lunedì 20 novembre 2023

Antologia, Il pensiero poetante, 42 poeti, a cura di Fabio Dainotti, Genesi 2023 pagg. 168

 



DOVE VA LA POESIA?
di Giorgio Linguaglossa

Il problema metodologico insito nella stesura di una antologia della poesia contemporanea è molto serio, non si può fare a meno di una idea-guida o di una tematizzazione, generazionale o di poetica o di un gruppo specifico, o di una tematizzazione stilistica. Bene ha fatto il curatore, Fabio Dainotti, ad includere nella sua antologia poeti  di tutte le generazioni a prescindere dalla datazione delle opere di esordio e a prescindere dai recinti generazionali. Possiamo dire che l’antologia abbraccia un arco temporale che va dalla fine degli anni settanta ad oggi.  L’età della rivoluzione operata dai Novissimi il 1961 e della susseguente neoavanguardia fornisce la linea di demarcazione ante-quem che si dà per scontata, dopo la quale la poesia italiana subisce il fenomeno della dilatazione a dismisura dei numero degli addetti ai lavori e delle opere di poesia. Dagli anni settanta si verifica in Italia e in Europa il fenomeno della caduta del tasso tendenziale di problematicità e dell’inflazione delle proposte poetiche che tendono sempre più a collimare con posizioni di poetica personalistiche, con posiziocentrismi e rivalità  tra i piccoli e piccolissimi gruppi di poesia. Accade così che le personalità più influenti, traggono vantaggio da questa gran confusione per consolidare la propria minuscola egemonia. Affiora nella poesia degli ultimi cinquanta anni una de-ideologizzazione delle proposte di poesia derubricate alle esigenze di auto promozione di gruppi o di singole autorialità; la storicizzazione delle proposte di poesia viene così a coincidere con l’auto storicizzazione di singoli autori.

Il criterio guida della antologia sembra essere la individuazione di una frattura radicale avvenuta nella lirica italiana verificatasi intorno agli anni ottanta e novanta del novecento. Verissimo e condivisibile. Una «frattura» dovuta a cambiamenti epocali e alle ripercussioni  nella struttura del testo poetico e delle sue stilizzazioni, con conseguente esaurimento del genere lirico e della sovrapposizione e ibridazione tra la lingua letteraria e la lingua di relazione, fenomeno che si è riflesso nella indistinzione tra la prosa e la poesia. Tutti gli autori sembrano scrivere in un linguaggio etero generico. Tutto ciò è verissimo ma ancora troppo generosamente generico. Vengono sì messi nel salvagente dell’oblio gli autori della generazione post-ermetica (Luzi, Caproni, Zanzotto, Giudici, Sereni) e viene fornita una ampia ricognizione tra i poeti non inclusi nelle alti attici della poesia ufficiale, tra i quali è incluso anche chi scrive, Edith Dzieduszycka, Luigi Fontanella, Paolo Ruffilli, Eugenio Lucrezi, Vincenzo Guarracino e altri e sarebbe improprio nominarli tutti. Possiamo però apprezzare il lavoro svolto dal curatore il quale si è trovato a dover rendere conto dell’esplosione di un genere indifferenziato e inflazionato come la poesia «post-lirica» degli ultimi cinque decenni con conseguente difficoltà a tracciare un quadro attendibile della situazione storica. Fabio Dainotti non mette le mani avanti con l’argomento posticcio secondo cui tutta la poesia contemporanea è «postuma», come ha scritto in tempi non recenti Giulio Ferroni, ma tenta di tracciare una cartografia, per quanto imperfetta, della situazione storica attuale, che è sempre preferibile piuttosto che lasciare il tentativo inevaso. Merito non secondario del curatore è aver scelto di non includere gli autori «ufficiali», vuoi per disaffezione, vuoi per discredito verso la poesia maggioritaria, e di essersi sporcato le mani, per così dire, pescando nel mare magnum dei poeti che hanno goduto in questi anni di minore visibilità.

A quasi cinquanta anni dalla apparizione della antologia Il pubblico della poesia del 1975 a cura di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, risulta ancora un mistero che cosa sia avvenuto nella poesia italiana degli ultimi cinque lustri; Dainotti si limita a prendere atto che le categorie del post-moderno, della «postumità» della poesia, della poesia «post-montaliana» e della poesia di matrice neosperimentale, sono questioni concluse e sembrano oggi argomenti su cui si potrebbe anche trovare un accordo, ma è che al quadro manca sempre qualcosa di essenziale, mancano i perimetri, le delimitazioni, le ragioni di fondo degli accadimenti; l’unico concetto chiaro e distinto è l’aver individuato il discrimine tra il genere lirico ormai esaurito e il sorgere di una poesia post-lirica. L’ipotesi che guida lo studioso è valida, ma ancora, purtroppo, ondivaga, non perseguita con la determinazione che sarebbe stata necessaria, però, a scriminante delle responsabilità del curatore dobbiamo confessare che ormai è già un miracolo aver delimitato la mappa dei poeti italiani a solo 42 nomi, per completare il quadro sarebbe occorso una gigantesca campionatura della poesia contemporanea e uno studio molto più articolato sugli attori della militanza poetica che nel lavoro di Dainotti non c’è e non ci poteva neanche essere a causa dell’enorme congerie di autori e di testi poetici che galleggiano nel mare esotico del villaggio poetico italiano. Ma Dainotti ci ha provato, a 360 gradi, come dice il nostro Presidente del Consiglio, e a lui va dato atto dell’impegno e delle forze profuse.

Il concetto di poesia che è stata scritta nel novecento come momento lineare ha promosso una forma-poesia nella quale lo spazio e il tempo erano il contenitore dell’io e delle sue vicende private. Oggi è lecito sollevare dubbi e eccezioni a questo concetto e a questa pratica della poiesis. La poesia italiana ha seguito il modello unilineare e cronologico della vita quotidiana, ed è finita dritta nella falsariga del «riconoscibile», nella «rappresentazione» mimetica. Il romanzo ha fruito di una uscita di sicurezza data dai suoi svariati generi e sotto generi: il giallo, il noir, il fantastico, il fantasy, il semi giallo, il quasi fantasy, il gotico, il gotico-fantasy, il giallo-fantasy, il fantasy e basta etc.; la poesia non ha avuto, per ragioni storiche, una altrettanta versatilità di forme e di generi, quindi era più vulnerabile, più esposta, e ne ha pagato le conseguenze.

La poesia del novecento si è trovata di fronte il problema di una «forma-poesia» «riconoscibile» con un linguaggio sempre meno «riconoscibile», con l’«io» posto in un luogo, immobile, e l’«oggetto» posto in un altro luogo, immobile anch’esso; di conseguenza, il discorso lirico si è ridotto ad uno schema, un confronto tra il qui e il là, tra l’io e il suo oggetto, tra l’io e il suo doppio, e il discorso lirico ha assunto una struttura cronologica e lineare. Senza considerare una possibilità che se l’oggetto si sposta, l’io vedrà un altro oggetto che non sarà più l’oggetto dell’attimo precedente; di più, se anche l’io si sposta di un centimetro, vedrà un oggetto nuovo. E così, il discorso lirico o post-lirico si è sviluppato tra queste due postazioni immobili. Un’altra via sarebbe stata in potenza percorribile, con le due posizioni che cambiano il loro luogo nello spazio e nel tempo, come avevano ben intuito Mandel’stam negli anni Dieci e Eliot con The Waste Land del 1922, ma dopo le avanguardie del primo Novecento la forma-poesia è ritornata all’ordine e si è assestata sul modello cronologico e lineare, trascurando il fatto che già Mallarmé aveva distrutto quel modello lineare dimostrando che era una convenzione e null’altro e, come tutte le convenzioni, sarebbe stato preferibile derubricarlo per sondare le possibilità di un’altra e diversa forma-poesia.

La poesia del novecento ha ripiegato su una forma-poesia che prevedeva la stazione immobile dell’io, con l’io al centro del mondo attorno al quale ruota la fenomenologia dell’intrapsichico. È stato il modello vincente che ha imposto i suoi binari: l’io di qua e gli oggetti di là, in un costante star-di-fronte. Questo tipo di impostazione ha condotto la poesia italiana inevitabilmente al pendio elegiaco e alla narrativizzazione privatistica, alla esondazione privatistica del privato. Il rapporto tra l’io ed il suo oggetto si è rivelato un dialogo posizionale, posizionato, convenzionato, da risultato sicuro.

