lunedì 10 giugno 2019

Sandro Gros-Pietro intervista Emilio Coveri e Marco Longhi sul tema: "Eutanasia"


Massimo Scrignòli “Lupa a Gennaio” (Book Editore, 2019)




E’ René Char ad aprire il tracciato in epigrafe di un suono che accosta amore e poesia. Nuova stagione è poi davvero quella che Massimo Scrignòli inaugura con un volume di prose poetiche temperate dalla robustezza dell’afflato metafisico, “Lupa a Gennaio”. Muove il testo, deflagra l’improvviso; domina l’assenso un indicibile riemerso quasi fosse un libro dell’inquietudine. Anche noi, così, scendiamo in apparente rilascio, là dove frammenti di tuono aprono scenari di amori inattesi, perturbanti. Da subito risuonano, nei testi di Scrignòli, i rimandi agli autori frequentati e interpretati: Char e Pound, Celan e Kafka, ma anche Dante. Le tracce notturne sono enucleate quasi a ridosso di una prosa in brevi quadri sospesa, raffigurata in intagli di raffinatissima perizia. Che conforto, a fronte di una miriade di proposte vacillanti e anoressiche catalogate come estri del dicibile, scorrere una traccia letteraria fieramente capace di dirsi concettuale, profonda ma mai oscura, filosofica, propriamente ontologica. Gli elementi materici, le cose, gli enti accolgono il lettore in una purezza d’intendimenti che non può però escludere la precisa consapevolezza che l’essere dell’ente non è un altro ente. “L’eclissi ha qualche cosa che riguarda il bosco: è l’ingresso docile degli occhi nella neve oscura”; riguarda il nostro senso estremo per la sensualità degli elementi, la percettibilità delle variazioni e degli indugi. Una fisicità astratta ricompone il divenire interpretabile non contraddittorio ma problematico; così come problema è il mutare all’interno di un’esattezza nominata in quanto colore che si fa nome. Un infrascritto ereo, quasi contenitore arcaico sprigionante domande abissali e ansiti costieri. E ancora la tonalità cromatica del blu si accosta ad ombre e presenze “là dove il cielo non è più cielo”, e così la parola sa discernere nel non morire. Il depistaggio è complice, l’erranza fattuale attraverso la duplicità del testimone, sensibile scolta di uno svago adulto, di una consistenza intellettuale. Massimo Scrignòli proviene da linee del fuoco e libri d’acqua; osa la dicitura compatta del brano che nella visibilità breve distende lo spazio adeguato della prosa d’arte, della nominale intenzione diretta al nucleo fondante del reale. Le acque della Senna, nelle quali Paul Celan si gettò in una notte d’aprile del 1970, assumono il senso sacrale del sacrificio devastante; si fanno, appunto, “ammutolite” ma, nello stesso tempo, ritornanti, le stesse “per concessione suprema di Eraclito”. Indicibile l’afflato panico riemergente dai vessilli di ciò che non deturpa il ripetibile, l’avamposto decifrato dal lessico ermeneutico. L’evento e il rimedio significano le cose. Davvero ritroviamo nell’opera di Massimo Scrignòli ciò che disse in passato lo stesso Char: “Possiamo vivere solo sul semiaperto, esattamente sulla linea ermetica di spartizione tra l’ombra e la luce. Ma siamo irresistibilmente proiettati in avanti”.
                                                                                                                                                                                           Andrea Rompianesi
 
 

giovedì 16 maggio 2019

Emilio Rentocchini “44 Ottave” (Book Editore, 2019)


 

 



