venerdì 8 dicembre 2023

Sfulcìtt: Inganni vince il premio Tirinnanzi di Legnano per la poesia dialettale 2023


 

Il titolo della raccolta poetica di Enea Biumi, Sfulcìtt (Inganni), può essere preso a manifesto di una precisa posizione, etica ed estetica, che l’autore dipana nei suoi testi: gli inganni di cui si parla in questo libro sono infatti i frutti di una disposizione al sogno e alla fantasia, sono gli effetti di una delicatezza interiore, di una trepidazione costante, per cui occorre, al soggetto, proteggersi dai mali e dalle cattiverie della storia. La pena del vivere non è taciuta, è anzi ammessa esplicitamente, e tuttavia essa viene arginata e forse anche sconfitta per effetto di un’energia proveniente dal cuore, che corregge o allontana la superficie cattiva del mondo con la carica positiva dei ricordi, dei desideri, dei pensieri talvolta persino strampalati, dei piaceri intimi e domestici. L’esistenza porta il peso delle fatiche che tutti conosciamo e scontiamo, e a questo, in fondo, si riduce per l’anima – come scrive Biumi - «ul pecà de vèss al mùnd rivàa» (il peccato di essere venuta al mondo). I giorni, le settimane, gli anni passano «in d’un bòff » (in un soffio), e se ne resta come sbalorditi, schiacciati, constatando, quotidianamente, il principio elementare di ogni filosofia: il mistero della morte che ci attende, comunque e sempre «impruvìsa» (improvvisa, cioè umanamente non prevedibile benché certa), e dalla quale, consapevoli o meno, tanto spesso ci illudiamo di poter scappare. Eppure, dal fondo del proprio esserci, Biumi percepisce la vibrazione, il sentimento di qualcosa di diverso, ulteriore, che impedisce al negativo di avere l’ultima parola. È la rivelazione, l’epifania che si impone di una bontà, nonostante tutto, quale può dedursi fermandosi ad osservare: «i nìvur sùra ’l Tisìn» (le nuvole sopra il Ticino), «la man d’una màma / ca la cùmpagna ’l tùus» (la mano di una madre / che accompagna il figlio). E così, tra i laghi di Monate e Comabbio, di Varese e Maggiore, nei cortili e nei chiostri dell’alta Lombardia, nel dialetto di queste poesie tornano a fare capolino non soltanto Pascoli (con le sue civette, i suoi panni di bucato, la sua nebbia e i suoi mesi di novembre, le sue culle, e la sua ossessione per la morte), ma persino Hegel («il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me»). Come inganni, come capricci si leggono queste poesie, che l’autore appende intorno a sé, metaforicamente, perché in esse si rispecchino e raccolgano quegli istanti di gioia vera, che parlano al cuore e lo commuovono.


La Giuria del Premio

(Franco Buffoni, presidente,  Uberto Motta, Fabio Pusterla, Luigi Crespi, segretario)


Sfulcìtt: Inganni, Lupieditore, 2022

 


Immergetevi nelle profonde riflessioni di “Sfulcìtt: Inganni”, un viaggio tra dubbi, sogni e asserzioni, tessuto nella trama della vita quotidiana e dei ricordi. Lasciatevi avvolgere dalla costante presenza della Natura, che accompagna ogni pagina con la sua bellezza e saggezza intramontabili.