Giorgio Linguaglossa

venerdì 17 novembre 2023

Silvia Comoglio “Il tempo ammutinato” (Book Editore, 2023)


 C’è tempo che confonde e che consola, detiene e smarrisce, dove gli accostamenti inesausti trovano infine una proporzione, una misura che determina quel confronto dei tratti inesauribile e nomade, anche riottoso e labile. Tutto questo in partiture, in quelle comparse duttili, nella proposta di definizione: complesso di molti righi, collocati l’uno sotto l’altro e riuniti tutti da una graffa sui quali si scrivono le parti, per le singole voci o strumenti, da eseguirsi simultaneamente. Così l’accenno all’opera “Il tempo ammutinato” di Silvia Comoglio, una delle voci poetiche più interessanti della sua generazione. Qui il passo musicale, fonetico, intende distribuirsi nello spazio della pagina, in un’accezione anche visiva e grafica, per esprimere esistente pensiero e parola in un movimento continuo che si fonda sulla natura profonda della parola stessa ben sapendo che, come afferma Flavio Ermini, l’esperienza poetica del pensiero coincide con il moto nascente della lingua, e per Comoglio la lingua stessa è agile e imprevista, lieve e profonda, strumento di navigazione lessicale e metronomo per conoscenze esperite. Il rigore dell’attenzione alle pause e agli spazi è nettamente rivolto alla percezione sonora di una complessità che muta in attimi e in tempi. Si potrebbe essere tentati, ad un primo impatto di lettura, di collegarsi inevitabilmente alle strutture inerenti un certo simbolismo, dove l’ascolto dei suoni in quanto tale si conferma  primario. Qui, però, a giudizio di chi scrive, non viene mai annullato l’equilibrio decisivo significante/significato ma, piuttosto, reinterpretato alla luce di suggestioni dense di una prospettiva ulteriore; tale da rivelarsi quasi catartica e coinvolgere le seduzioni paniche rielaborate negli accostamenti e nelle percezioni sensitive trasfigurate in canto visibile nella spazialità della pagina. La capacità di sentire un’immagine, quasi una vissuta sinestesia accorpata alla ricercatezza del termine proprio, verso una poesia di estrema raffinatezza formale non vincolata al limite del primo senso. “dunque, fu detto, la portata di ogni nuovo tempo/ è fiorire in rottura di parola nel Sempre che si accosta/ ad ogni nostra ombra” e “è allarme, allora, la voce/ che prego di guardare/ nel dono del suo peso?”... è poesia che davvero fluisce in iterazioni e rimandi, sviluppa negli spazi e nelle differenziazioni grafiche la definizione dei ritmi indissolubili che non possono essere altri né separati. Partiture da leggere ad alta voce, quelle di Silvia Comoglio, in una pianificazione di accenti tonali aderenti ad un dettato stilistico di rigorosa caratura. E’ canto, quindi, preghiera, invocazione, trama d’acque e terra, notte insonne e curva infinita, pelle e brocca, ombra contro fiore. E’ tracciato il sentiero, la sosta, nell’incursione del corsivo, dell’istante sospensivo e allusivo che l’autrice bilancia sulla pagina con grande perizia in una sorta di orchestrazione sillabica di senso e suono. “...allora, fu detto, è acuta forma di radice/ lo sguardo appena srotolato in sillabe di nomi/ incessanti e già caduti”; il ritmo fascinoso dei versi incalza e seduce, in riaffioranti rapsodie a flusso regolato, “amo il solo amare che appare in orizzonte/ del tutto senza ciglia: terra comparsa alla mia porta,/ come, come mondo, ai margini del mondo”. L’autrice compone fragranze di suggestioni, strepitii vegetali, veglie d’aurora e di crepuscolo, sillabe ed echi, nostalgie di onde, sensibilità spirituali. Ma più si tinge l’affresco di cromatismi alla Magritte, le sue luci in contrasto qui rese nella solidità densa e nello stesso tempo fluida dei vocaboli posti a soccorrersi e a sorreggersi nella danza percettiva delle compiute attinenze. Voce, quella di Silvia Comoglio, capace davvero di perfezionare una partitura nel mirabile senso dell’esecuzione stilistica più alta, virtuosa, “che ebbe in una stella  il suo tutto incandescente,/ la sua netta  terra  di preghiera”, ricordando che il tempo ammutinato è tempo dinamico che “muove” sommossa di un sentire apicale, dove s’identificano le “...incognite tue rose, plasmate-“.

                                                                           Andrea Rompianesi

martedì 7 novembre 2023

Oronzo Liuzzi “Un giorno adesso” (Transeuropa Edizioni, 2023)

 


Il verso lungo quasi narrante intercede per lo sviluppo di un flusso evidenziato nel sostegno alla virulenza dell’insidia che comporta il tempo vissuto e contemporaneo, assestato nella tribolazione dell’evento. Esonda l’aperto pensiero nel ricorrente auspicio che determina il saldo e robusto poetare di Oronzo Liuzzi nel titolo “Un giorno adesso”. Compiuto passo/destino verso testimonianza di forza civile, quando l’accorpato disegno introduce nella tessitura poematica la tecnica della parola chiave e dell’iterazione. Insiste il persistente approccio alla domanda inesausta, all’osservazione caparbia: “l’ansia la tua il pentimento scava dentro la tenera carne/ con la punta dell’ago la conversazione in mutande diverte...”, come evocando l’assenso imprevisto a testimonianza di sofferta tendenza dove però all’angolo incombe l’esplicito punto di fuga. Il termine a ripresa scandisce i tempi e i ritmi coagulando il deciso intervento condensato nell’innesto praticabile, dicibile, attestato dalla considerazione di un odierno malessere ancorato alle svolte e ai passaggi. Liuzzi determina la possibilità di un ascolto attento, esigente ma libero nella capacità di filtrare il recupero del vocabolo atteso, giusto; la parola portata al dicibile del moto quasi ondoso dei versi lunghi. Così “il tempo ecco si ripete circolare dolce tremendo apre/ le braccia ai passi dell’uomo poi torna nel buio genera/ pianti stridori riempie il mondo di fiamme gioca con/ la vita devo andare avanti sconfino” e l’enjambement attenua ma allo stesso tempo riecheggia la proposta discorsiva che affronta percezione del dolore e male di vivere. La risposta è medicamento ritmico estendibile nello scorrere dei passaggi nei motivi panici, aurorali, verso un “eccomi” che testimonia la presenza volitiva di una poesia di forte maturazione semantica; la riflessione è canora, l’avamposto avviluppa, il quesito incombe. Impossibile ignorare i momenti della collera, l’afflizione emergente, l’artificio rabbioso quando a divergere sono le prospettive angolari, i trascorsi tumulti esigenti che l’autore richiama, ponendoli a confronto con il retaggio di una storia personale e collettiva che si fa ermeneutica filtrante. Accostamenti imprevisti, a volte, impongono il moderno sentire l’evolversi dei contrasti, anche materici, policromi, quando l’oltre sorpassa “una festa di colori il tempo”. Nell’opera di Liuzzi è sempre identificabile la capacità di avvicinare in modo equilibrato ed efficace la tonalità riflessiva con la contaminazione del quotidiano, rielaborando poi la flessione pensante del recupero. E’ affrontare le sfide reiterate della necessità, cogliendo quegli squarci riconoscibili e utilizzabili nella frequentazione dei detriti, consapevoli delle perdite annunciate, non scelte, ammiccanti l’imprevisto ormeggio negli spazi ancora percepibili che la poesia indica, perché “la vita si ricorda per raccontarla/ probabilmente riviverla”, e forse al suono di canzoni che riecheggiano il pensiero emotivamente condotto. E’ ancora il tratto dell’oggi e del sempre che il poeta concede, salvandolo dal precipitare convulso dei drammi, delle schegge frantumate e inerenti al senso diffuso di ferita. L’ascolto che il verso di Liuzzi intende veicolare sussiste di tratti espressivi in moto, come passaggi ancorati ad un dicibile esteso verso il significato complessivo di una ricerca che si pone nell’ottica del trovare sempre comunque qualcosa, se non altro l’attesa citando Beckett, per poi dirla al vento di una sera. Il poeta confida: “schizzo dall’agonia una forma di evasione a luce spenta” e “catturo il tormento del giorno il fallimento i crolli gl’intrecci”, dove sempre eretto il punto di domanda incalza quella poesia che ne è generatrice stessa. Certo la distrazione ci porta allo svelamento e molto affiora incontrastato quando “il passato un maremoto ribolle liquido spietato illude”, attuando l’accostamento che riproduce l’intimo dolersi. La precisa struttura poetica di Oronzo Liuzzi in questo libro concentra nella pregevole composizione una costruzione linguistica che accosta l’identità dei termini prima dello stesso intento, misurando l’effetto sulla corposa peculiarità dei vocaboli che disegnano tracciati svelanti sulla spazialità della pagina dove si moltiplicano “piccoli gesti quotidiani feste impulsi ritratti scene appassionate” e l’autore esplicita : “non ci penso devo per questo penso posso allora volo”.

