domenica 16 gennaio 2022

Francesco Dario Rossi ci racconta di Liala e del suo linguaggio non verbale


 

La piazzetta che Varese ha dedicato a Liala

I romanzi di Liala, anche se hanno avuto un eccezionale successo di pubblico e lettori (oltre dieci milioni di copie vendute solo in Italia), sono sempre stati snobbati dalla critica ufficiale, come appartenenti al solo genere rosa, rivolto ad un pubblico solo femminile e non meritevoli di studio come espressione di vera letteratura. Ritengo che ben pochi uomini li abbiano letti, ma li hanno guardati sempre dall’alto in basso, e a priori considerati scadenti. 

Soltanto nel 2013, dopo 18 anni dalla morte della scrittrice, si è organizzato un convegno sulla sua produzione letteraria e ne sono stati pubblicati gli atti nel libro Liala, una protagonista dell’editoria rosa.

Un altro pregiudizio che ha escluso i romanzi di Liala da una seria valutazione critica sul loro valore letterario e narratologico è l’averla considerata prima “militarista” poiché i suoi racconti fino al 1945 avevano come protagonisti aviatori e il loro ambiente; poi  aristocratico-conservatrice, poiché le classi sociali dei protagonisti sono quasi sempre altolocate, mentre gli umili (operai, camerieri, giardinieri), sono visti con paternalismo e distacco. Frequenti le ragazze di famiglia umile di cui si innamorano nobili e industriali, spesso sposandole. E’ evidente che la critica letteraria del dopoguerra, fin quasi a fine Novecento, quasi tutta militante e engagée a sinistra, abbia ignorato e snobbato questa scrittrice che, in tempi di neorealismo, descriveva con toni a volte dannunziani sontuosi palazzi e interni e industriali arricchitisi durante la seconda guerra mondiale.

Mia intenzione è esaminare una quindicina di romanzi scritti da Liala, tenendo conto della data in cui sono stati scritti, dal punto di vista della trama e narratologico e dei pregi stilistici.

Per la datazione degli anni in cui sono stati scritti (non di edizione), sono grato alla figlia di Liala, Primavera Ippolita Cambiasi, che nel 2001 mi ha gentilmente inviato una lettera con l’elenco dei romanzi di sua madre, con accanto la data di composizione. E l’elenco è un’ottima fonte, poiché la marchesa Primavera è stata tutta la vita accanto alla madre, come segretaria e collaboratrice.

Primavera, la figlia di Liala

Dal punto di vista stilistico, molto efficace è l’espressione del linguaggio non verbale, di viso, gesti e prossemica, che cala il lettore nell’atmosfera e glielo fa percepire in modo sinestetico, e l’abilità di Liala nel rendere spontanei e realistici i dialoghi. Splendide e pittoriche le descrizioni paesistiche, di albe a tramonti, luci e ombre, azzurri di mare e di cielo.

Acuta e profonda conoscitrice dell’animo umano, femminile e maschile, arricchisce i suoi romanzi con tutta la gamma dei sentimenti, vizi e passioni (invidia, gelosia, simulazione, seduzione, ira, vendetta), non soltanto sentimentalismo e amore, e costruisce caratteri a tutto tondo, con tic, fisime, intercalari tipici, pregi e difetti.

Naturalmente alcuni valori sono ormai sorpassati, ma il suo narrare è sempre fresco e attuale. Lo era sessanta-settanta anni fa per le nostre nonne e bisnonne, lo è per le madri e ragazze di oggi, che sentono il bisogno di sfumature psicologiche, di essere immerse in atmosfere anche datate, ma che le facciano meditare (e anche un po’ sognare) e vadano oltre il tutto e subito, l’essere sempre connessi online e la saturazione/ubriacatura da video e foto condivisi sui social.

IL LINGUAGGIO NON VERBALE DI LIALA

Liala ha un’abilità eccezionale nell’immergere i lettori nelle atmosfere e situazioni descritte. Non parliamo soltanto delle minuziose descrizioni di paesaggi, interni e abbigliamento dei personaggi.


Primavera, Serenella e la nipote Diana con Liala

E' abile soprattutto nell’esprimere il linguaggio non verbale: gesti, posture, atteggiamenti del viso, degli sguardi, e di arricchire quello verbale rimarcando la tonalità e il timbro della voce, per comunicare lo stato d’animo di chi parla e rendere vivi e icastici i dialoghi.