Jacopo Lupi

giovedì 30 novembre 2023

Fabio Dainotti, L’albergo dei morti, Manni, San Cesario di Lecce, 2023, € 18,00


 “L’albergo dei morti” è una silloge-diario-poetico che spazia tra gli affetti del poeta e ne traduce le emozioni, i dubbi, le incertezze, i rimorsi. Il percorso è quello del quotidiano vissuto in uno spirito che raccoglie le più svariate sfumature dell’essere: uomo, amico, amante. Il tutto dosato e bilanciato attraverso una lente che ne esalta la specificità e inquadra le liriche in un attento gioco di contrappunti sonori volti ad accendere l’attenzione del lettore e a distribuire musicalità e potenza ai versi che si dispiegano come appartenessero ad un album fotografico di ricordi.   “Amaramente soffia e spinge il vento /  le onde sul litorale abbandonato; /  pare il suono di un corno desolato. /  Quanto tempo è passato, un anno, cento.”  Testimoniano l’aspetto diaristico le dediche che l’Autore pone a numerose poesie qui inserite. Dediche che danno il “la” e vivacizzano volti, situazioni, luoghi. Ecco allora che tutto si anima in una specie di esame di coscienza seralsolitario per un confronto con la propria esistenza: la memoria di ciò che è stato fatto e di ciò che si sarebbe potuto fare. Ma non c’è rimpianto. Il poeta non vuole consolazione né commiserazione. A volte rimane un sorriso, a volte subentra il dolore, a volte appaiono desideri inesprimibili o inespressi. Il tutto, però, senza inutili e fastidiose lamentazioni. Lo spazio della vita, sembra voler sottolineare l’autore, è talmente breve che non ci si può soffermare sui reclami. “Mi sento sollevato: / non voglio essere interrato /  da solo, senza tutti i miei parenti; /  da solo, come sono sempre stato.”  Si entra allora in questo grande “albergo dei morti” e si fotografa il vissuto, lo si studia nei suoi meandri più profondi e occulti, ci si interroga su occasioni perse o sprecate, si firma il registro posto sul banco della reception che è poi, come dicevo all’inizio, un diario poetico. “Ci sono ancora rose nei rosai, /  le rose che profumano (e non colsi), /  nel giardino incantato della villa (…) /  E tu, fuggita via, forse per sempre. /   Ingiustamente. /  Forse./  Amaramente.”  Da sottolineare il fatto che pur nella componente diaristica le poesie non sono presentate in forma cronologica, se cronologia esiste questa ha la caratteristica dell’interiorità o del fluire della coscienza. Il poeta, dapprima, ci introduce nel suo mondo con una lirica dedicata al fratello (Al fratellino già vecchio) per poi passare alle sue prime amicizie in cui fa capolino la sua sensibilità, il suo disagio, la sua solitudine che sconfina con un quasi isolamento sociale.   “nei viaggi ho perduto il mio cuore /       dover andar dove /  non ti aspetta nessuno / quanti fiori ho calpestato / quanti amori ho rifiutato / Torino Genova Roma /  per l’altro mondo si cambia.” Il sentimento comunque che prevale è l’amore in tutti i suoi aspetti, familiari, autorevoli, evocativi, in tutti i suoi momenti di gioia, di speranza, di attesa, in tutti i suoi anfratti di malinconia, ironia, compiacimento. E come nel più classico schema tradizionale ecco che l’amore viene accostato alla morte, rievocata tra l’altro nel titolo stesso della silloge. Il tutto ancora una volta stemperato in una serie di composizioni che tendono ad abolire il tragico sostituendolo con l’oggettiva realtà del normale. “Se sfiori i tasti bianchi e neri, come /  i tuoi pensieri, rondini volate / oltre mare per sempre, / forse è per caso, forse in sogno, infatti /  si muove la tua chioma al ralenti.” E ancora:  Scene di vita, stanza interno tre, / del popolare vecchio casamento, /  dove la vita scorre sempre uguale /  e moriamo ogni giorno, ogni momento: /   ma il faut tenter de vivre, sì, tentare /  di vivere sapendo di vivere.”  Tuttavia, la poesia di Fabio Dainotti trascende spesso il suo io e lo amplifica fino a consegnarlo al lettore, il quale, consapevolmente o no, lo traduce nella sua vita, nelle sue abitudini, nei suoi comportamenti, passati ed attuali, rivestendolo, se così si può dire, con il proprio quotidiano. Non si tratta infatti solo della “sua” Milano, della “sua” Vigevano, della “sua” Agropoli. Città, paesaggi, viaggi, così come ci vengono presentati dal poeta, appartengono a tutti, sono di tutti. Come di tutti sono i sogni, le delusioni, gli amori. L’io dell’autore diventa l’io del lettore che si vede coinvolto e trascinato in esperienze simili alle sue.   "Uomini di dolore, disperati, /          affondando tra le ondate/  con gli occhi dilatati dall’orrore /  alzavano al cielo /  le braccia che reggevano bambini /  per dargli ancora un attimo di vita.”   In definitiva ne sorte un viaggio, a tutto tondo, entro l’anima del poeta, che ripercorre luoghi, persone, accadimenti che lo hanno formato, ai quali Dainotti offre pagine di autentica consapevolezza e amorevole acquiescenza. È un ricercare il senso della vita, spesso oscurato da inganni e mistificazioni, con le sue piacevolezze, le sue virtù, le sue cadute. Attraverso una specie di flashback interiore l’autore si guarda allo specchio e disvela al lettore l’importanza di essere se stessi in ogni momento ed in ogni luogo, sia esso Agropoli o Milano, perché non è tanto l’apparire agli occhi dell’altro che plasma l’uomo ma il suo atteggiamento di fronte alla vita: una corporeità richiamata in continuazione dalla propria caducità e dalla presenza della morte.