                                                                                            Andrea Rompianesi


sabato 4 novembre 2023

Autori vari, Never Surrender, Mai arrendersi!, Incontra Edizioni, Milano, 2023, €. 15,00


 

Dieci autrici e dieci autori che ci introducono in un universo al femminile: donne protagoniste ci raccontano storie di coraggio e di inquietudini, di amore e di timori, di speranze e di delusioni, di successi e di sconfitte... Sentimenti che appartengono anche agli uomini, ma in questi testi viene definita, con grande sensibilità psicologica, la visione del mondo che le donne percepiscono in modo così speciale e personale... Nota dominante: un dualismo tra le difficoltà da superare e l'apparente debolezza delle risorse da mettere in campo... Primo elemento di sorpresa: la forza misteriosa che emerge dal volere perseguire un certo obiettivo, a tutti i costi... Forza di volontà in creature che gli uomini definiscono fragili... Perseveranza: le donne non si arrendono di fronte agli ostacoli....
Affascinante caleidoscopio policromo che ci mostra in sequenza una serie di portrait de femmes emozionanti, che non dimenticheremo facilmente...

(dalla prefazione di Carlo Alfieri)

L’EVENTO di presentazione ufficiale del libro si terrà il  1 dicembre alle 20.45 a Gallarate, nella SALA IMPERO, in via Ugo Foscolo, organizzato dalla Piattaforma Culturale LA SCINTILLA.

Fabio Dainotti (a cura), Il pensiero poetante, L'immaginario, Genesi Editrice, Torino, 2023, €. 16,50

 


“Ma sedendo e mirando, interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo, ove per poco / il cor non si spaura”. Così leggiamo nel celeberrimo L’infinito di Leopardi. La mente si spinge oltre la siepe, che non è ostacolo invalicabile, ma solo confine naturale, e naturalmente sormontabile, tra il qui e ora della tangibile realtà e l’impalpabile altro che il pensiero immagina pur non vedendolo. Immaginario che la nostra immaginazione (si scusi l’inevitabile gioco di parole) partorisce: un immaginario che è in un altrove ma nello stesso tempo nel nostro pensiero, perché gli “interminati spazi” si allargano e allocano all’interno della mente. Se, per dirla con il Sartre de L’immaginaire, la percezione implica l’osservazione, l’immaginazione è invece totale. Così, nell’immensità si annega il pensiero per Leopardi, che si fa eterno e infinito. L’immaginazione – l’immaginario – è un trasumanare umano, troppo umano. E in questo immaginare, secondo Sartre – per tornare a lui – siamo “ontologicamente liberi”. Per quanto questa libertà possa fare leopardianamente paura. 

La poesia di Isabella Michela Affinito dà voce poetica alla celebre opera delle Grazie di Antonio Canova, perché «anche la pietra di cui sono fatte si muove perché s’abbracciano, come cinto è il triade pensiero che giungerà agli artisti». Lo sguardo magico della sua visionarietà creativa incanta e inchioda l’immaginario al fluido vitale dell’Altro, in una morsa stringente di bellezza estatica. La poesia sedimenta, per accumulo, questo scenario dell’alterità e il verso diventa il collante privilegiato di questa interazione straordinaria. La ricerca dell’Altro e l’impulso alla disappartenenza calamita lo sguardo attento del poeta in questi versi di straordinaria bellezza; fievole e leggero è il tono della poesia di Sebastiano Aglieco, che, nel suo immaginario, indulge a un ricordo dolce, ma inquietante. Le tracce mnestiche delineano un focus irradiante di una visionarietà creativa, coinvolgente ed empatica. L’immagine di questa nostalgica memoria è ferma nella mente del poeta con i suoi risvolti perturbanti, creando “uno spazio dilatato fino ai confini del cuore”. La poesia di Sauro Albisani è un acuto scandaglio del suo io “disajutato”; leggero come una piuma è il suo verso nella trasfusione di alcune immagini, che colgono la genuinità sorgiva del suo fantasma interiore, sospeso tra l’essere e la necessità, in un rapporto di reciprocità interattiva di una sabiana “parola onesta”. Delicata è l’espansione dell’io poetico di Sandro Angelucci, in un dettato lirico proteso verso l’altrove. Mediato da un’immagine pura, delimita limpidamente il suo afflato, proiettandolo in una “dimensione indefinibile”. La risonanza dell’illimite è in questi versi, disincantati e calamitanti, che trascinano in un’aura di un’agnizione celestiale. Immagini icastiche di un sobrio impulso poetico costellano il dettato lirico di Claudia Azzola, assediato da un “arcano ricordo”. La poesia diventa per lei un’oasi pacificatrice e liberatoria dal “pensiero dominante” e da un mondo “algido, alieno dai sogni” di “una strana condizione del vivere”. Il dettato poetico di Fabia Baldi è condensato nel fluido vitale del sentimento amoroso, costruito su un climax di notevole spessore elegiaco. La sua tenerezza è una proiezione di straordinaria radialità dell’immaginario, restituita alla ricerca dell’Altro e al suo sguardo magico. “L’inquieto sentire” viene placato nel rifugio dell’“amato Bene” nella “dolcezza del crepuscolo” e nella “seduzione dell’alba”. Il rapporto inesausto con il Tu procede per improvvise folgorazioni e per scatti improvvisi di straripante bellezza, il cui centro d’irradiazione parte dagli occhi e porta direttamente al cuore. Carezzevoli sono le immagini, che delineano la poesia di Enea Biumi. Pura e sincera è l’ispirazione, collocata in una dimensione alta, nel tempo preterito della memoria. Nel ritessere la trama dei ricordi, il poeta accende i sinistri bagliori del cuore, alimentando la fiamma della nostalgia. I nuclei fondativi della poesia di Corrado Calabrò, nell’acuto respiro poematico del dettato di Roaming, sono visti attraverso la sfera celeste, nel bagliore tenue delle costellazioni, nell’evoluzione espansiva dell’inappartenenza, nell’insondabile mistero della condizione umana. Siamo oltre i limiti dell’infinito, sedotti dal tocco magico di questi versi alati. È lo stato di grazia di chi coglie lo spazio dell’infinito multidimensionale, nel teatro dell’io, dietro il milieu metaforico della poesia. La straordinaria radialità dello scenario onirico e la genialità espressiva diventano il segno della sua eccellenza poetica. Immagini deliziose e accattivanti sono materia dell’empito poetico di Franco Campegiani, quando crea poeticamente l’intreccio della storia di Pinocchio e di Alice. Sulle ali della fantasia il coagulo della sua poesia è costruito, in modo mirabile, su un immaginario, la cui radialità è proiettata verso un oltre, irraggiungibile e misterioso. Incantevole e soave è la densa poesia lirica di Marina Caracciolo, soffusa di echi di “vaghe memorie” e adombrata da “ambigue presenze” dell’ignoto. Le immagini si disegnano in modo netto ed eloquente, ritagliando spazi innocenti di un’acuta visionarietà. L’illusoria avventura di Robinson Crusoe è nell’immagine suadente di Tiberio Crivellaro, che ci restituisce un sentimento di esulità e di solitudine essenziale. L’avventura e la sfida sono in un mondo altro, vagheggiato da questa preziosa invenzione della creatività del poeta.

