pietro, Le farfalle di Paciolo, Genesi Editrice, Torino, 2021


 

C’è sempre da imparare. Confesso che non avevo mai sentito nominare Paciolo e la partita doppia mi ha sempre lasciato molto indifferente. Ora, con questo nuovo romanzo di Sandro Gros-Pietro mi ritrovo ad indagare un mondo finora a me sconosciuto. Ma la curiosità suscitata non è solo per il frate Luca Bartolomeo de Pacioli, matematico ed economista, fondatore a detta di chi sa della ragioneria. Sarebbe gioco forza riduttivo. L’interesse e il desiderio di approfondimento sono dettati dall’andamento del romanzo costruito su due linee che si intersecano, si sovrappongono e divergono. Come farfalle, appunto, che svolazzano liberamente e diventano il simbolo di un desiderio inespresso di immortalità. Ma sono pure l’emblema di una trasformazione essenziale: da bruco, a crisalide, a farfalla. Allo stesso modo il protagonista si trasforma per autorigenerarsi e vivere parallelamente più vite: matematico nel cinquecento, contabile nel seicento, libertino nel settecento, imprenditore nell’ottocento, businessman a livello mondiale nel nostro secolo. In questo continuo susseguirsi di situazioni fra realtà e immaginazione, emerge evidente il gusto narrativo e direi giocoso di Sandro Gros-Pietro che ci conduce attraverso il tempo a considerare l’essere dell’uomo, il suo esistere, i suoi desiderata. Non ho citato a caso il gioco. L’autore si diverte a condurre il lettore in una specie di Monopoli in cui i dadi ci permettono di avanzare, ci costringono a regredire, ci obbligano a rimanere imprigionati. Ed ecco il ritorno delle farfalle che aleggiano su tutto e solleticano la nostra attesa, come in un thriller dove il desiderio di conoscere il colpevole ci agguanta e ci lega fino alla fine. È sufficiente dare una rapida scorsa ai titoli dei vari capitoli per renderci conto della struttura e dell’andamento del romanzo. Innanzitutto constatiamo la divisione in due parti. La prima, intitolata lI tempo è velocità, ci indica la duplicità della vita. Infatti i capitoli si alternano nella descrizione della storia di due amici l’uno opposto all’altro, (il primo, Leonardo Giribaldi detto Fax tutto intento ad arricchirsi materialmente, perché ama nel senso stretto della parola denaro e potere; il secondo, Giorgio detto Dindo, immerso nei suoi studi filosofici, lontano dalla meschinità egoistica del primo). In tale narrazione si inserisce Paciolo che si misura col tempo e nel tempo attraverso un magico elisir offertogli nientemeno che da Margherita Boninsegna compagna di Fra Dolcino. Ma il Luca Paciolo lo ritroviamo anche nella seconda parte del romanzo, dal titolo Docking, dove si rivela essere proprietario di un’azienda a livello mondiale per il commercio on line. I capitoli di questa seconda parte denominati in lingua inglese (per me di non immediata comprensione, ma appartengo alla vecchia scuola franco-italiana) tranne l’ultimo – Sherlock Holmes va a caccia di farfalle – rivelano, se fosse necessario, il carattere globale dell’odierna società (d’altra parte ci ricordiamo tutti la famosa formula su cui andava rifondata la scuola italiana: le tre “i” – internet, impresa, inglese). Ecco allora che in una sorte di magia il puzzle ha una sua collocazione. Si tratta di una critica non tanto velata ai mali di una civiltà malata nel profondo, una civiltà che si è malauguratamente allontanata dalle origini, che non sa e non vuole riconoscere il bene, che sostiene la propria sopravvivenza sul principio del più forte, del più furbo, del più accentratore. Anche il linguaggio, a un certo punto, fa prevalere quello odierno, fatto di strappi o di segmenti, rispetto a quello classico più levigato e controllato, con un pastiche, che va oltre quello utilizzato nel secondo novecento, per incentrarsi quasi totalmente sulla mistica del tecnico e sull’esposizione di una coprolalia che non si arresta nemmeno tra coloro che dovrebbero essere i migliori. La maestria di Gros-Pietro sta nel saper dosare attentamente termini ed espressioni in modo tale da non sovraccaricare il racconto più del dovuto. Così il romanzo acquista una sua originalità risultando perfettamente equilibrato nei toni, negli argomenti e nei personaggi. Sta poi al lettore saper discernere tra il fantascientifico e la realtà, tra l’essere e il dover essere. Perché alla fine c’è sempre una morale, o un segreto o un delitto da svelare, inseguendo magari di nascosto quell’inglesaccio di Holmes a caccia di farfalle.

 

Enea Biumi

martedì 31 maggio 2022

Enea Biumi: storie di amori, intrighi e scalate sociali (Anna Di Pietri, La prealpina, 12 maggio 2022)


Un po' come le voci di paese, ricche di colpi di scena e ironia. Sono le storie dell'ultimo libro di Giuliano Mangano, in arte Enea Biumi, poliedrico scrittore varesino che da anni riesce a tratteggiare persone e caratteri dei nostri luoghi.
La raccolta di racconti La maestrina del Copacabana, uscito per Genesi Editrice, si snoda attraverso cinque vicende inventate che sembrano aprire altrettante porte su spaccati di vita diversi ma sempre legati alla società dei nostri luoghi. Attraverso una scrittura che il critico Carlo Zanzi definisce al contempo "popolare e raffinata" e uno sguardo che lo avvicina a Piero Chiara e Giovannino Guareschi, Enea Biumi - professore di Lettere, uomo di Teatro e Poesia - narra con la sicurezza di chi sa usare tutti i registri della parola, a volte ricorrendo a termini preziosi altre addirittura al dialetto, e con il ritmo di chi ha i tempi del dialogo e della mise en scène.
Tra le pagine de La Mestrina del Copacabana ritroviamo amori, intrighi, scalate sociali, episodi divertiti di vita, ma anche un affettuoso omaggio a Giuseppe Ungaretti. L'autore ci ha raccontato cos'ì il suo ultimo libro, già vincitore del premio I Murazzi per l'inedito 2020, che verrà presentato per la prima volta in assoluto oggi alle 18 nelle sale di Villa Bozza Quaini a Cadrezzate.
Enea, cosa si respira in questo libro?
«Mi sono messo dal punto di vista di chi ascolta le chiacchiere di paese dopo la messa. Mi ha sempre interessato riproporre ciò che accade nelle famiglie»
Perché ha scelto il titolo La maestrina del Copacabana?
«Deriva dal titolo del primo racconto, che era quello che mi intrigava di più. È la storia di una maestra di scuola elementare, che ha una seconda vita col nome di Shilly e fa l'intrattenitrice di locali notturni»
Poi ci sono altri quattro racconti...
«Ce n'è uno sulla scalata sociale di un bottegaio e uno sulla vicenda di un personaggio appartenente a una famiglia importante. Per quest'ultimo ho preso in parte spunto da un vecchio racconto che negli anni settanta venne pubblicato sulla Prealpina. Un altro invece è dedicato a colui che considero il mio maestro poeti: Ungaretti. L'ho omaggiato attraverso i suoi fiumi. In un altro invece ho voluto raccontare mio zio.»
Cosa cerca quando racconta?
«Mi piace far sorridere la gente»

Anna Di Pietri

 

L'ANIMA nella Poesia di Prospero Cascini fotografata attraverso la PROPRIA, a cura di Salvatore Monetti

  La poesia, in molte delle sue forme, è molto più di un semplice esercizio linguistico o di un passatempo estetico. Essa è da meditazione. ...