 Enea Biumi                                                                             

lunedì 20 novembre 2023

Antologia, Il pensiero poetante, 42 poeti, a cura di Fabio Dainotti, Genesi 2023 pagg. 168

 



DOVE VA LA POESIA?
di Giorgio Linguaglossa

Il problema metodologico insito nella stesura di una antologia della poesia contemporanea è molto serio, non si può fare a meno di una idea-guida o di una tematizzazione, generazionale o di poetica o di un gruppo specifico, o di una tematizzazione stilistica. Bene ha fatto il curatore, Fabio Dainotti, ad includere nella sua antologia poeti  di tutte le generazioni a prescindere dalla datazione delle opere di esordio e a prescindere dai recinti generazionali. Possiamo dire che l’antologia abbraccia un arco temporale che va dalla fine degli anni settanta ad oggi.  L’età della rivoluzione operata dai Novissimi il 1961 e della susseguente neoavanguardia fornisce la linea di demarcazione ante-quem che si dà per scontata, dopo la quale la poesia italiana subisce il fenomeno della dilatazione a dismisura dei numero degli addetti ai lavori e delle opere di poesia. Dagli anni settanta si verifica in Italia e in Europa il fenomeno della caduta del tasso tendenziale di problematicità e dell’inflazione delle proposte poetiche che tendono sempre più a collimare con posizioni di poetica personalistiche, con posiziocentrismi e rivalità  tra i piccoli e piccolissimi gruppi di poesia. Accade così che le personalità più influenti, traggono vantaggio da questa gran confusione per consolidare la propria minuscola egemonia. Affiora nella poesia degli ultimi cinquanta anni una de-ideologizzazione delle proposte di poesia derubricate alle esigenze di auto promozione di gruppi o di singole autorialità; la storicizzazione delle proposte di poesia viene così a coincidere con l’auto storicizzazione di singoli autori.

Il criterio guida della antologia sembra essere la individuazione di una frattura radicale avvenuta nella lirica italiana verificatasi intorno agli anni ottanta e novanta del novecento. Verissimo e condivisibile. Una «frattura» dovuta a cambiamenti epocali e alle ripercussioni  nella struttura del testo poetico e delle sue stilizzazioni, con conseguente esaurimento del genere lirico e della sovrapposizione e ibridazione tra la lingua letteraria e la lingua di relazione, fenomeno che si è riflesso nella indistinzione tra la prosa e la poesia. Tutti gli autori sembrano scrivere in un linguaggio etero generico. Tutto ciò è verissimo ma ancora troppo generosamente generico. Vengono sì messi nel salvagente dell’oblio gli autori della generazione post-ermetica (Luzi, Caproni, Zanzotto, Giudici, Sereni) e viene fornita una ampia ricognizione tra i poeti non inclusi nelle alti attici della poesia ufficiale, tra i quali è incluso anche chi scrive, Edith Dzieduszycka, Luigi Fontanella, Paolo Ruffilli, Eugenio Lucrezi, Vincenzo Guarracino e altri e sarebbe improprio nominarli tutti. Possiamo però apprezzare il lavoro svolto dal curatore il quale si è trovato a dover rendere conto dell’esplosione di un genere indifferenziato e inflazionato come la poesia «post-lirica» degli ultimi cinque decenni con conseguente difficoltà a tracciare un quadro attendibile della situazione storica. Fabio Dainotti non mette le mani avanti con l’argomento posticcio secondo cui tutta la poesia contemporanea è «postuma», come ha scritto in tempi non recenti Giulio Ferroni, ma tenta di tracciare una cartografia, per quanto imperfetta, della situazione storica attuale, che è sempre preferibile piuttosto che lasciare il tentativo inevaso. Merito non secondario del curatore è aver scelto di non includere gli autori «ufficiali», vuoi per disaffezione, vuoi per discredito verso la poesia maggioritaria, e di essersi sporcato le mani, per così dire, pescando nel mare magnum dei poeti che hanno goduto in questi anni di minore visibilità.