Su una similitudine, protratta per l’intero spazio poetico, tra parto reale e metaforico (quello poetico) si gioca il testo di Edith De Hody Dzieduszycka, che anche mediante l’utilizzo di versicoli univerbici rappresenta iconicamente il “cordone” a cui è “allacciata” “la poesia nuova / desiderata bimba”. Leggiadra e liberatoria è l’immagine poetica di Francesco D’Episcopo, segnata da un sentimento forte di vena pascoliana e scandita da un convincente empito di straordinaria freschezza. Il poeta sogna, evitando gli scontri dell’inconsistenza umana, ma “sovra gli altri com’aquila vola”, ignorando gli effetti nefasti del disinganno e della caducità dell’Esserci. Nel candore dei versi di Carlo Di Legge c’è un’ansimante pulsione di morte, espressa attraverso immagini nitide, di un forte afflato poetico. Il tracciato emozionale è segnato dalla rete associativa della parola, che si correla all’immagine, nel disvelamento trasversale dello struggimento dell’Essere. Nell’ottica disarmonica del Fuori di Chiave, la pittura pirandelliana viene analizzata da Carlo Di Lieto, in funzione dell’immagine, sul versante dell’esegesi psicoanalitica. L’estraneità dell’io, fantasmatizzata, viene disvelata nel gioco ambiguo dei contrari e sul clinamen degli scenari dell’alterità. Il ritratto dell’Autore viene alla luce nelle risonanze simmetriche delle vibrazioni interiori, che dilatano il paesaggio della natura e quello della mente nei colori della sua pittura. Delirio e sogno sono accomunati dall’immagine, per perlustrare il fondo segreto delle latebre inconsce di Pirandello, nella diuturna dialettica di vita e opera. Tra l’apparenza e le meraviglie del sensibile e i “pensieri contrastanti” si dipana il testo di Annitta Di Mineo, in uno scenario dagli incerti “confini”, dove la sospensione della ragione dà il la al dilagare dell’immaginazione.

È un immaginario umanistico quello di Enrico Fagnano, oltre che “perfetto”, come recita il titolo del suo testo, una perfezione leibniziana ritenuta possibile al di là dell’imperfetto mondo attuale. Come qualcuno ha detto, un “ottimismo della volontà” per realizzare ciò che le idee riescono comunque a concepire. La dimensione comunitaria (“Uomini / che camminano / insieme / ad altri uomini”) trova però forza a partire da uno sguardo introspettivo (“Io sono / la mia memoria”, “Io sono / le mie domande”, “Io sono il mio respiro”) che però si proietta fuori di sé (“Io sono l’altro”) per realizzare una comune libertà. Per Paolo Fichera l’immaginario sembra essere ciò che è rimasto ancora sospeso tra l’evento non accaduto e ciò che appare invece dimenticato o non detto (“Quel che non accade resta / sovrano, eppure cade / tra i grani di una parola impronunciata / fedele alla stirpe d’Eleusi”; “Forse che dimenticata possa accadere?”), come se fosse necessaria un’iniziazione per addentrarvisi. La scrittura, elegante e levigata, si nutre di riferimenti cólti che vanno dal mondo della mitologia antica a quello delle arti figurative (Eleusi, Rodin, Renoir). Le immagini si susseguono con forza fantasmatica, laddove per fantasmatico s’intende sia il favoloso, sia l’inafferrabile (“Chicchi d’uva travalicano neve, / perde nel bianco la terra la fame / precisa, la fiamma nel giglio / leviga mani, guance, neve / inesauribile tra terra / in incanto: atroce terra”). Antonio Filippetti mette in discussione il valore salvifico dell’immaginazione; “immaginazione è il migliore / dei mondi possibili?” si chiede rovesciando la fiducia di Leibniz e spezzando con un enjambement e un rientro del verso successivo la stessa espressione del filosofo tedesco lasciando “migliore” a pencolare monco nel verso precedente e isolando a capo i mondi possibili. La speranza sembra essere diventata illusione, e il cassetto dei sogni appare irrimediabilmente chiuso. Se uno spiraglio rimane aperto è che la forma interrogativa se da un lato appare mera domanda retorica, dall’altro assume pure l’aspetto d’un interrogare ancora aperto. Luigi Fontanella, dalla sua nuova patria, gli Stati Uniti, dove vive da decenni, all’immaginazione sostituisce la percezione del tragico dato sconfortante fornito dai sensi. Attraverso il diaframma trasparente della finestra lo sguardo sembra spingersi ben oltre il suo “amato albero” e la scena, lo scenario sembrano diventare il tragico mondo dei nostri giorni. Se l’albero, che è la vita, è diventato suo fratello, non si può non pensare all’autodistruzione verso la quale invece corre lo svolgersi del nostro tempo: “E penso di colpo, per contrasto, / all’autoannientamento / di tutto ciò che abbiamo costruito, / al cadavere oramai rattrappito / di quella madre in fuga / con l’umile sporta / delle sue bagatelle, / a quei due figli stramazzati a terra, / ai rigagnoli di sangue rappreso / sul suo viso contratto”. Sono “visioni incrociate”, come le “stagioni incrociate” di cui in precedenza Fontanella ha scritto, due realtà diverse, quella pacificata e rasserenante che vede dallo schermo della propria finestra, quella tremenda e perturbante che proviene dai monitor televisivi, di oggi ma anche di ieri. Di sempre. La musica è l’arte del tempo, non c’è musica senza lo scorrere del tempo, ma non ci sarebbe neanche la vita in un punto fisso nell’atemporalità, ci dice Sonia Giovannetti; ma anche la poesia musicalmente è arte del tempo: la puoi trovare fissata per sempre sulla pagina, ma è nata dal movimento della scrittura, della mano sul foglio, e vive nel tempo della lettura, del movimento degli occhi sulla pagina. Ma, sinesteticamente, la musica è anche luce che fuga le ombre: “C’è un bordo oscuro nelle cose / ma c’è chiarezza nelle note che / muovono il suono: non morirà / così il verso nel percorso del dire”; “Eppure resta il suono / dei panni stesi al sole, / musica di un rimpianto / che non si estingue”. La musica che ci vibra dentro e vibra nelle cose riaggancia anche il passato: “Mio padre è ancora là, / col bastone in mano / a tracciare linee sulla polvere rimasta”. L’immaginario per Vincenzo Guarracino s’insinua nella disposizione stessa dei versi sulla pagina, non solo: entra nelle parole e le spezza, le deforma, ne trae altri echi. La Pagina è un Telaio che tesse e disfa parole e frasi (“verifica l’ans(i)a del fiume la ferita / la rotta segnata l’ombra conosciuta, per / es(empio)…”) lasciando incompiuto il senso che si ricompone – se si ricompone, se è necessario che si ricomponga – al di là della pagina stessa. Il segno diventa un sogno che ha le regole apparentemente anarchiche del sogno (che pure ha una sua normatività): “discende l’occhio è reale (altrove) / alterni golfi che ora (a cerchio) (in sogno) / il segno registra in volo (inventa) ap- / punta il centro”. E si lascia tronco il famoso assioma scolastico fatto proprio da Locke – “nihil in intellectu nisi prius in” – e integrato da Leibniz: nisi ipse intellectus. E qui infatti l’intelletto gioca con sé stesso e in sé stesso trova un immaginario verbale. Narrazione surreale, quella di Giorgio Linguaglossa, polifonica e a tratti sincopata: non a caso, il riferimento alla musica attraversa tutto il testo, una musica killer che uccide uccelli e fiori. E un finale noir inatteso (ma forse non tanto) in chiusura. L’atmosfera straniante è introdotta da un misterioso K. che non si sa se identificare con il più famoso K. della letteratura mondiale, ma il fatto che fumi un sigaro cubano smentirebbe l’ipotesi: “K. esce dal tempo. Rientra nel tempo. Nel presente. / Notte. Pioggia. Ombrello. Sotto l’ombrello, il cappello. K.” Ma non si sa di cosa essere sicuri: “«Le parole tradiscono le parole», disse K”. E l’autore si fa chiamare in causa da una delle voci che interloquiscono nel testo: “È un peccato che Lei non abbia stile caro Linguaglossa”. Cosa che certo non si può dire di questa particolare scrittura poetica. In una sorta di incubo ci trascina soprattutto il secondo dei due testi di Roberto Lombardi. Ma già il primo, “dedicato” alla pubblicità, ci proietta in un mondo in fondo irreale: “di cosa parla? d’illusione. la sua. / l’ha detto la pubblicità / che può essere magra e grassa / non importa l’importante è che / sia libera. libera da che da che cosa? / non lo dice. la pubblicità non lo dice / non dice da questo o da quello. libera”. Pubblicità che incontriamo anche nel secondo testo: “una mucca morta in una pubblicità giammai / una fetta di sangue sì una fetta sola con parsimonia e meglio se cotta / se ben cotta / ma l’intero animale l’intera morte no”. Ma la morte della mucca introduce al tema dell’inevitabile scomparsa personale, tutti destinati a nuotare nello stesso lungo e interminabile sogno, che è appunto un incubo, un insostenibile immaginario. Ai cigni di New York, appunto Swans, s’intitola il testo di Eugenio Lucrezi dedicato alla moglie Paola. Ma che il musicista Eugenio non alluda anche alla band omonima attiva dal 1982 sulla scena newyorchese? Alla fine scrive infatti “Un gruppo Gothic / così vola / Tra lacrime, / the Swans”, e la loro music fu pure detta gothic rock: quindi l’autore confessa. Musicalmente, il testo si articola in una serie di haiku – almeno li chiamiamo così perché tutti di tre versi brevi – nei quali i cigni effettivamente compaiono (“Cigno ritagli / L’acqua e l’aria / Senza ferire foglia”) in una serie di fotogrammi, fenomenologia della grande mela vista attraverso piccoli scorci che pure spingono a trovare altro senso negli spazi bianchi tra una stanza e l’altra del testo essenziale e raffinato: “Il cigno veglia / Dorme l’eme / La clorofilla sogna”. Immagini di giovani ragazze attraversano i testi di Angelo Manitta: “seni fanciulli”, “lo sguardo diafano della ragazza / che trasforma in pura luce / deserti di miraggi”, “fanciulle inebriate / da vaghi corteggiamenti”. Un’atmosfera soffusa pervade i versi, talvolta inquietante, talaltra malinconica. Se troviamo “labili oscurità”, c’imbattiamo anche nella “carezza d’una mamma” e ci muoviamo tra un che di fiabesco e la tenera quotidianità. Uno scarto è rappresentato dall’ultimo testo, dove domande senza risposta s’interrogano sul perché d’una scomparsa prematura di una bambina: eppure è come se fosse ancora tra noi: “Ma tu vivi e corri / e sorridi e mi abbracci: immagine / sciolta in un bacio”. La serie delle “e” congiunzione è come se rafforzasse questa presenza assommandone le manifestazioni.