Molti dialoghi sono vere sceneggiature: il lettore vede la scena, vi è immerso e coinvolto. Con verbi opportuni ( sussurrò, bisbigliò, cinguettò, mormorò,  sibilò, sospirò, spifferò, ribatté, balbettò, farfugliò, bofonchiò, singhiozzò, sbottò, sbraitò, tuonò, inveì, esclamò, urlò, ciangottò, ecc) la scrittrice ci fa sentire il tono delle voci e trasmette sentimenti e stati d’animo. L’aggrottare la fronte, l’inarcare le ciglia, il socchiudere le palpebre, lo spalancare gli occhi, lo sbarrarli o strizzarli, lo sbirciare o guardare di traverso, il chinare lo sguardo o il volto, il fissare negli occhi, l’alzare con fierezza il mento, l’arricciare o torcere il naso, lo schiudere o increspare le labbra, l’avvampare o sbiancarsi delle gote ci comunicano emozioni più delle parole e le rendono più vive.

Così il chinare le spalle o alzarle o stringersi in esse, l’ergere il busto, il sobbalzare, il fremere, il tremare, l’irrigidirsi sono soltanto qualche esempio di comunicazione non verbale. Così il linguaggio delle mani e delle dita che si intrecciano, si serrano a pugno, con le nocche che si imbiancano, che supplicano, che accusano, che si aprono o si chiudono e serrano.

La governante Tarsilla

E’ opportuno notare che la natura ha dotato molto di più le donne che gli uomini della capacità di percepire e interpretare il linguaggio degli sguardi e dei gesti, perché possano capire i neonati, che comunicano con il pianto, con strilli e posture. Dato che la platea di chi leggeva e legge i romanzi di Liala era ed è soprattutto femminile, ne comprendiamo il successo anche per queste sue doti espressive e comunicative.

Molto importante in Liala è anche la capacità di esprimere la prossemica, ossia l’accostarsi o allontanarsi dei personaggi tra loro, la posizione nello spazio della scena descritta. Il porsi di lato, di fronte, alle spalle, il porgere o accendere una sigaretta, il modo di tenerla tra le dita, di fumarla  o di spegnere il mozzicone ( quasi tutti i personaggi dei romanzi di Liala fumano) dicono moltissimo al lettore. La scrittrice è molto attenta alla prossemica, come un regista che prepara gli attori e le scene. La grande differenza è che in teatro, nei film o telefilm gli attori trasmettono direttamente agli spettatori linguaggio non verbale e prossemica, mentre lo scrittore deve parlare alla fantasia dei lettori che vedono le scene attraverso le parole lette. Per questo è fondamentale che il linguaggio dello scrittore sia icastico.

Francesco Dario Rossi


Liala nel 1935


venerdì 14 gennaio 2022

Liala: "Sottovoce o mia Niny". Recensione di Francesco Dario Rossi


Questo romanzo si distingue dagli altri per profondità di ispirazione e novità dei temi. E’ fondamentalmente dannunziano nell’accostamento di vita e arte. 

Deo Navara, grande attore di prosa ed interprete di drammi shakespeariani, vive intensamente i suoi ruoli di artista drammatico. Fonde spesso la passionalità dei personaggi interpretati (Otello – Amleto – Romeo) con la propria passionalità ed i propri sentimenti. Vive la gelosia di Otello come la sua latente gelosia verso l’attrice-amante Gilda; quando in scena uccide Desdemona scarica la sua vendetta e rancore contro Gilda, che lo ama in modo ossessivo; quando, dopo la riconciliazione, interpretano insieme Romeo e Giulietta, vive nell’amore romantico di Romeo il proprio amore per Isea.

La scrittrice coglie bene la situazione dell’attore che, quando si cala nel personaggio, diventa personaggio e per lui è difficile scindere la vita di questo dalla vita reale (una tematica tipicamente pirandelliana). Quando tra personaggio scenico e realtà vi è troppo distacco, ne soffre l’interpretazione e  l’efficacia artistica dell’opera teatrale.

