Non bisogna lasciarsi ingannare dalla
fluida leggerezza dei versi che accompagnano la silloge del “Passero bianco”
di Sofia Fiorini. Trovo, infatti, che la giovane poetessa – nata nel 1955 –
esibisce un’energia ostinatamente combattiva fra i meandri della vita e della
morte, tutta tesa a coglierne le infinite sfumature, a indagare e domandarne
spiegazioni.
Partendo da una situazione onirica del
ricordo dell’infanzia (la casa, il giardino, la nonna, il gatto) l’autrice riscopre
il furto colpevole degli inganni, lo sconforto di una trama non nostra ma
imposta, epigono forse di un male più esteso e assoluto che ci è dato da
sopportare. Da qui l’ossessione adiaforica da superare per non rimanere
travolti “perché i morti siano / morti e i vivi siano vivi / ognuno deve
godere del suo sole”. “Aspettavo che mi si seccassero / le ossa – aspettavo di
smettere / di soffrire per il freddo ed il calore”.
Attraverso un’atmosfera magica di un
racconto fiabesco in versi Sofia Fiorini immerge il lettore nell’ossimoro di
una realtà irreale, lo trascina e avvolge in un mondo fantastico costruito su
un duplice piano, lineare e verticale, che sogna e desidera, e vive e immagina,
e narra e sottace.
C’è un passo ne “La nascita della tragedia” di Nietzsche in cui si accenna a Re
Mida che insegue il satiro Sileno interrogandolo su quale sia la cosa più
desiderabile e migliore per l’uomo. La risposta è questa: “non essere mai nato, non essere, non esistere. Ma la seconda cosa
migliore per te è… morire al più presto.” Ecco: in tutto il percorso della raccolta
Il passero bianco rappresenta, da una parte, l’interrogativo di Re Mida
e, dall’altra, la risposta di Sileno. Un ininterrotto ripensare all’esistenza
entro i confini della realtà e del sogno, dove gli incontri si evolvono nella
consapevolezza di una vita tormentata e subìta. “Che sorpresa quel mattino /
umido sul fiume, credersi morta / e scoprirsi capace di dolore”.
Protagoniste, e antagoniste nel medesimo
tempo, di questa favola poetica sono le Genti beate, che appaiono come
fossero delle Erinni (“nel caso che le incontri, un uomo deve fuggire,
altrimenti lo sbranano e lo divorano”) ma che restano perenni
interlocutrici della poetessa. Anzi, in alcuni tratti e momenti specifici
assumono l’ufficio di mentori, come sacerdotesse atte a introdurre la neofita ai
misteri della vita. “E loro, ferme sul sentiero, / a me: «non hai altro
posto, / non hai davvero / altro posto all’infuori di questo»”.
In ogni verso della silloge si respira come un senso
di libertà, un desiderio di emancipazione da ogni struttura soffocante la
propria personalità, una voglia di resilienza ad ogni tipo di costrizione e sottomissione.
Tutto
sembra rimandare ad una illusione che ricorda l’uomo di Schopenhauer irretito
dal velo di Maia, che come in un mare in tempesta siede in una piccioletta
barca fiducioso di non affondare perché si affida al principium
individuationis. In effetti gli spunti che le pagine del libro rivelano
sono un cartiglio classificatore che la scrittrice si sente in dovere di
attuare: tra sogno e realtà scorrono gli istanti di una vita, come fotogrammi e
interrogativi che avanzano ad apta. E si svelano, poco a poco, i segreti,
si coglie, quasi improvvisamente, il sentimento d’amore: “Era lì, come un
grande cervo (…) Mi parlò (…) Mi piaceva la sua voce”. Tuttavia ciò che
resiste, ciò che è più sincero e vero, è ancora il mondo dell’infanzia perché
tutto sembra risolversi solo nella fanciullezza, dove anche la tranquillità
dell’anima si fa esplicitamente sentire. “Si fecero spiegare / cos’erano i
bambini / e la scuola elementare. // Dissi che era il posto / in cui si sentiva
meglio il sole”.
Si può dedurre, allora, che i tanti
fantasmi che l’immaginazione può offrire, hanno il nome di destino. Così
Il passero bianco non rappresenta unicamente la fatalità che dalla vita
conduce alla morte, ma diventa tout court un desiderio di trascendenza,
una studiata e consapevole libertà di scelta. “Questa anche per noi sarà una
festa / – mentre le fate traghettano / i morti all’altro mondo – la festa // in
cui ognuno si riprende le sue ossa.”
I versi di Sofia Fiorini diventano pertanto
anche una ricerca della verità, un discrimine tra illusione e realtà, tra
fantasia e concretezza, ribadendo in maniera icastica che la salvezza – di se
stessi e del mondo – è un’incessabile indagine, un controllo meticoloso del
possibile e dell’impossibile. E tutto ha inizio e fine in una specie di dégorgement che svela cosa possa perdurare nella contrapposizione
vita e morte. Così il
tempo diventa l’enigma più seducente e simbolico. “Silenzio lunare. /
Nessuno mi aspetta. / Tempo della mia segretezza”.
La parola
assume, in questo contesto, un’importanza vitale per la sua autenticità e
inalienabilità. Allo stesso modo, autentico e inalienabile è il mondo dei
bambini in cui il dolore, tutto sommato, viene esorcizzato tramite il sogno che
supera la cavità del tempo e fa riemergere sensazioni tattili e uditive. “Cercavo,
cercavo / il lenzuolo sotto la corteccia / cercavo con le mani la mia faccia,
mi chiedevo lui dove fosse / a quell’ora del sabato, / tra l’uno e l’altro / di
quei timidi tocchi di campana.”
La parola in sé diventa non solo parte della favola ma
pure parte della vita della poetessa. La accompagna. La imprigiona. La distrae.
La umilia. La ridicolizza. L’aiuta. La salva, infine. Nel coacervo di segni, apparentemente indecifrabili,
nella molteplicità dei simboli, la fiaba-poesia svela il suo significato. Le
sensazioni che la Gente beata aveva acceso nel cuore dell’autrice
attraverso la sedimentazione di un costante dialogo, per altro a volte
contrastato e in contrasto, recuperano quell’erlebnis forse scordato,
forse rimosso, ma comunque riferito alla vita vera, sia pure narrato nel corso
di una fiaba. “Ero pronta, ero pronta / non avevo fatto altro / tutto
l’anno, sarebbe stato / come chiudere un cancello”.
È
un poetare adulto, questo di Fiorini, che evoca una sorta di ontosofia che
disvela come il contingente e il quotidiano possano essere ancorati a un
linguaggio onirico e simbolico senza nulla smarrire dell’essenza stessa di un
esistere in funzione dell’hic et nunc.
Enea Biumi
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