La composizione di Irene Marchegiani, Metamorfosi, risulta come sviluppo immaginario della terzina iniziale, dove l’angelo, oggetto di fede dell’ava, costituisce la base di ogni rapporto d’amore. L’angelo “laico”, infatti, con la sua luce per la poetessa è fonte di ogni valore vitale e umano: fortezza, gentilezza, gioia, affetti imperituri, rinnovamento ad ogni svolta della vita. Tra luci ed ombre, con l’aiuto dell’immaginazione, e sforzandoci di scandagliare i meandri della memoria, possiamo cercare di capire i vari risvolti della realtà e della vita. Infatti, secondo Adriana Gloria Marigo nel gruppo di sette poesie ancora inedite, non è facile neppure cogliere il significato delle parole e delle frasi: bisogna spesso osservare le movenze degli sguardi per interpretare e capire l’esistenza delle persone; è necessario ricorrere alla fantasia e all’intuito per percepire il mistero dei movimenti del sole e della luna e per trovare una spiegazione al crescere e al morire degli alberi, per cogliere il senso del differenziarsi dei fregi nei blasoni e negli stemmi dei casati e dei raggruppamenti umani. Il rumore prodotto dallo scorrere di un fiume (nella lirica Le fronde di un salice) o l’infrangersi delle onde sulla riva del mare (nella lirica La spuma del mare) risvegliano nell’animo della poetessa, Manuela Mazzola, sensazioni e immagini varie. Presso il fiume la vicinanza di un salice frondoso evoca l’affollarsi delle vane illusioni giovanili mentre la spuma marina, sciogliendosi, rappresenta l’evanescenza dei sogni, che, come corpi perduti per sempre negli abissi, non avranno nessuna possibilità di realizzarsi. Le due liriche si fondono in un’unità poetica per l’affinità della tematica. Come la mangusta, animale carnivoro, un tiranno è capace di stritolare un gran numero di persone. Nell’Ode alla Mangusta Occidentale Vincenzo Moretti ricorrendo all’immaginazione ci offre la metafora di questa micidiale bestiola per denunziare i casi di varie dittature, quale quella cinese, che ha fatto milioni di vittime, o quella attuale operata dal russo Putin aggressore della Georgia e dell’Ucraina. I mass-media, afferma l’autore, tuttavia, pur mostrando ostilità, attenuano i toni per il timore dello scoppio di conflitti atomici, anche se c’è da augurarsi che prima o poi la mangusta volga contro “Vlad” i propri denti. Nella composizione poetica, in verità di sapore un po’ prosastica, Adolescenza, di Giampiero Neri, si riscontra un tuffo nella lontana adolescenza. Adesso l’autore non dà molto spazio all’immaginazione, ma rivive lucidamente diversi risvolti di quell’età, anche se allora una certa visione fantastica o bizzarra della vita non gli mancava. Vengono rievocati i vari rapporti con un amico coetaneo già compagno di scuola, con la madre e con il padre: il tutto tra un diffuso senso di insoddisfazione e di voglia di cambiamenti. La lirica Sacrilegio, di Emanuele Occhipinti, denunzia la malvagità di gran parte degli uomini e, portando il discorso sul piano religioso, immagina persino che essi sarebbero anche capaci di ricattare il Padreterno. Infatti, dopo aver martirizzato e messo a morte Gesù Cristo, se Egli non avesse portato in cielo il proprio corpo certamente lo avrebbero usato per escogitare ricatti a Dio al fine di ottenere introiti in denaro. Il guadagno economico, pertanto, è considerato dall’autore il movente più rilevante dell’ingordigia e della corruzione nell’ambito dell’umanità. In un gruppo di sette brevi poesie (L’inesistenza della morte, Vorrei vederti tu, Sul bordo del libro, Uno che mi somigliava, Un bel cervello, Inzuppo gli errori fatti, Autostrade interrotte) Ernesto Ponziani dà sfogo alla propria immaginazione. Ora c’è la speranza di non morire mai, ora l’illusione di vivere senza essere osservato, ora lo spargere petali di ortensia al passare di una bella donna, poi l’illusione dell’incontro con una persona che gli somiglia perfettamente, poi ancora il desiderio di un’intelligenza superiore, quindi la rassegna degli errori commessi, infine la considerazione che parte dalle unghie maltenute. Enzo Rega ripercorre le riflessioni di Jean-Paul Sartre sull’immaginario, un tema che ha affascinato il filosofo francese fin dai suoi primi passi nella filosofia: ben due opere si susseguono negli anni che precedono l’uscita del suo capolavoro, L’essere e il nulla. Non stupisce questa precoce attenzione di Sartre per l’immaginario se si considera che ha accompagnato la riflessione filosofica con la scrittura di romanzi e drammi e con l’analisi della musica. Rega concentra la breve nota proprio sul rapporto che Sartre individua tra arte e immaginazione, considerando l’opera d’arte non una mera realizzazione dell’immagine mentale dell’artista: anzi, l’oggetto dell’arte, come tout court quello dell’immaginazione è un oggetto irreale che sì, si serve della realtà materiale per oggettivarsi, ma trascendendo il reale stesso.

