martedì 15 gennaio 2019

Linea Cadorna



Carlo Banfi, “Linea Cadorna”, Edizioni Virgilio, Milano, 2018, € 15.00



Mai come in questi tempi il detto “historia magistra vitae” è divenuto un azzardo: o una contraddizione. Ognuno guarda al suo particolare e la filosofia spicciola di Guicciardini la fa da padrone sul più autorevole e classico Machiavelli. A leggere il nuovo romanzo di Carlo Banfi, “Linea Cadorna”, in effetti, si intravede e si rafforza l’idea di un mondo isolato, a sé stante, che ruota su se stesso. E’ forse la nostra accidia che determina questa spaccatura netta fra noi e la storia. Sta di fatto che nessun avvenimento è leggibile come prototipo imitabile e didascalico. Così si ha l’impressione che quel pezzo di storia dei primi del novecento sia rimasto lì diroccato come i resti di quella difesa, divenuta simbolo di una nostra cecità: un’ostinazione a non voler vedere, a non voler apprendere dal passato, caparbiamente abbarbicati al presente, presuntuosamente persuasi che noi stessi e solo noi abbiamo contezza e ragione. La linea Cadorna diventa allora metafora della nostra sconfitta.
In effetti il Pedar, il protagonista della vicenda, potrebbe uscire da quelle pagine ed urlare che il fallimento è di tutti, che è necessario guardare al passato per capire il presente e risorgere, ma viene per così dire risucchiato dalla Storia, quella con la esse maiuscola, e come la linea Cadorna, preda del tempo e della natura che sembra voglia travolgerla e seppellirla per sempre”, è impossibilitato a superare gli avvenimenti, pur con tutta la sua volontà. Alla fine del romanzo, dopo una strenua lotta per affermare la Vita esce piangendo. Sopraffatto (E questa volta il Pedar, uscito dalla stanzetta, non era stato più in grado di trattenere le lacrime).
C’è un po’ di Manzoni in quest’opera di Carlo Banfi, non il Manzoni dei “Promessi sposi”, bensì quello dell’ “Adelchi” e del “Fermo e Lucia”. Innanzitutto nella concezione della vita. I più deboli, o i più umili, sono quelli che danno maggiormente il proprio contributo alla storia, ma alla fine rimangono figure marginali e sconfitte. Come se la Provvidenza si arrestasse davanti alle ingiustizie riscontrate. Il curato, don Paolo, un cardinal Borromeo in nuce, offre il proprio aiuto a tutti, ma alla fine non può che cedere davanti ai “grandi”. Significativo è il ricordo della rivolta del pane nella Milano di fine ottocento, rivolta che si concluse con le cannonate del tristemente famoso Bava Beccaris, e che ebbe un’eco simile, e quasi sconosciuta per i più, nella Luino di allora. La ricostruzione e la rievocazione di quei momenti di ribellione luinese, dove tra l’altro le donne hanno avuto un protagonismo inimmaginabile per quei tempi, hanno una drammaticità che emoziona e che coinvolge nella sua icasticità. Ciò che rimane a perenne memoria non è solo il quarto stato che tenta di avanzare e che viene sopraffatto, è il male dell’uomo, la sua insopprimibile cecità egoistica, il desiderio di vincere ad ogni costo, il sopruso perpetrato e giustificato per legge. Oltre a questa visione pessimistica il Manzoni – ripeto, quello del Fermo e Lucia – è presente nello stile e nella scelta del linguaggio: espressioni colte si accomunano ad espressioni dialettali, in questo concedendo cittadinanza anche al Verga e al miglior Pavese. L’erlebte rede è padroneggiato con libertà e sapientemente condotto, strategia letteraria, questa, che evita di trascinare il lettore pagina dopo pagina. L’andamento del romanzo infatti lo obbliga a riflettere, a ritornare sulle pagine lette, confrontando le varie situazioni, i luoghi, i personaggi. E’ un metodo intelligente che sanziona la corresponsabilità di chi fruisce dell’opera rendendolo consapevole di quello che l’autore gli propone.
Come ogni buon romanzo storico accanto a personaggi inventati si fronteggiano persone reali. E’ il caso dello scultore Zosi del quale Banfi ci offre uno spaccato artistico ed umano di notevole intensità. Dice infatti l’autore: Le opere ritrovate e riscoperte svelano un fascino e una bellezza incredibili e sottolineano la parabola dei contenuti stilistici espressivi dello Zosi, che spaziano nelle correnti tra fine ‘800 e primo ‘900 milanese (…) Tra la rara documentazione esaminata, tra quel poco rimasto che il tempo ha roso – topi compresi – e trascinato nella dimenticanza, ho trovato anche testimonianze dirette di quella “inutile” carneficina di inizio ‘900.”  Ed oltre la presenza dello scultore Zosi, oltre le lettere dei militari e dei loro famigliari, oltre le autorità che dispensano medaglie e ricompense, oltre il Pedar che racconta e fa da trait d’union all’intero romanzo, oltre l’anima buona di don Paolo, prete di campagna e consolatore degli afflitti, ci si svelano figure delicate come la moglie del protagonista, la figlia Marisa, purtroppo deceduta durante il parto, il nipote Paolino, un birichino irrequieto ma sostanzialmente ubbidiente. Né mancano i ritratti collettivi, verghianamente corali, come il già citato moto luinese, o l’osteria del Bagàtt,  o la società svizzera “Entreprises- Maçonneries & Cimentages” – situata a La Chaux de Fonds, nel Cantone di Neuchâtel, con gli operai coinvolti nell’impresa, o i lavoratori e le lavoratrici accorsi per la costruzione della trincea che doveva fermare un presunto attacco austriaco dalla parte della Svizzera: la linea Cadorna, appunto.
In tutto il romanzo, poi, emerge un mondo agricolo montagnolo per nulla bucolico o idilliaco, bensì faticoso nella gestione e duro nell’approccio, in cui non sempre la natura ne è madre benevola e consolatrice. Davvero una bella ricostruzione storica di quell’inutile carneficina, per dirla ancora con le parole di Carlo Banfi, degli albori del ‘900 nella visione particolare della Linea Cadorna, abbandonata a se stessa, che esprime ed esplicita il generale atteggiamento di quegli anni, rappresentato nella doppia veste dei vinti e dei vincitori. Non c'è retorica né rimpianti. Solo del sano realismo. Che ci obbliga a meditare sulla vita, oltre che sulla storia, soprattutto in momenti come questi dove l'uomo sembra lasciare il posto a degli ectoplasmi senza anima che stanno in piedi solo in funzione di se stessi e dei loro affari.

Enea Biumi



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