A quasi cinquanta anni dalla apparizione della antologia Il pubblico della poesia del 1975 a cura di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, risulta ancora un mistero che cosa sia avvenuto nella poesia italiana degli ultimi cinque lustri; Dainotti si limita a prendere atto che le categorie del post-moderno, della «postumità» della poesia, della poesia «post-montaliana» e della poesia di matrice neosperimentale, sono questioni concluse e sembrano oggi argomenti su cui si potrebbe anche trovare un accordo, ma è che al quadro manca sempre qualcosa di essenziale, mancano i perimetri, le delimitazioni, le ragioni di fondo degli accadimenti; l’unico concetto chiaro e distinto è l’aver individuato il discrimine tra il genere lirico ormai esaurito e il sorgere di una poesia post-lirica. L’ipotesi che guida lo studioso è valida, ma ancora, purtroppo, ondivaga, non perseguita con la determinazione che sarebbe stata necessaria, però, a scriminante delle responsabilità del curatore dobbiamo confessare che ormai è già un miracolo aver delimitato la mappa dei poeti italiani a solo 42 nomi, per completare il quadro sarebbe occorso una gigantesca campionatura della poesia contemporanea e uno studio molto più articolato sugli attori della militanza poetica che nel lavoro di Dainotti non c’è e non ci poteva neanche essere a causa dell’enorme congerie di autori e di testi poetici che galleggiano nel mare esotico del villaggio poetico italiano. Ma Dainotti ci ha provato, a 360 gradi, come dice il nostro Presidente del Consiglio, e a lui va dato atto dell’impegno e delle forze profuse.

Il concetto di poesia che è stata scritta nel novecento come momento lineare ha promosso una forma-poesia nella quale lo spazio e il tempo erano il contenitore dell’io e delle sue vicende private. Oggi è lecito sollevare dubbi e eccezioni a questo concetto e a questa pratica della poiesis. La poesia italiana ha seguito il modello unilineare e cronologico della vita quotidiana, ed è finita dritta nella falsariga del «riconoscibile», nella «rappresentazione» mimetica. Il romanzo ha fruito di una uscita di sicurezza data dai suoi svariati generi e sotto generi: il giallo, il noir, il fantastico, il fantasy, il semi giallo, il quasi fantasy, il gotico, il gotico-fantasy, il giallo-fantasy, il fantasy e basta etc.; la poesia non ha avuto, per ragioni storiche, una altrettanta versatilità di forme e di generi, quindi era più vulnerabile, più esposta, e ne ha pagato le conseguenze.