Con tutta una serie di figure allusive Davide Riccio espone la condizione dell’esistenza umana, soprattutto nella composizione poetica Cascame. C’è, innanzitutto, l’ingresso nella storia fra trasformazioni e metamorfosi, tra speranze e delusioni, in un alternarsi di ferite paragonate alle punture dei tafani e la fede nella sopravvivenza dell’anima dopo aver lasciato il corpo. L’altra lirica, Pareidolie, pur nella conferma delle varie traversie esistenziali, rivela l’accettazione della vita così com’è. L’espressione è allusiva e metaforica. Al di là del semplice significato che a prima vista esprimono, le parole spesso rivelano concetti ben più profondi e inaspettati. Nella Magia dell’immaginazione Paolo Ruffilli mette in rilievo che ciò può avvenire grazie alla sonorità e alla varietà delle sfumature che i vocaboli possono assumere nell’ambito del discorso scritto o parlato tra pause, silenzi, allusioni, che costituiscono il lievito dell’immaginazione in chi legge o ascolta. Emerge, così, la vera natura delle parole, che vengono qualificate come “assetate di libertà”. Eugenia, probabilmente vittima quindicenne di un assassino di cui non si conosce il volto, dà il titolo alla composizione poetica di Laura Sagliocco. La poetessa si sofferma sui tratti della ragazza a cominciare dall’infanzia, magari aiutandosi con l’immaginazione: gioie semplici, spontanee, il flusso dei capelli e le movenze delle labbra carichi di eleganza e di fascino; tutti elementi che denotavano un’alta spiritualità protesa verso valori celesti. Quelle di Eugenia erano qualità che rappresentavano il meglio della natura, e la poetessa si augura che i suoi versi ne proteggano il fulgore. Antonio Spagnuolo nella composizione poetica divisa in quattro titoli (Richiami, Misteriosa, Candore, Storia), evoca la compagna della propria vita tra silenzi, tremiti, paure e ricordi. Il poeta riflette sul mistero del silenzio eterno che caratterizza la morte, sulle promesse della giovinezza, sui momenti incantevoli trascorsi sotto il chiaro di luna, sul rinnovarsi dei rapporti amorosi, tra carezze occasionali, anche nell’avvicinarsi della vecchiaia. Ora, conclude il poeta, non mi rimangono che rari ed evanescenti desideri passionali. Le tre liriche di Imperia Tognacci (Germogliano sogni, Nel respiro della notte, Verso la sconosciuta riva) ci accompagnano attraverso il nascere della vita e lo scorrere del tempo. Con la nascita “si apre la porta del tempo”, lungo il quale se ci guardiamo allo specchio osserviamo come mutano via via le fattezze del nostro viso. Le singole vite sono come delle piccole luci che si accendono nel buio profondo, dove si muovono innumerevoli galassie e “rosari di stelle”. Nell’ambito di questa immensità si verificano misteriosamente “amori, trionfi e sconfitte”. Cesare Vergati nella composizione D’inavventura secondo natura ci propone tre pagine di parole in libertà, senza punteggiatura e senza concordanze, in assenza di nessi sintattici e grammaticali; insomma, un gioco di immaginazione, che affida alla fantasia del lettore più che al suo gusto personale. Anche sul piano logico tutto sembra affidato al caso e alla successione di espressioni e vocaboli, talvolta di originale invenzione (a cominciare dal titolo), che fanno pensare a un puro divertimento, anche se dal sottofondo è possibile captare una profonda preoccupazione esistenziale. Il tutto sembra voler riprodurre il disordine che misteriosamente esiste nella natura, cui già sembra alludere il titolo. 

Per Matteo Veronesi, l’immaginario risiede in sé stessi, plotinianamente si diventa visione in un gioco ossimorico: “accesa cecità, tenebra ardente”. È appunto una visione cieca, persa nel nulla: “Nulla intorno ha più senso – / spettro ogni corpo, larva / ogni moto di vita”. Ogni vita sembra ripetersi in un eterno ritorno dell’identico, come in un cerchio senza uscita, in un’ontogenesi che non è che mera e stanca ripetizione della filogenesi: “Perché se non per ripetere l’orma con l’orma – / eco / il passo al passo che precede e segue – / cammino senza tempo, prigioniero e danzante / che se stesso ripete, nel suo cieco cerchio…”. Alla fine non sembra esservi un immaginario, un altrove. È disponibile a far rotta verso l’immaginario Giuseppe Vetromile anche se il viaggio sarà difficile e poche le luci a indicare la rotta. Entusiasmo e amara consapevolezza sembrano alternarsi nello sguardo del viaggiatore: “E intanto cerco luce / cerco la fiamma della vita / quella che lasciai sfinire dentro le zolle / in una notte d’apocalisse”. Agli interminati spazi dell’infinito fa da contraltare l’immagine di un anonimo e quotidiano condominio, uno di quelli che spesso abbiamo visto comparire nella sua poesia. Ma qui è abbandonato in una terra livida e buia che ci ricorda il mondo popolato di macerie nel quale viviamo. Ma non tutto sembra perduto: “vedo lo zampillare di un’antica vita / quella che fluiva nelle mie vene / prima di quest’addobbo finto / che è la mia pelle // viaggerò di notte / dissetandomi alla fonte del perdono”.

                                                       La Redazione

Unicuique suum: i testi che vanno da Affinito a Di Legge sono stati commentati da Carlo Di Lieto. Quelli da Di Mineo a Dzieduszycka da Fabio Dainotti. Quelli da Fagnano a Manitta e quelli di Veronesi e Vetromile sono stati commentati da Enzo Rega, che ha redatto anche la parte generale della premessa. Da Marcheggiani a Vergati sono stati commentati da Emanuele Occhipinti.

 


mercoledì 11 ottobre 2023

Rosanna Cracco, Ritorno alle origini: tra mito e realtà, Genesi Editrice, Torino, 2023

 

 

