Carlo Banfi, “Linea Cadorna”, Edizioni
Virgilio, Milano, 2018, € 15.00
Mai come in questi tempi il detto “historia magistra vitae” è divenuto un azzardo: o una
contraddizione. Ognuno guarda al suo particolare e la filosofia spicciola di
Guicciardini la fa da padrone sul più autorevole e classico Machiavelli. A
leggere il nuovo romanzo di Carlo Banfi, “Linea
Cadorna”, in effetti, si intravede e si rafforza l’idea di un mondo
isolato, a sé stante, che ruota su se stesso. E’ forse la nostra accidia che
determina questa spaccatura netta fra noi e la storia. Sta di fatto che nessun
avvenimento è leggibile come prototipo imitabile e didascalico. Così si ha
l’impressione che quel pezzo di storia dei primi del novecento sia rimasto lì
diroccato come i resti di quella difesa, divenuta simbolo di una nostra cecità:
un’ostinazione a non voler vedere, a non voler apprendere dal passato,
caparbiamente abbarbicati al presente, presuntuosamente persuasi che noi stessi
e solo noi abbiamo contezza e ragione. La linea Cadorna diventa allora metafora
della nostra sconfitta.
In effetti il Pedar, il
protagonista della vicenda, potrebbe uscire da quelle pagine ed urlare che il
fallimento è di tutti, che è necessario guardare al passato per capire il
presente e risorgere, ma viene per così dire risucchiato dalla Storia, quella
con la esse maiuscola, e come la linea Cadorna, “preda del tempo e della
natura che sembra voglia travolgerla e seppellirla per sempre”, è impossibilitato a
superare gli avvenimenti, pur con tutta la sua volontà. Alla fine del romanzo, dopo una strenua lotta per affermare la
Vita esce piangendo. Sopraffatto (E
questa volta il Pedar, uscito dalla stanzetta, non era stato più in grado di
trattenere le lacrime).
C’è
un po’ di Manzoni in quest’opera di Carlo Banfi, non il Manzoni dei “Promessi sposi”, bensì quello dell’ “Adelchi” e del “Fermo e Lucia”. Innanzitutto nella concezione della vita. I più deboli,
o i più umili, sono quelli che danno maggiormente il proprio contributo alla
storia, ma alla fine rimangono figure marginali e sconfitte. Come se la
Provvidenza si arrestasse davanti alle ingiustizie riscontrate. Il curato, don
Paolo, un cardinal Borromeo in nuce, offre
il proprio aiuto a tutti, ma alla fine non può che cedere davanti ai “grandi”.
Significativo è il ricordo della rivolta del pane nella Milano di fine
ottocento, rivolta che si concluse con le cannonate del tristemente famoso Bava
Beccaris, e che ebbe un’eco simile, e quasi sconosciuta per i più, nella Luino
di allora. La ricostruzione e la rievocazione di quei momenti di ribellione
luinese, dove tra l’altro le donne hanno avuto un protagonismo inimmaginabile
per quei tempi, hanno una drammaticità che emoziona e che coinvolge nella sua
icasticità. Ciò che rimane a perenne memoria non è solo il quarto stato che
tenta di avanzare e che viene sopraffatto, è il male dell’uomo, la sua
insopprimibile cecità egoistica, il desiderio di vincere ad ogni costo, il
sopruso perpetrato e giustificato per legge. Oltre a questa visione
pessimistica il Manzoni – ripeto, quello del Fermo e Lucia – è presente nello stile e nella scelta del
linguaggio: espressioni colte si accomunano ad espressioni dialettali, in
questo concedendo cittadinanza anche al Verga e al miglior Pavese. L’erlebte rede è padroneggiato con
libertà e sapientemente condotto, strategia letteraria, questa, che evita di trascinare il lettore pagina dopo pagina.
L’andamento del romanzo infatti lo obbliga a riflettere, a ritornare sulle
pagine lette, confrontando le varie situazioni, i luoghi, i personaggi. E’ un
metodo intelligente che sanziona la corresponsabilità di chi fruisce dell’opera
rendendolo consapevole di quello che l’autore gli propone.
Come ogni buon romanzo storico accanto a personaggi inventati si
fronteggiano persone reali. E’ il caso dello scultore Zosi del quale Banfi ci
offre uno spaccato artistico ed umano di notevole intensità. Dice infatti
l’autore: “Le opere ritrovate e riscoperte svelano un fascino e una bellezza
incredibili e sottolineano la parabola dei contenuti stilistici espressivi
dello Zosi, che spaziano nelle correnti tra fine ‘800 e primo ‘900 milanese (…)
Tra la rara documentazione esaminata, tra quel poco rimasto che il tempo ha
roso – topi compresi – e trascinato nella dimenticanza, ho trovato anche
testimonianze dirette di quella “inutile” carneficina di inizio ‘900.” Ed oltre la presenza dello scultore Zosi,
oltre le lettere dei militari e dei loro famigliari, oltre le autorità che
dispensano medaglie e ricompense, oltre il Pedar
che racconta e fa da trait d’union
all’intero romanzo, oltre l’anima buona di don Paolo, prete di campagna e
consolatore degli afflitti, ci si svelano figure delicate come la moglie del
protagonista, la figlia Marisa, purtroppo deceduta durante il parto, il nipote
Paolino, un birichino irrequieto ma sostanzialmente ubbidiente. Né mancano i
ritratti collettivi, verghianamente corali, come il già citato moto luinese, o
l’osteria del Bagàtt, o la società svizzera “Entreprises- Maçonneries & Cimentages” – situata a La Chaux
de Fonds, nel Cantone di Neuchâtel, con gli operai coinvolti nell’impresa, o i
lavoratori e le lavoratrici accorsi per la costruzione della trincea che doveva
fermare un presunto attacco austriaco dalla parte della Svizzera: la linea
Cadorna, appunto.
In
tutto il romanzo, poi, emerge un mondo agricolo montagnolo per nulla bucolico o
idilliaco, bensì faticoso nella gestione e duro nell’approccio, in cui non
sempre la natura ne è madre benevola e consolatrice. Davvero
una bella ricostruzione storica di quell’inutile
carneficina, per dirla ancora con le parole di Carlo Banfi, degli albori
del ‘900 nella visione particolare della Linea
Cadorna, abbandonata a se stessa, che esprime ed esplicita il generale
atteggiamento di quegli anni, rappresentato nella doppia veste dei vinti e dei
vincitori. Non c'è retorica né rimpianti. Solo del sano realismo. Che ci
obbliga a meditare sulla vita, oltre che sulla storia, soprattutto in momenti
come questi dove l'uomo sembra lasciare il posto a degli ectoplasmi senza anima
che stanno in piedi solo in funzione di se stessi e dei loro affari.
Enea Biumi
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