“di sangue di
fegato amaro si alimenta l’umano/ gelido è il mutamento muto nell’umido
sgocciola/ surrogati di corpi ammainati”; così apre il primo testo poetico dove
il tratto della presenza carnale converge verso il riconoscere la devastazione
dei conflitti, il riverbero che agghiaccia e paralizza i moti nella
deflagrazione di flussi e riflussi, di ostilità evidenti nel tessuto civile, di
consegna a strofe che vogliono allungare il verso in una volontaria e totale
assenza di punteggiatura. L’opera è “Nelle acque di Babel” del poeta e artista
Oronzo Liuzzi. C’è qualcosa che preoccupa nell’insorgere di un sentire intimo
che denuda e, poeticamente, denuncia l’esistenziale deriva ma, nello stesso
tempo, indica una opzione filtrante capace d’intercalare seduzioni possibili
tra risvolti di sentimenti per lo più ibridi. L’efficacia del verso di Liuzzi
accende e svicola, interrompe e accosta, insegue e distanzia nella propulsione
sintattica implicante l’effetto dicibile nel modulo ricomposto in una traccia
linguistica che apre mobilità prossemiche attenuanti il sentore di
determinazione semantica: “parlami del tramonto d’accordo al calar del sole/ a
picco cade nell’acqua di colpo mi rendo conto/ faccio un selfie resto motivato
e la quiete nella/ mia testa dopo la tempesta purtroppo il caos trionfa”.
Turbolenze sì, ma abilmente corrisposte in una dicitura che non concede spazi
al prevedibile, integrando la figurazione stessa del lessico al procedere più
propriamente integro e contemporaneo. Evocazioni ed accenni felliniani
attendono processi di verifica nel confronto con un contesto che non risparmia
noia e malinconia, delusione e lacerazione, dubbio e solitudine ma anche amore:
“il vorrei l’amore d’amare fatale l’amo forse sì”; come condona la pressione
attraverso l’esperienza della iterazione quando identifica il termine capace di
farsi verbo d’inizio: “s’incomincia così incomincio in realtà comincia/ il
tempo dove l’invisibile esiste resiste e persiste”. Il dire di Liuzzi è un dire
che accosta durezza e pietà; è un dire maieutico che estingue i rischi del
cedimento retorico perché si fa riflessivo e mite nella formulazione del verso
condotto alla prossimità dei vocaboli che innestano, in punti alternati del
flusso sillabico, una rielaborazione normativa che spazializza il significante
e acquieta il significato: “senza fretta dentro questa stanza irregolare/ solo
un attimo mi basta forse anche meno”. Ancora si conducono su esperienze redatte
particolari emessi dalle osservazioni abilitate a tempistiche esplicite,
dialoganti e non prive d’incognite; emergenti condizioni quali appartate
attenzioni sfuggenti alla conclamata e “curiosa quiete” che comporta uno stato
favorevole al pensiero ma, nello stesso tempo, filtrante tutto il dolore
violento testimoniato dalla cronaca concitata e segnata da dissidi,
ingiustizie, conflitti. C’è un tentativo continuo, attraverso le pagine, di
bilanciare le insorgenti pulsioni controllate da una mediazione ritmica che
concretizza una sorta di passo prolungato nelle memorie affioranti, quasi possibile
poi un metodo esplicativo che ordina e spiega non eludendo i contrasti: “torna
tutto di colpo il passato/ all’improvviso sul divano brutto bello”, dove la
quotidianità colma quella distanza che sfugge alla regolazione prospettica e
intanto cerca di agganciarsi a sicurezze biografiche, a identificazioni: “il
chi sono insomma m’interrogo a lungo/ sulla identità la mia la nostra io sono/
nato al sud in via bruni di giovedì”. Oronzo Liuzzi si fa esplicito conduttore di
un sentire mobile verso presenze intime che si trasformano in afflati civili
dove il riferimento esplicito “è un mondo alla rovescia il nostro altrove non
so”, ultimo verso della prima poesia che già in sé contiene nelle tre strofe la
migliore concentrazione del dire nei tempi calibrati della dimensione
raffigurante e della capacità fonetica.
Andrea Rompianesi
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