La poesia del novecento si è trovata di fronte il problema di una «forma-poesia» «riconoscibile» con un linguaggio sempre meno «riconoscibile», con l’«io» posto in un luogo, immobile, e l’«oggetto» posto in un altro luogo, immobile anch’esso; di conseguenza, il discorso lirico si è ridotto ad uno schema, un confronto tra il qui e il là, tra l’io e il suo oggetto, tra l’io e il suo doppio, e il discorso lirico ha assunto una struttura cronologica e lineare. Senza considerare una possibilità che se l’oggetto si sposta, l’io vedrà un altro oggetto che non sarà più l’oggetto dell’attimo precedente; di più, se anche l’io si sposta di un centimetro, vedrà un oggetto nuovo. E così, il discorso lirico o post-lirico si è sviluppato tra queste due postazioni immobili. Un’altra via sarebbe stata in potenza percorribile, con le due posizioni che cambiano il loro luogo nello spazio e nel tempo, come avevano ben intuito Mandel’stam negli anni Dieci e Eliot con The Waste Land del 1922, ma dopo le avanguardie del primo Novecento la forma-poesia è ritornata all’ordine e si è assestata sul modello cronologico e lineare, trascurando il fatto che già Mallarmé aveva distrutto quel modello lineare dimostrando che era una convenzione e null’altro e, come tutte le convenzioni, sarebbe stato preferibile derubricarlo per sondare le possibilità di un’altra e diversa forma-poesia.

La poesia del novecento ha ripiegato su una forma-poesia che prevedeva la stazione immobile dell’io, con l’io al centro del mondo attorno al quale ruota la fenomenologia dell’intrapsichico. È stato il modello vincente che ha imposto i suoi binari: l’io di qua e gli oggetti di là, in un costante star-di-fronte. Questo tipo di impostazione ha condotto la poesia italiana inevitabilmente al pendio elegiaco e alla narrativizzazione privatistica, alla esondazione privatistica del privato. Il rapporto tra l’io ed il suo oggetto si è rivelato un dialogo posizionale, posizionato, convenzionato, da risultato sicuro.

Giorgio Linguaglossa

venerdì 17 novembre 2023

Silvia Comoglio “Il tempo ammutinato” (Book Editore, 2023)


 C’è tempo che confonde e che consola, detiene e smarrisce, dove gli accostamenti inesausti trovano infine una proporzione, una misura che determina quel confronto dei tratti inesauribile e nomade, anche riottoso e labile. Tutto questo in partiture, in quelle comparse duttili, nella proposta di definizione: complesso di molti righi, collocati l’uno sotto l’altro e riuniti tutti da una graffa sui quali si scrivono le parti, per le singole voci o strumenti, da eseguirsi simultaneamente. Così l’accenno all’opera “Il tempo ammutinato” di Silvia Comoglio, una delle voci poetiche più interessanti della sua generazione. Qui il passo musicale, fonetico, intende distribuirsi nello spazio della pagina, in un’accezione anche visiva e grafica, per esprimere esistente pensiero e parola in un movimento continuo che si fonda sulla natura profonda della parola stessa ben sapendo che, come afferma Flavio Ermini, l’esperienza poetica del pensiero coincide con il moto nascente della lingua, e per Comoglio la