L’originalità di questa silloge poetica sta nell’aver riportato alla luce quello che più intrinsecamente appartiene al cuore umano: la capacità del sogno per nulla estraniata dalla realtà. In tal modo la poesia assume un ruolo di sfida: innanzitutto col tempo, ricollocandosi al di là e al di sopra della pura materialità, e in secondo luogo con il sentimento, divenendo ipso facto non solo pensiero astratto bensì luogo di verità e realismo. Ecco allora che il lettore si sente rapire l'anima, si solleva, verso orizzonti di pura fantasia, vivendo e respirando, in una specie di evasione mistica. “Come un canto ai piedi del sogno / tra le inquiete ombre della sera / Nel catturare di fantasia la giovinezza / divoravo con le parole le vicende arcaiche dell’epos”. L’opera di Rosanna Cracco sembra quasi divisa in due parti: le liriche e le spiegazioni. Ma non dobbiamo farci ingannare. L’una e l’altra hanno un’intima correlazione e non si capirebbe la lirica senza le annotazioni così come le annotazioni non avrebbero senso in mancanza delle poesie. Il “ritorno alle origini” allora vuol essere un percorso tutto teso al recupero della universalità dell’esperienza umana, in un erlebnis poetico che compie il suo passaggio alla ricerca del sé e del hic et nunc. “Oggi, libera dalla paura, / sono donna che innova / il fuoco della vita / Pianto un seme e attendo / che germogli Demetra / nello strato primitivo / della Grande Madre Terra”. È così che la poesia dà vita al mito, risveglia l’immaginazione, ricrea eroi ed eroine, ci affascina con storie egregie e coinvolgenti. I dolori, le gioie, le speranze, le difficoltà di ogni giorno si trasformano nella parola poetica e parallelamente si ricollegano a leggende che ormai fanno parte della nostra cultura. “Come Thalassa la feconda / divinità primordiale del mare / incolpo i venti di tradimento / per lo sconforto del naufragio”. “Quel dolore taciuto / fisso sulla mia gioventù / implorava la vita”. Nelle liriche della Cracco, quindi, mito e realtà si abbracciano, creano un ponte tra ciò che è stato e ciò che è. E giustamente nella prefazione il critico Sandro Gros Pietro ci fa notare come il tema centrale della silloge sia la bellezza. Ma attenzione: “il marchio di fabbrica della bellezza è la donna.” “Un mirare congiunto di sensi e pensieri / come lo sguardo assorto di fronte / alla Primavera del Botticelli / Venere e Flora divino fiorire, / le Grazie in girotondo, / vesti fiorite di api e colori di seta / in cui versare il nettare dei pensieri” (…) “Beata la bellezza che attraversa i secoli: / un gesto sacro ricongiungerla / alla salvezza del mondo”. Non per nulla buona parte dei miti che la Poetessa suggerisce appartengono al mondo femminile: da Demetra a Venere a Leda a Penelope. Certo non mancano miti riferiti al maschile, tuttavia prevalgono le immagini di donne, protagoniste e non solo nelle leggende, bensì nella vita reale. Perché, comunque, è la vita che va analizzata e decostruita, attraverso l’esperienza del reale e la conoscenza del mito. Davanti al lettore, quindi, si svolge la realtà, e la poetessa si addentra nell’osservazione, la indaga in rapporto ai miti del passato ed in rapporto alla propria personale esperienza, in una specie di husserliana epochè, in una riflessione sospesa in attesa di qualcosa che verrà. Un miracolo, forse. O la conoscenza, visto che come Ulisse si è optato per il folle volo. “Stregata dalla follia del viaggio /fino alla fine del nutrimento / inseguo, creatura ibrida, /l’ombelico del mondo / prima dell’ultimo inganno / Prima di altra silenziosa / definitiva partenza”. Aristotile sosteneva che la poesia fosse il frutto dello stupore e della meraviglia. Per questo è importante non dimenticarne la magia. Sebbene al giorno d’oggi siamo distratti da altro e la meraviglia e lo stupore li abbandoniamo ai bambini, questo ritorno alle origini ci suggerisce di non dimenticare la vera realtà. Per riuscire in ciò un’importanza enorme assume l’amore. Un altro tema caro ai poeti. L’amore che trasforma, l’amore che si fa desiderio, l’amore che avvince e convince. “Come una Penelope capovolta / nella notte intreccio ciò / che al giorno sciolgo davanti al mare” e ancora “Solo ora, sacerdote del tempo, / contemplo l’amore / come perenne creazione / Solo ora comprendo / quello sfiorare d’assoluto / anche se biga alata l’amore / con l’auriga che non ne governa / sogni e desideri, / troppo si avvicina al sole”. Da ultimo, ma non ultimo, è interessante il dialogo che la poetessa incontra con il Tempo. Se oggi siamo immersi in una società che Zygmunt Bauman definisce liquida, non possiamo non soffermarci sulla natura immanente della temporalità del nostro esistere. Non possiamo sfuggire al tempo che ci lega e sovrasta, che ci seduce e ammalia, che ci stringe nella morsa della morte. “Solo ora mi par di toccare / lo spazio sacro del tempo / un presente interiore, reversibile / che al futuro si consegna / rivestito di umana comprensione”. “Ora che urla la sete del tempo / Thanatos ‘cuore di ghiaccio / e  budella di bronzo’, avanza arrogante / e contende ad Eros il suo arrivo.” Ecco il rinnovo della dualità Amore/Morte, un legame di angosce e disperazione appena sopito da un senso religioso non del tutto compreso razionalmente, ma solo attraverso l’accettazione della fede. “Dio, i preti, i padroni vivono / per fregare la povera gente” “Ma no, la fede non è un crampo / Dio è mio amico e mi spiega la vita: /Lui sa ascoltarmi / Padrona del tempo, / non ho bisogno d’altro”. In questo contesto la poesia sfida il tempo, oltrepassa i confini del pensiero, rapisce l'anima e la solleva verso orizzonti diversi, con parole che intrecciano storie antiche e vicende contemporanee di vita quotidiana, di amori persi, di persone care scomparse e speranze di nuove felicità. In tal modo, tra mito e realtà, la poesia vive e respira, concedendo forse un'evasione sospesa in un attimo di serenità.

 Enea Biumi

 

Imperia Tognacci, Nel passo del tempo (poesie 2001-2022), Genesi editrice, Torino, 2023

 