Un pigro pomeriggio della primavera 1988. La rilettura frenetica dell’Orlando Furioso conquista definitivamente Emilio Rentocchini all’uso dell’ottava. L’endecasillabo ariostesco cattura attenzione e passione verso una forma metrica che conferma poi l’uso del vernacolo sassolese quale rifugio atemporale e mitico. Una riprova è “44 Ottave”, proposto nella collana curata da Nina Nasilli. Testo originale, quindi, nella lingua di Sassuolo e corrispondente variante, come detto in passato da Giovanni Giudici, in una più libera forma d’italiano. L’esito è una rigorosa e preziosa tessitura stilistica di magistrale sapore, seducente e fluttuante in una originaria naturalezza orale che abita la struttura corposa di una fonetica echeggiante e ammaliante, espansa nella temporalità suggerente la significatività inalienabile del contrasto indotto dall’istante. Tra le due lingue, fecondazioni e sviluppi imprevisti generano conduzioni di monadi in partitura a segni sfociante nell’ottava doppia. Allitterazioni assorbono echi su approfondimenti dinamici e ribattuti rimandi attraverso suggestioni di viatico costituente implicazioni materiche e significanti sonorità. Si liberano così pensieri che ricalibrano i suggerimenti di una percezione scampata allo smarrimento, ritrovando i punti di contatto con l’essenzialità degli enti che non eludono quell’apparente “nulla inesprimibile” contaminato dal segreto di ungarettiana memoria. Gli abissi della solitudine sanno diventare cenacoli di preghiera e inducono alla percezione più acuta delle delicate premesse che accompagnano l’osservazione e l’ascolto, la minima convergenza della cerniera. I dissidi sembrano placati dalla paziente opera dell’artigiano trasformato in fine dicitore di una profondità essenziale e incisa nella composizione del sensibile. In una società volutamente privata di effettivi valori umanistici, Emilio Rentocchini recupera e ricrea un linguaggio poetico che pone i cardini di una autenticità quasi rivelata ed immediatamente solidificata nel dettato stilistico. E allora il tempo è fuori dal tempo e coniuga una scansione intrecciata alla ricerca; così “an a tor sò na léngua a la deriva” (“anni a raccattare una lingua alla deriva”), come fosse una forma esplicitata di emozione acustica, di veleggiata saggezza.

 

Andrea Rompianesi

martedì 14 maggio 2019

FABIO DAINOTTI (a cura di) IL PENSIERO POETANTE – IL MITO – GENESI EDITRICE, TORINO, 2017, € 14,00


Il pensiero poetante è un’antologia tematica di poesia e teoria il cui ideatore e direttore è Fabio Dainotti, il codirettore Emanuele Occhipinti e i curatori del settore letterario e filosofico rispettivamente Carlo Di Lieto e Enzo Raga. I temi degli anni passati furono “Gli angeli”, “Il viaggio”, “L’enigma”. Quello attuale è “Il mito”.
Si tratta di un exursus che, attraverso la poesia, il disegno, la saggistica, mette in evidenza il valore del mito come momento fondante della nostra cultura: trait d’union fra il passato e il presente che illumina e accompagna buona parte della letteratura occidentale.
L’esergo ci riconduce a “Il mito dell’eterno ritorno” di Mircea Eliade del 1949 che giustifica lo studio del mito considerato “una vera metafisica” perché, una volta svelati, i miti rivelano, nelle civiltà arcaiche, il desiderio di scoprire la propria identità e la propria ubicazione all’interno dell’universo, mentre nelle civiltà moderne ed occidentali offrono uno spaccato del rapporto uomo-storia. Su posizioni diverse si pone Edgar Morin che comunque ribadisce in un saggio intitolato “Autocritica” l’importanza del mito, intrinseco elemento della “struttura umana”. Si viene in questo caso a giustificare, prendendo a pretesto sponde diverse, la scelta del tema e l’ineludibilità del confronto con il mito.
L’introduzione segna quindi il percorso dell’antologia che ci conduce, rigorosamente in ordine alfabetico, agli autori, poeti, saggisti, disegnatori, presenti con le loro opere significativamente improntate al mito, visto tramite scritti poetici o saggi filosofico letterari. Si tratta di una sintesi che didascalicamente incuriosisce il lettore e lo induce a confrontarsi con i vari testi riscoprendo o la bellezza attrattiva del verso  poetico o la riflessione critica letteraria e filosofica approfondita e sistemicamente strutturata.
Un’antologia da leggere con la lente euristica che vuole apprendere, avanzare, inoltrarsi nella
consapevolezza che la conoscenza acquisita non offre mai nulla di scontato.