lingua stessa è agile e imprevista, lieve e profonda, strumento di navigazione lessicale e metronomo per conoscenze esperite. Il rigore dell’attenzione alle pause e agli spazi è nettamente rivolto alla percezione sonora di una complessità che muta in attimi e in tempi. Si potrebbe essere tentati, ad un primo impatto di lettura, di collegarsi inevitabilmente alle strutture inerenti un certo simbolismo, dove l’ascolto dei suoni in quanto tale si conferma  primario. Qui, però, a giudizio di chi scrive, non viene mai annullato l’equilibrio decisivo significante/significato ma, piuttosto, reinterpretato alla luce di suggestioni dense di una prospettiva ulteriore; tale da rivelarsi quasi catartica e coinvolgere le seduzioni paniche rielaborate negli accostamenti e nelle percezioni sensitive trasfigurate in canto visibile nella spazialità della pagina. La capacità di sentire un’immagine, quasi una vissuta sinestesia accorpata alla ricercatezza del termine proprio, verso una poesia di estrema raffinatezza formale non vincolata al limite del primo senso. “dunque, fu detto, la portata di ogni nuovo tempo/ è fiorire in rottura di parola nel Sempre che si accosta/ ad ogni nostra ombra” e “è allarme, allora, la voce/ che prego di guardare/ nel dono del suo peso?”... è poesia che davvero fluisce in iterazioni e rimandi, sviluppa negli spazi e nelle differenziazioni grafiche la definizione dei ritmi indissolubili che non possono essere altri né separati. Partiture da leggere ad alta voce, quelle di Silvia Comoglio, in una pianificazione di accenti tonali aderenti ad un dettato stilistico di rigorosa caratura. E’ canto, quindi, preghiera, invocazione, trama d’acque e terra, notte insonne e curva infinita, pelle e brocca, ombra contro fiore. E’ tracciato il sentiero, la sosta, nell’incursione del corsivo, dell’istante sospensivo e allusivo che l’autrice bilancia sulla pagina con grande perizia in una sorta di orchestrazione sillabica di senso e suono. “...allora, fu detto, è acuta forma di radice/ lo sguardo appena srotolato in sillabe di nomi/ incessanti e già caduti”; il ritmo fascinoso dei versi incalza e seduce, in riaffioranti rapsodie a flusso regolato, “amo il solo amare che appare in orizzonte/ del tutto senza ciglia: terra comparsa alla mia porta,/ come, come mondo, ai margini del mondo”. L’autrice compone fragranze di suggestioni, strepitii vegetali, veglie d’aurora e di crepuscolo, sillabe ed echi, nostalgie di onde, sensibilità spirituali. Ma più si tinge l’affresco di cromatismi alla Magritte, le sue luci in contrasto qui rese nella solidità densa e nello stesso tempo fluida dei vocaboli posti a soccorrersi e a sorreggersi nella danza percettiva delle compiute attinenze. Voce, quella di Silvia Comoglio, capace davvero di perfezionare una partitura nel mirabile senso dell’esecuzione stilistica più alta, virtuosa, “che ebbe in una stella  il suo tutto incandescente,/ la sua netta  terra  di preghiera”, ricordando che il tempo ammutinato è tempo dinamico che “muove” sommossa di un sentire apicale, dove s’identificano le “...incognite tue rose, plasmate-“.