Infatti, quando Navara è in crisi per essere stato abbandonato da Gilda e quando sfuma la sua illusione d’amore per Isea, non riesce ad essere convincente e “reale” sul palcoscenico. Tuttavia, la colpa è anche della nuova partner, la Paradisi, attrice non adatta a ruoli particolarmente drammatici, e del difetto di udito di Deo, costretto a muoversi sul palcoscenico in modo artificioso per poter udire le parole degli altri attori ed il suggeritore. 

Nel romanzo vi è quindi anche il dramma di un attore che si sente menomato ed inutile per l’handicap uditivo. Navara non reagisce di fronte all’insuccesso teatrale e personale, ma si rifugia nella sua casetta in montagna, vicino al Passo della  Cisa (fuga dalla realtà, esilio in un luogo di pace ed apparente serenità, scelta di non-vita, tipica della depressione).

Isea Benini, giovane sorella del suo amico Enzo, si innamora di Deo, vedendo in lui il grande artista, idealizzandolo per il suo fascino di grande attore teatrale, gli rivela il suo amore e, per restargli vicino, cerca caparbiamente di entrare nella sua Compagnia drammatica come attrice giovane; in effetti studia recitazione, raggiungendo buoni livelli, proprio perché sorretta dal suo amore-dedizione. Ma quando lui si ritira nella sua casetta in montagna, e lei lo vede sceso dal piedistallo, mal vestito, con la barba lunga, l’infatuazione di Isea svanisce.

Deo Navara ricambia l’amore di Isea, ma non glielo rivela. Vive passione e tormento dentro di sé, sapendo che non era realizzabile per differenza di età e di ceto sociale. 

Identifica la purezza, l’innocenza, lo splendore degli occhi di Isea con l’innocenza della piccola Niny, una bimba di tre anni che vive con la mamma nel paesino sulla Cisa.  Arriva a chiamare Niny Isea. Bella la frequente sovrapposizione Niny-Isea e dello sguardo della ragazza con la dolcezza e semplicità della bimba. Le due immagini spesso si accavallano, si confondono  nella mente di Navara: nelle grandi manifestazioni di affetto per la piccina, negli slanci ingenui di questa verso di lui si può leggere simbolicamente un’incarnazione  dell’amore tra Isea e Deo, rimasto in potenza, platonico, idealizzato.

Anche dopo che Isea si fidanza e sposa con il nobile e ricchissimo Massimo Ivrea, non finisce il loro amore, che conserva il fascino e l’incanto delle attrazioni inespresse e non compiute. Durante la prima di Romeo e Giulietta, alla fine del romanzo, Isea dal palco lo guarda ed ascolta, estasiata dalle sue dolci e sognanti parole, e Deo è particolarmente calato nel personaggio proprio perché non parla con Gilda- Giulietta, ma con Isea, l’Isea che rimane sempre sua, nel profondo del suo animo. 

Altro motivo di ispirazione nel romanzo è il contrasto, frequente in Liala, fra il mondo raffinato, lussuoso, colto, della “buona società” a cui Deo appartiene come artista, ed il piccolo mondo di paese, fatto di cose piccole e semplici ( il fumo della stufa a legna, il latte nel bricco, l’odore del caffè, l’umidità alle pareti, ecc.), di Deo quando si ritira nel suo paesino.

Liala è attratta dalla poesia del “piccolo mondo”, descrive con dovizia di particolari i gesti quotidiani delle persone semplici, come Costanza, la mamma della piccola Niny, che accudisce Deo in paese, porta il lettore a sentire gusti e profumi di infanzia, di passato. Però è attratta maggiormente dal lusso delle vesti, dallo splendore di luci, dalle architetture imponenti e addobbi sontuosi, che lei descrive con competenza, riecheggiando a volte D’Annunzio..

Interessante è inoltre la complessa personalità di Gilda. Innamorata di Deo, ne è tremendamente gelosa. Lo affianca come attrice, raggiungendo alti vertici di espressività recitativa ( vedi l’interpretazione del ruolo di Desdemona nell’Otello). Poi , credendosi soppiantata dalla freschezza e dal lusso di Isea, abbandona Deo per un anziano e ricco produttore cinematografico. Quando questi si allontana da lei e Gilda si accorge che Isea non è più infatuata di Deo, va da lui nel paesino, apprezza (o finge di apprezzare) le “piccole cose” di lassù e riesce a convincerlo a ritornare con lei al teatro. Grazie all’aiuto finanziario di un amico dei marchesi Ivrea, Deo può allestire una nuova Compagnia teatrale e mettere in scena Romeo e Giulietta. Gilda capisce che può farsi accettare da Deo solo come artista e amica, non come donna, perché non è più attratto fisicamente da lei.