Si tratta di un’opera omnia che riassume il percorso poetico di Imperia Tognacci rivelando una capacità introspettiva prodiga di esempi, mai stanca di indagini e di infiniti perché. Ma andiamo con ordine. Perché se è vero che tra i dieci libri che qui rappresentano tutta la produzione della poetessa esiste un filo conduttore, esplicitato nel titolo dell’opera e che potremmo parafrasare “il viaggio attraverso un tempo materiale e uno spirituale”, ogni silloge costituisce un nucleo a sé che va considerato e ponderato singolarmente. La prima opera, edita da Cannarsa nel 2004, che qui viene presentata si intitola “La notte del Getsemani” in cui la Poetessa immette il suo senso religioso della vita molto affine all’eredità di Francesco. La Natura che attornia il Cristo si fa consapevole del dramma che viene rappresentato, mentre l’uomo ancora ignora la salvezza che il Signore apporterà. “Sullo stupito salire della luna / pesava il cielo. Senza vincoli / né censure, il vento discorreva / tra i campi invasi di gramigna” (…) “Negli artigli del freddo / sempre il Signore sarà // con i poveri e scorrere sentirà / nella gola i loro gemiti, / Infonderà vigore ai fuochi / che alleggeriscono la notte”. Con “Natale a Zollara”, edito da Bastogi nel 2005, invece, Imperia Tognacci si immerge nel personale, ritorna ai luoghi e alle persone a lei care. Qui la memoria si fa consapevolezza del grande mistero dell’essere rimarcando, da una parte, la sua vicinanza non solo geografica a Giovanni Pascoli e rivelando, dall’altra, la propria cultura poetica che spazia dai classici ai contemporanei. La silloge è costituita da una serie di poemetti che paiono costituire le pagine di un diario in versi. “Risalgo la corrente per un rinnovato / battesimo in nicchia di sorgente. / Ritrovarmi, cadermi dentro, / perlustrare colli, calanchi / e fondali, per rinnovare / la fedeltà a questa terra feconda”. Ed a Pascoli ritorna esplicitamente con il suo terzo libro dal titolo “Odissea pascoliana”, edito nel 2006 da Bastogi. Si tratta di un excursus poetico che rievoca vita e opere del poeta romagnolo in un’ottica del tutto originale, legata alla medesima terra ed anche, per alcuni tratti, al medesimo sentire. Le affinità tra la Tognacci e Pascoli sono ben sottolineate in una nota finale in cui viene affermata l’attenzione che la Poetessa ha nei confronti del suo, sebbene lontano nel tempo, conterraneo. “Al di là dei ritmi nuovi – dichiara l’autrice – la poesia del Pascoli non è un monumento che rappresenta l’epoca storica in cui il poeta visse. Essa continua a scorrere nel tempo, perché coglie le radici ontologiche dell’uomo. Una poesia, infine, che non registra il silenzio del nulla, bensì la voce dell’uomo in tutta la sua complessità.”  Con il quarto libro “La porta socchiusa”, edito da Bastogi nel 2007, la Poetessa ritorna al tema religioso, ma in maniera più filosofica rispetto alla “Notte del Getsemani”. In questo contesto si fanno più esplicite le tematiche escatologiche con domande apparentemente destinate a non avere risposte se non nella fede. E bene fa Mario Landolfi a sottolineare nella prefazione al volume “una costante (…) un’istintiva volontà di rapportarsi ai massimi sistemi di pensiero ricercando in essi risposte all’insensato scorrere della nostra esistenza.” Interessanti, oltre ai capitoletti che li accompagnano, sono pure gli esergo. “Infinita genesi” ha una citazione tratta dai Pensieri di Pascal; “L’arco sulle nubi” è preceduta da un motto di Camus; “Leggere la mappa” contiene dei versi di Mario Luzi da Epifania; di Novalis leggiamo una citazione dai Frammenti per il capitolo “Dall’archivio della memoria”; “Tra le sponde del tempo” riferisce il pensiero di Miguel Unamuno; “Verso l’ora nona” si rifà ai versi di Ungaretti in Cristo pensoso palpito; “Nel nulla del tutto” riprende una citazione dei Pensieri di Pascal. Se guardiamo agli autori contemplati e alle loro parole riprese dalla Poetessa notiamo la volontà di Imperia Tognacci di accompagnare il lettore in una ben precisa direzione: che è quella di una ricerca profonda della verità. Con “Il lago e il tempo”, edito nel 2010 da Genesi editrice, l’autrice prosegue quella investigazione continua e pervicace dell’esistenza attraverso parallelismi tra la propria esperienza e quella collettiva. Come se la poetessa declinasse la sua vita con quella dell’umanità. “Nel mio essere, l’eredità / dell’umano sangue racchiude / nomi inabissati nel silenzio, / cancellati da pietre e marmi / scolpiti su lapidi d’ombra”.  Il poemetto viaggia nel tempo e ha l’andamento delle onde, come quelle che adornano il lago essendo parte essenziale del suo grembo, e si infrangono erranti, e si agitano mentre il vento le spezza per poi ritornare al loro ritmo consueto. Il lago e il tempo fanno da padroni ai versi della silloge tanto che non si può non ricordare quel “lago del cuore” di montaliana memoria, e i versi del primo Canto della Commedia dantesca dove per “lago del cor” si intendeva la “secretissima camera” o, come rifletteva Boccaccio, “la parte interna del cuore” dove abitano gli spiriti vitali. Tra l’altro per questa quinta pubblicazione c’è da notare ciò che Gros Pietro già sottolineava nella prefazione: “La concezione poematica sta divenendo sempre più la poetica predominante di Imperia Tognacci”. Vale a dire l’uso preferenziale più simile all’epica (anche se di epica vera e propria non si può parlare) e cioè più espositivo ed analitico che non sintetico. Veniamo così a “Il richiamo di Orfeo”, edito da Laterza l’anno successivo. Dedicato alla memoria di suo marito, il libro richiama la funzione del poeta e del poetare. Certo non è facile né semplice essere o dichiararsi poeta. La società è altro dalla poesia. Spesso il poeta è deriso, vilipeso, incompreso. Ciò non toglie che è necessario esserci, presenziare, richiamare. “Nelle nuove, avariate corti, / polverosi di inutilità, noi corriamo / nel caso degli eventi mondani, / mentre, padrone delle strade / e dei vicoli, ulula il vento / della solitudine”. La silloge diventa quindi un inno alla poesia e al poeta, che nonostante le innumerevoli difficoltà non deve perdere la capacità di affrontare il mondo. I poeti devono continuare a cantare, sembra suggerire l’autrice, e non appendere le proprie cetre ai salici, devono combattere soprattutto in questo tempo in cui trionfa la tecnica ed assistiamo alla hegeliana morte dell’arte. “Tendi l’arco, / poeta, per scoccare la freccia / del tuo amore verso l’altra (….)” perché in fondo la poesia è una “finestra aperta sull’assoluto”. Nel 2012 ecco un nuovo libro di poesie “Nel bosco, sulle orme del pastore” per le edizioni Laterza di Bari. L’opera rievoca atmosfere virgiliane e lucreziane ed ha un incipit che raccoglie la memoria proustiana del tempo “Risalgo a ritroso il sentiero / del tempo e mi smarrisco / nelle ombre senza confine / degli anni”. Originale è il dialogo che nel poemetto avviene tra Aristeo, il pastore per antonomasia, e la poetessa. Imperia Tognacci sembra voglia riportarci al clima primevo in cui l’uomo era parte integrante della natura. Ma quel tempo si è ridotto ad uno scontro. Non esiste più l’armonia. C’è solo desolazione e distanza abissale tra l’uomo e la natura. “Tramature caliginose nell’affanno / d’aria soffocano trasparenze / e voli. Nuvola gravida di polveri / e maree nere in agguato chiudono / varchi e spazi all’uomo tecnosapiens”. “Ma io, indifeso come il bosco: / non trovo barriera agli artigli / dell’ingordigia umana, mentre polveri / di veleni porta, sibilando, il vento / tra le turbate penombre / e su di noi ricade la cenere / di boschi incendiati”.  Sempre edito da Laterza e sempre in forma poematica esce nel 2015 “Là dove pioveva la manna”, con una interessante prefazione di Andrea Battistini e altrettanto istruttiva postfazione di Angelo Manitta. Si tratta di una silloge nata da un viaggio in Giordania. Un topos, quindi, della e nella letteratura. Ad iniziare da Ulisse per arrivare al virgiliano Enea, dal boccaccesco Andreuccio da Perugia fino al manzoniano Renzo, e giungere nel secolo scorso a On the road dello statunitense Kerouac. Il viaggio diviene una ricerca interiore per conoscere se stessi attraverso un’esperienza odeporica attiva che farà crescere e maturare il protagonista. “(…) dalla profondità / del nostro essere riaffiori / il Verbo che ci indica la strada”. Il viaggio è la coscienza del proprio essere, è la ricerca di una spiegazione valida all’esistenza. “Dei saggi voglio ascoltare le voci, / annusare spezie e profumi / orientali, su venature di rocce / leggere lo scorrere dei millenni. (…) Batte alla porta del cielo una nuova / alba, mentre, vestite di sole, / si dileguano le coste di Aqaba.” La teatralizzazione dell’opera, già iniziata con “Nel bosco, sulle orme del pastore” prosegue negli ultimi due poemetti che costituiscono un’ulteriore riflessione sul mondo, sull’esistenza, sul valore e sul perché della vita. Ne “Il prigioniero di Ushuaia” che ha visto la luce nel 2021 presso la Genesi editrice di Torino, la poetessa riproduce la propria esperienza di un viaggio presso la colonia penale della città di Ushuaia nel sud dell’Argentina, Terra del Fuoco. “Lungo i fiordi della fine del mondo / sono giunta, lungo lo snodarsi / dei torrenti, l’ingolfarsi dei fiumi, / gli occhi torbidi di nuvole, / tra fulmini che fendono / il cielo della pace”. Il libro, come dichiara la stessa poetessa, è ispirato da un’anonima poesia di un anonimo prigioniero e ha l’aspetto di una metafora della vita. Anche noi siamo prigionieri su questa terra in attesa di giudizio e di morte. Ne “La meta è partire”, edito da Genesi editrice nel 2022, un titolo tratto da un verso di Ungaretti, la scrittrice vuole innalzare un monumento alla Poesia, unica vera fonte di ispirazione per la vita, unica possibilità di sopravvivenza, unica prospettiva d’amore. La silloge appare accorpata in capitoli, come fosse un breve romanzo, e non in canti come ci si aspetterebbe in una versione poetica. In effetti, a ben leggere, c’è uno scambio abbastanza evidente tra prosa e poesia. Si potrebbe parlare di prosa in versi o, viceversa, di poesia in prosa. Al di là della connotazione chiaramente poetica poiché la scrittura ha un ritmo musicale evidente, si percepisce una trama, un discorso che si struttura in un andamento logico per sovrapposizioni e avvenimenti. Qui l’aspetto teatralizzante si fa più netto e complice dei dialoghi diventa la stessa autrice che rivendica il proprio ruolo di poeta. Anche se “Non so, Musa, se io sono poeta. / Sto nell’angolo, dietro la lavagna. / Uso l’uncinetto del cuore e della mente / per continuare la trama / iniziata nel buio dei millenni”. Ed ecco riapparire l’oggetto per cui vale la pena lottare, vivere, partire: l’amore. Sono varie le figure che riaffiorano alla mente della poetessa e che di conseguenza interloquiscono con lei conducendo il lettore in atmosfere al di fuori del tempo, sebbene il tempo, come tale, sia ben presente e accentuato. Allora il colloquio con la Musa, con Psiche, con Eva e altri, procede in un crescendo mozartiano tra interrogativi, dubbi, incertezze. Ma soprattutto precede il finale, quando il poeta ha davanti a sé Caronte che “in una mano stringe un remo, / con l’altra ti fa segno di salire.  / Tu esiti, tremante gli domandi: / «Andata e ritorno?» / «No, andata per poi ripartire.»”  Questa opera omnia è un’analisi perfetta del pensiero poetico di Imperia Tognacci, della sua filosofia, della sua idea di letteratura, della sua passione per la cultura occidentale dei classici latini e greci, della sua sincera spiritualità, della sua attenzione alla Natura e all’uomo, della sua sensibilità culturale. La poesia diventa allora il momento più alto e sublime per trasmettere e tramandare ciò che l’uomo ha conseguito ed è in grado di raggiungere. Ben inteso: nel passo del tempo.

 

Enea Biumi

 


L'ANIMA nella Poesia di Prospero Cascini fotografata attraverso la PROPRIA, a cura di Salvatore Monetti

  La poesia, in molte delle sue forme, è molto più di un semplice esercizio linguistico o di un passatempo estetico. Essa è da meditazione. ...