                                                                           Andrea Rompianesi

martedì 7 novembre 2023

Oronzo Liuzzi “Un giorno adesso” (Transeuropa Edizioni, 2023)

 


Il verso lungo quasi narrante intercede per lo sviluppo di un flusso evidenziato nel sostegno alla virulenza dell’insidia che comporta il tempo vissuto e contemporaneo, assestato nella tribolazione dell’evento. Esonda l’aperto pensiero nel ricorrente auspicio che determina il saldo e robusto poetare di Oronzo Liuzzi nel titolo “Un giorno adesso”. Compiuto passo/destino verso testimonianza di forza civile, quando l’accorpato disegno introduce nella tessitura poematica la tecnica della parola chiave e dell’iterazione. Insiste il persistente approccio alla domanda inesausta, all’osservazione caparbia: “l’ansia la tua il pentimento scava dentro la tenera carne/ con la punta dell’ago la conversazione in mutande diverte...”, come evocando l’assenso imprevisto a testimonianza di sofferta tendenza dove però all’angolo incombe l’esplicito punto di fuga. Il termine a ripresa scandisce i tempi e i ritmi coagulando il deciso intervento condensato nell’innesto praticabile, dicibile, attestato dalla considerazione di un odierno malessere ancorato alle svolte e ai passaggi. Liuzzi determina la possibilità di un ascolto attento, esigente ma libero nella capacità di filtrare il recupero del vocabolo atteso, giusto; la parola portata al dicibile del moto quasi ondoso dei versi lunghi. Così “il tempo ecco si ripete circolare dolce tremendo apre/ le braccia ai passi dell’uomo poi torna nel buio genera/ pianti stridori riempie il mondo di fiamme gioca con/ la vita devo andare avanti sconfino” e l’enjambement attenua ma allo stesso tempo riecheggia la proposta discorsiva che affronta percezione del dolore e male di vivere. La risposta è medicamento ritmico estendibile nello scorrere dei passaggi nei motivi panici, aurorali, verso un “eccomi” che testimonia la presenza volitiva di una poesia di forte maturazione semantica; la riflessione è canora, l’avamposto avviluppa, il quesito incombe. Impossibile ignorare i momenti della collera, l’afflizione emergente, l’artificio rabbioso quando a divergere sono le prospettive angolari, i trascorsi tumulti esigenti che l’autore richiama, ponendoli a confronto con il retaggio di una storia personale e collettiva che si fa ermeneutica filtrante. Accostamenti imprevisti, a volte, impongono il moderno sentire l’evolversi dei contrasti, anche materici, policromi, quando l’oltre sorpassa “una festa di colori il tempo”. Nell’opera di Liuzzi è sempre identificabile la capacità di avvicinare in modo equilibrato ed efficace la tonalità riflessiva con la contaminazione del quotidiano, rielaborando poi la flessione pensante del recupero. E’ affrontare le sfide reiterate della necessità, cogliendo quegli squarci riconoscibili e utilizzabili nella frequentazione dei detriti, consapevoli delle perdite annunciate, non scelte, ammiccanti l’imprevisto ormeggio negli spazi ancora percepibili che la poesia indica, perché “la vita si ricorda per raccontarla/ probabilmente riviverla”, e forse al suono di canzoni che riecheggiano il pensiero emotivamente condotto. E’ ancora il tratto dell’oggi e del sempre che il poeta concede, salvandolo dal precipitare convulso dei drammi, delle schegge frantumate e inerenti al senso diffuso di ferita. L’ascolto che il verso di Liuzzi intende veicolare sussiste di tratti espressivi in moto, come passaggi ancorati ad un dicibile esteso verso il significato complessivo di una ricerca che si pone nell’ottica del trovare sempre comunque qualcosa, se non altro l’attesa citando Beckett, per poi dirla al vento di una sera. Il poeta confida: “schizzo dall’agonia una forma di evasione a luce spenta” e “catturo il tormento del giorno il fallimento i crolli gl’intrecci”, dove sempre eretto il punto di domanda incalza quella poesia che ne è generatrice stessa. Certo la distrazione ci porta allo svelamento e molto affiora incontrastato quando “il passato un maremoto ribolle liquido spietato illude”, attuando l’accostamento che riproduce l’intimo dolersi. La precisa struttura poetica di Oronzo Liuzzi in questo libro concentra nella pregevole composizione una costruzione linguistica che accosta l’identità dei termini prima dello stesso intento, misurando l’effetto sulla corposa peculiarità dei vocaboli che disegnano tracciati svelanti sulla spazialità della pagina dove si moltiplicano “piccoli gesti quotidiani feste impulsi ritratti scene appassionate” e l’autore esplicita : “non ci penso devo per questo penso posso allora volo”.

                                                                                            Andrea Rompianesi


sabato 4 novembre 2023

Autori vari, Never Surrender, Mai arrendersi!, Incontra Edizioni, Milano, 2023, €. 15,00


 

Dieci autrici e dieci autori che ci introducono in un universo al femminile: donne protagoniste ci raccontano storie di coraggio e di inquietudini, di amore e di timori, di speranze e di delusioni, di successi e di sconfitte... Sentimenti che appartengono anche agli uomini, ma in questi testi viene definita, con grande sensibilità psicologica, la visione del mondo che le donne percepiscono in modo così speciale e personale... Nota dominante: un dualismo tra le difficoltà da superare e l'apparente debolezza delle risorse da mettere in campo... Primo elemento di sorpresa: la forza misteriosa che emerge dal volere perseguire un certo obiettivo, a tutti i costi... Forza di volontà in creature che gli uomini definiscono fragili... Perseveranza: le donne non si arrendono di fronte agli ostacoli....
Affascinante caleidoscopio policromo che ci mostra in sequenza una serie di portrait de femmes emozionanti, che non dimenticheremo facilmente...

(dalla prefazione di Carlo Alfieri)

L’EVENTO di presentazione ufficiale del libro si terrà il  1 dicembre alle 20.45 a Gallarate, nella SALA IMPERO, in via Ugo Foscolo, organizzato dalla Piattaforma Culturale LA SCINTILLA.

Gianfranco Lauretano “Questo spentoevo” (Graphe.it Edizioni, 2024)

“Sono partiti tutti./ Hanno spento la luce,/ chiuso la porta, e tutti/ (tutti) se ne sono andati/ uno dopo l’altro”. Sono versi di Giorgio C...