Il romanzo termina con le parole che Deo – Romeo pronuncia, guardando Isea spettatrice, prima di uccidersi: “Offro questo al mio amore” (Realtà o finzione scenica?) Comunque la finzione scenica prevale sulla realtà: l’arte, ancora una volta, dannunzianamente, fagocita la vita.

In questo romanzo lo stile è nel complesso artistico, letterario. 

Molto efficace la descrizione di un delirio febbrile di Deo, a cui pare di vedere danzare le fiamme dal camino e di udire le note di una cullante melodia, nello stato crepuscolare della coscienza dovuto al febbrone. Tra delirio e coscienza, tra sogno e realtà gli pare di vedere la bacchetta di un direttore d’orchestra che dirige queste visioni del delirio. Suggestivi il senso di sordità totale e di onde che si infrangono nell’orecchio (acufeni propri di chi sta perdendo l’udito) e l’affondare l’orecchio sano nel cuscino per trepidare in tale sensazione ultraumana.

Il titolo è anch’esso molto efficace. Esso è tratto dalla frase che Deo sussurra ad Isea, quando ella gli rivela definitivamente di essersi innamorata di Massimo Ivrea e di aver deciso di sposarlo. 

Deo Navara le dice questa frase, in apparenza per evitarle l’imbarazzo nel rivelargli i suoi sentimenti e nello smentire quello che tempo addietro gli aveva confessato e promesso; in realtà perché lui, non udendo da un orecchio e voltandosi verso di lei proprio da questa parte, non vuole sentire quello che Isea gli dice, perché gli farebbe troppo male. Ancora una volta avvertiamo tale ambivalenza tra apparenza e realtà, tra credere e sapere, che si intersecano in questo romanzo, come accade nella vita dell’uomo.

Francesco Dario Rossi

martedì 30 novembre 2021

Enea Biumi, Maris ast, ilfilorosso editore, Cosenza, 2021

                                        Enea Biumi è poeta civile. Lo dimostra nuovamente e in modo fermo esprimendo sulla pagina il titolo stesso della raccolta di poesie “Maris ast”, che in lingua pashtu significa “ci sono feriti”. I versi sono volutamente brevi, essenziali, perfino scarni. Eseguono una partitura minimale nella quale s’insediano tracce visibili di una umanità allo sbando. Moti violenti di scontro e di guerra, di diffuse ostilità, imprimono il passo di una marcia quotidiana e forzata, divelta dal fragore dei traumi e delle cadute. Dicono dei versi: “all’unisono la notte/ ha il sapore della cronaca”, quella che imprime l’insondabile profondità della prova. La durezza della domanda rivela nell’autore l’ansito di chi ha fame e sete di giustizia, attraverso una costruzione di versi accorpati come mattoni ritraibili da uno spazio circostante in cui i silenzi sono occasioni di pensiero. Sorge qualche spiraglio naturalistico, quasi a farsi tregua, incanto ancora possibile: “s’ammanta la luce presta del mattino/ e ferma le ore il destino”; ma l’attimo è comunque assediato dalle reiterate urgenze dei fatti e da una distruttiva retorica dell’ipocrisia imperante che caratterizza i messaggi del potere. “Informatica, impresa, inglese”, quasi mantra illusoriamente salvifico a rivelare una società caratterizzata da una persistente assenza di umanesimo integrale, quello cioè capace d’innestare l’elemento autenticamente spirituale nella dimensione ontologica dell’uomo. La ricerca è quindi constatazione amara veicolata dall’autore nei versi “parlati”, nudi, in alcune occasioni lievemente mossi da cenni di assonanze o rime. Intanto, le vie ancora “il poeta le percorre di notte/ a fari spenti/ per non disturbare/ il sonno degli innocenti”; quasi figura appartata ed esclusa, lemure trafitto da una sensibilità affranta. Enea Biumi osserva i tanti sofferenti di ieri e di oggi, gli ultimi, gli sconfitti, con una compassione che indica autentico partecipare emotivo, profondo, nel senso del “patire insieme”, adottando un versificare franto in accezione di percosso, colpito dalla durezza di un pungolo che si fa testo denuncia, testimonianza autoriale. Poi dal tutto sembra, a volte, emergere una sorta di visiva quiete ritrovata, quando s’intensificano segni “e le foto tra le onde e l’ombrellone/ una lettura/ vaga come quei pescatori sugli scogli”.

