lunedì 13 febbraio 2023

Stefano Bandera – Adelfo Maurizio Forni, Il Rebus di Gallarate, Macchione Editore, Varese, 2022

 



       Rebus
è il soprannome che gli amici del Caffè avevano affibbiato a Vito Donato, un sarto di Gallarate, dopo che questi aveva preconizzato che l’Italia nel 1911 avrebbe dichiarato guerra alla Turchia. Ma rebus è anche la vicenda, complicata da districare, e che mano a mano va chiarendosi e finalmente risolvendosi, attorno ad una finanziera abbandonata nel retrobottega della sartoria dello stesso Rebus. E naturalmente è il medesimo Rebus che assolve il compito di detective accorto e minuzioso, per nulla intimorito da protagonisti politicanti ed economicamente facoltosi: insomma la crème gallaratese dei primi del novecento, affiancata e infiltrata da ambienti malavitosi. Ma da dove nasce la curiosità e per dir così il desiderio di investigare di Vito? Gli autori ci fanno sapere fin dalle prime pagine che Rebus è figlio di un carabiniere, da cui si intuisce che la sua predisposizione ad inquisire è innata e le sue abilità di zerozerosette sono dovute alla vicinanza con la militanza del padre, di origini messinesi, costretto a girovagare per un po’ di tempo da una parte all’altra dell’Italia e stabilitosi alla fine a Gallarate, quasi in Svizzera. Quel quasi in Svizzera lo sottolineano gli autori stessi dimostrandosi abili narratori in quanto trasmettono ai lettori, con nonchalance, direi, la mentalità di un povero carabiniere meridionale che dopo varie peripezie si ritrova a posizionarsi in una Stazione periferica d’Italia vicinissima al confine. Una prova di erlebte rede quasi in sordina che testimonia già da subito capacità e affinità letterarie.

La trama è quella tipica di un giallo che si gioca attorno al ritrovamento di una finanziera e che incuriosisce da subito il protagonista indiscusso, Rebus, fino a condurlo alla soluzione del caso in un intrìco di situazioni e personaggi che determinano i contorni della storia e la arricchiscono indubbiamente di sottolineature e sfumature che vanno al di là del racconto in sé e per sé, la cosiddetta fabula, per dilatarsi nell’esame psicologico, storico e sociale della narrazione. Bandera e Forni, allora, ci trasportano in un milieu, sicuramente lontano dal nostro quotidiano, ma ben delineato ed evidenziato da una geografia e da una ricostruzione storico ambientale tale da condurre il lettore attraverso atmosfere dimenticate e tuttavia presenti in documenti, documentari, relazioni, musiche e qualche filmato d’epoca. E, per chi è più anziano, il ricordo di qualche racconto dei propri nonni rivivrà, sicuramente, in queste pagine che non danno vita solo alla curiosità di conoscere come va a finire, bensì a individui realisticamente registrati e colti nelle loro attività. Va da sé che quei modi d’essere e di proporsi caratterizzano un mondo specificatamente provinciale, periferico, in una cittadina, ai tempi, relativamente campagnola, sebbene dotata di servizi che oggi chiameremmo d’avanguardia, in cui la lingua principale era ancora il dialetto, le abitudini si dimostravano ancora collettive, così come ancora vigevano al di sopra di tutti le principali autorità: sindaco, prete, maestra, carabiniere. Assai interessante è la coralità che ne sorte con la descrizione degli avventori del Caffè, del cortile che immaginiamo al centro di case di ringhiera e teatro di vari pettegolezzi, il ballo di fine settimana il ritrovo sistematico degli uomini al Caffè. L’atmosfera ed il colore di quel periodo viene offerta anche da particolari come il calessino, il baciamano, l’auto velocissima che sfiora i cento all’ora (e qui viene alla mente Marinetti ed il suo futurismo esaltante il movimento e la modernità), gli abiti fin de siècle, femminili e maschili, come la finanziera. Ma non è tutto. Perché in questo clima di belle époque vengono rimarcate pure le contraddizioni. Infatti alcuni protagonisti sono costretti a subire le umiliazioni di una indigenza che li porta ai margini della società (oggi si direbbe borderline) che pure li sfrutta, li umilia e quasi li dimentica o addirittura li condanna solo per la loro povertà.

Accanto a questo riquadro storico-sociale i personaggi vengono rappresentati in una ipotiposi che li rende reali come se uscissero dalle pagine del romanzo per presentarsi a noi vivaci e veritieri, pronti a colloquiare e a discutere col lettore. A determinare questa suggestiva percezione è il dialetto che aleggia qua e là, attraverso dialoghi e interrogativi, e che apporta colore e realismo. Il fascino di questo giallo, oltre all’intreccio che non dà un attimo di respiro al lettore, sta appunto nella rappresentazione plastica e iconica dei protagonisti immersi in una Gallarate che nasconde segreti di prepotenza, di prevaricazione, enigmi non sempre di facile estricazione, truffe, strozzinaggi, nonché omicidi mascherati da suicidio. È la Gallarate noir, celata ai più, ma individuata dall’abile Rebus che, coadiuvato dall’apporto dell’amico maresciallo Rosario Cartabellotta e dagli altrettanto amici Pierin Bell, Peppino Colombo, Cesare Lovati, Giacomo Rovetta, fra gli altri, riesce a portare a termine le sue indagini e a far arrestare i colpevoli. Ed è naturalmente il lato più oscuro della cittadina che, per il resto, ha una sua peculiarità di sapore periferico e tranquillo. Il tutto immerso in una nota circostanziata di colore rosa: l’amore per Angela che, nonostante le indagini, Vito non trascurerà mai di seguire ed amare, e che gli autori, conseguentemente, accompagneranno fino all’ultima pagina dove lo sublimeranno definitivamente. “[Angela] gli mise una mano dietro la nuca, lo avvicinò a sé e lo baciò sulla bocca. Pochi secondi, poi si staccò e lo guardò ridendo. «Ecco… adesso puoi parlare.»”

 Enea Biumi

 

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