domenica 12 marzo 2023

Laura Caccia “La terza pagina” - Book Editore, 2023


Possiamo osare scrivere di felicità? Solo parlando dal limite, forse, dalla frontiera. Allora dovrà costituirsi lo spazio della pagina; dove si compiono i riti inesausti di strappo e sedimentazione, fecondazione e ferita. Dove il pensiero poetante insorge, ponendo la radicalità del tracciato e del verso. Parti del foglio, seduzione binaria al cospetto degli elementi. Un avvio che apre a “La terza pagina”, opera poetica di Laura Caccia, esemplare esito testuale che propone un’architettura del verso davvero preziosa. La scrittura qui osa tendere alle radici lessicali, costruendo una figurazione sapiente di rara maestria tecnica. Ogni singolo esito scritturale coniuga una prima parte costituita da una versificazione per lo più in due strofe brevi, a cui fa seguito un passo che potremmo definire in prosa poetica, sviluppato in una formula orizzontale che utilizza l’interpunzione dello slash nei casi in cui è invece la prima parte a comporre un andamento prosastico. Laura Caccia evoca gli esseri felici descritti da Maria Zambrano, coloro che sanno superare i contrasti, le antinomie tra ragione e passione; sapendo che proprio la Zambrano si avvaleva di categorie specificamente agostiniane, come bene osservava, a suo tempo, Giuseppina Rando. Si cerca una terza pagina, allora, assente ma intuibile, perfino necessaria. E i tralci diventano versi, accenni di prologo come antivoce, contatto in bilico sul tempo, resti di un’epoca nell’avvolgente brusìo che si fa esodo, traccia, quasi equivoco, ma di una potenzialità evocativa aperta all’oltre. Diaspora è il passato, “fino a dove la parola/ era caos che non ha finito di/ scrivere il proprio/ nome né provare a voltarsi/ a specchio ustorio”; debilitano allora gli esterni “soprusi di senso”, atteggiano alla interposta persona, verso una puntualità ricevibile di cura. E la cura, per Laura Caccia, si trasforma in definizione strutturale della composizione nel suo proporre l’iniziale verticalismo dei versi innestati nella base a tessitura orizzontale, epicentro di condensazione episodica. I sussurri di vento, le tramature di luce sono tante e tali da portare dove “a metà di dissensi antisensi/ alla deriva ad un passo dal mondo/ si esiliano i nomi/ noi esiliati per primi/ eppure un nome non mente/ tiene a mente il nulla la luce”. La scrittura si fa viatico dentro la corposità di elementi e frammenti, tonalità e ricognizioni, ingorghi e braci, solchi e fondali. Le pensose articolazioni dei fonemi concedono un controcanto dicibile e avvolgente, dove il gesto rimanda alla dicitura capace di esplicitare nitidamente la parola esatta. Sembra di cogliere eco della voce di Friedrich Creuzer quando affermava che la natura parla all’uomo attraverso i segni, tali da essere percepibili solo da quanti li conoscono. Esprimendo la necessità, quindi, d’individuare quel codice profondo che concede l’opzione del passo, l’intuizione del tracciato. Ma avvalorando anche le inestinguibili fragilità delle percezioni che declinano l’usurante passività delle mancanze. Davvero qui la pagina è sciame; conduce alla possibile verifica di un itinerario esperto che “precipita dove manca/ la voce in grembo ancora”, e l’episodio costruisce l’avanzata delle ipotesi, l’irrimediabile esitazione di fronte alla conduzione del margine, della nota, della posizione acquisita dalla difesa speculativa verso l’evidenza di un concettualismo materico che veicola il pensiero. E il pensiero, nell’opera di Laura Caccia, si fa poesia che abita la pagina, quella terza, forse, invocata, cercata, esposta alle ferite, diurna e notturna allo stesso tempo, episodica e globale, condotta e sospesa, vulnerabile e intatta, esaustiva e incompiuta, “un malcelato amore/ quasi una leggerezza irrisolta”; i rischi esondano, le domande intensificano con insistenza la loro prestanza, accudiscono il timore e accendono l’indirizzo dello sguardo e dell’ascolto, improvvisano rimandi e tentazioni, stimoli che sembrano affrettarsi verso una meta, “raccogliere questo suono inavvertito che si tuffa a precipizio”; tutto assume una pratica ancestrale attraverso l’osservazione del dettaglio, del particolare che s’innesta nel dedalo del contingente, poiché l’evento è il farsi della poesia nella sua scansione, dove “il foglio ci somiglia” come l’abluzione artata ma cedevole nell’insonne turbamento, oltre le fedeltà abrasive, nell’inattesa rifrazione insaputa, nelle feste feriali, nelle seduzioni innocenti, in quella terza pagina ad esito dialettico che risuona perché l’insieme diviene poesia e la poesia, come scriveva Novalis, è il reale, il reale veramente assoluto. Quanto più poetico, tanto più vero.

                                              Andrea Rompianesi


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