ANTONIO MARCELLO VILLUCCI – PER PRODIGIO D’AMORE- GENESI EDITRICE, TORINO, 2017, € 8,50


La civiltà romana, ai suoi primordi, aveva espresso fra le sue più alte forme di religione e di cultura la venerazione per i propri famigliari: i cosiddetti “Penati”, che, affiancati ai tradizionali “Lari”, vegliavano sull’andamento domestico unendo in una sorta di “amorosi sensi” il passato, il presente ed il futuro. Sulla stessa linea gli Incas adoravano “Pachamama”, la Grande Madre, che vigilava sul buon andamento del desco permettendone lo sviluppo e la continuità attraverso i prodotti della terra. Era la dea che nel ciclo delle stagioni acconsentiva e dirigeva la vita. “Per Prodigio d’amore” richiama sotto un certo aspetto, e comunque in una visione del tutto contemporanea, entrambe le concezioni religiose appena sottolineate. Da una parte propone quella particolare devozione per la famiglia sotto le ali protettive di Dio (“Tu sei il Signore/ che segue i miei passi sulle strade”) e dall’altra presenta il ritmo del tempo imbrancato nel lavoro febbrile ma propizio e vitale dei campi (“Nei solchi tracciati dalla marra/ spuntano i primi frutti della terra”). Si può affermare che ogni pagina della silloge poetica di Antonio Marcello Villucci ripercorre un rapporto intimo, intenso e religioso fra l’autore e la propria famiglia, condotto nell’armonia generale del tempo e della natura. Il richiamo al passato offre lo spunto per una riflessione sul presente nella convinzione che sia quasi d’obbligo lasciare una traccia di sé, così come gli avi avevano dimostrato e proposto. Non è però un’eredità materiale quella che il poeta ha ricevuto e che a sua volta affiderà ai posteri, bensì spirituale e letteraria “per nuovi orizzonti/ lungo la sequenza degli anni”. E in un simile percorso “di libri nell’età/ che tende all’infinito” si distende e si amplia lo sguardo di Antonio Marcello Villucci tra “una capanna di paglia”, una “casa di povera gente”, “un dagherrotipo ingiallito”, alcune “dimore signorili” esaltate dalla “policromia dei marmi”, nella stessa Amatrice ferita “dalle faglie della Terra”, mentre ricalca le orme che il viaggio della sua vita gli ha concesso e che ora tende ad esaurirsi (“Ora erompe la vecchiaia/ spenta e dolente/ nell’opaco cielo invernale”). E non sono solo i ricordi che si affacciano serenamente con dolcezza e delicatezza amorevoli, ma anche le cose, gli oggetti (del quotidiano e non), la natura stessa che si ripete a distanza di anni (“Nelle sere fredde d’inverno/ m’era compagno mio padre”; “mentre la mamma sullo sporto della panca/ arredava di scarpe, corpetto e gonnella/ l’ultima nata in uscita per la festa”; “Il nonno in riposo sulla panca/ sogna le fatiche che l’attendono l’indomani”). Tutto ciò regola e regala i versi in un andante continuo, armonioso e ben strutturato, offrendo al lettore il ristorno di una convivenza a dir poco perfetta, sebbene spesso intrisa di dolore e nel dolore redenta, perché a supporto rimane la fede, la consapevolezza di un arrivederci al domani, nella dimenticanza della tristezza dell’oggi (“Incappai nel turbine del Nulla/ quasi a pelo d’acqua,/ quando un angelo o un dio/ mi fecero d’àncora soccorso”; “Due lastre in marmo sovrapposte/ avranno i nostri volti”). La natura, in questo quadro, fa da sfondo e supporta, in una visione che alcuni potrebbero definire panica, il poeta, invitandolo al raccoglimento e alla riflessione (“Sulle mie tracce s’adunano/ ninfe ed Oreadi in ascolto”; “Mi porto dentro il profumo dei fiori”; “Con l’alba l’anima lascia i tremori notturni”). E, attraverso la sublimazione della natura, soffuso nei versi si libra l’amore, che propone d’altra parte - e giustamente - il titolo dell’opera. E’ l’amore che l’autore devotamente rivolge al padre e alla madre in momenti che ne esaltano l’autorità e l’influenza per l’impegno terreno e per la consacrazione del “dopo-vita”; è l’amore per i nonni che ne rammenta i sacrifici e la lealtà, nonché la pervicacia educativa (“Giuseppa aveva tirato su i figli/ timorati di Dio ma anche cresciuti/ tra abbondanza e doveri/ mentre il suo sposo era su nave oltreoceano”); è l’amore per la moglie (“Sfioro in sogno il tuo volto”; “Ascoltavo la tua voce di fanciulla/ resa varia da un refolo di vento/ che mi rendeva la gioia/ d’altri chiari mattini”); è l’amore “Per la mia ultima nata” o per il nipote Lorenzo: in una parola è il prodigio. D’amore, appunto.

Gianfranco Lauretano “Questo spentoevo” (Graphe.it Edizioni, 2024)

“Sono partiti tutti./ Hanno spento la luce,/ chiuso la porta, e tutti/ (tutti) se ne sono andati/ uno dopo l’altro”. Sono versi di Giorgio C...