                                                                                                   Andrea Rompianesi

lunedì 8 novembre 2021

Enea Biumi, Maris ast, Ilfilorosso editore, Cosenza, 2021


La consapevolezza dell’impotenza della parola e l’imperativo etico di denunciare il negativo dell’oggi

 

Queste liriche di cui Enea Biumi (alias Giuliano Mangano) ci  fa dono segnano un importante momento della sua inesausta ricerca esistenziale e artistico-letteraria che lo ha visto cimentarsi in diversi ambiti: dalla musica, al romanzo, al teatro.  Il denominatore che accomuna questa molteplicità di esperienze e percorre come una filigrana in particolare i testi di questa raccolta, è costituito dall’intento di disegnare un quadro  a tinte fosche  dell’oggi tanto celebrata mondializzazione, colta dalla prospettiva di chi ne coglie e soffre nella propria carne i contraccolpi laceranti e distruttivi.

II titolo Maris Ast, “Ci sono feriti”, trae spunto infatti da un’  espressione in lingua ‘pashtu’ presente in un episodio di Buskashì: viaggio dentro la guerra, il racconto-testimonianza  di Gino Strada sulla guerra in Afghanistan, pubblicato nel 2002. In effetti  i quarantaquattro testi della silloge rappresentano  una mondo umano ‘ferito’, massacrato, condotto verso l’annichilamento da guerre continue e atroci che,  se sono state una costante del secolo scorso, hanno anche sinistramente attraversato i primi vent’anni del nuovo millennio. L’intenzione di gettare uno sguardo non sentimentale ma oggettivo sulla realtà si rivela forse nell’assenza di titoli: le poesie sono solo numerate. Le conseguenze tragiche dei conflitti, scatenati da una rinnovata aggressività economica e da fanatismo ideologico-religioso, sono pertanto violentemente proiettate dall’autore  sotto i nostri occhi senza compiaciuti sentimentalismi. Fin dalla prima lirica che non casualmente si apre con il drammatico annuncio “Maris Ast”, urlato e ripetuto in più momenti della composizione, dominano  immagini di disperazione e di morte: “E gli occhi rifuggono gli occhi / Le mani a implorare / Sotto la tenda lo spazio / Della vita breve // Fuori il vento spezza le ossa // Una bomba / Si avverte dopo / Polvere e schegge”. Alla radice dell’ispirazione biumiana sta dunque l’esigenza etica di osservare con sguardo fermo il negativo   della realtà storica, assumendo una netta posizione a fianco delle vittime, degli emarginati, degli sconfitti sfuggendo a facili cedimenti populistici. Nella seconda lirica assistiamo infatti all’emblematica contrapposizione tra l’indifesa fragilità di un bambino e la durezza cieca, anonima dei soldati: “Come la stampella di un bimbo / Che in viso porta l’affanno // Mentre irrompono soldati / Con l’inganno”. In questi versi va colto l’efficace uso della rima che associa e contrappone due parole dal significato antitetico: l’ ‘affanno’ è infatti la manifestazione immediata e irriflessa dello  stato d’animo di sgomento che assale la vittima; l’ ‘inganno’, nasce dall’uso freddo e perverso della riflessione attuato dal carnefice.

La guerra è d’altra parte una costante di quella angosciosa e distruttiva accelerazione storica che l’umanità ha vissuto già nel  XIX e XX secolo. Ecco infatti, nella lirica Sei, che l’autore rievoca la terribile esperienza che il popolo italiano ha vissuto con la Prima Guerra Mondiale, contrapponendo sarcasticamente al bollettino enfatico della vittoria emanato dagli alti gradi militari un desolato e aspro commento morale: “Per rivolgersi ai morti / Necessita il rispetto / E non le solite balle / Di terre promesse / Ma mai mantenute”(Sei). Il destino di sconfitta dei ‘ragazzi del ’99’ mandati al massacro della guerra, sembra riproporsi, in una sinistra corrispondenza storica,  in quello dei giovani del  ’49, la generazione del Sessantotto, condannata a vedere tragicamente bruciate in breve tempo le proprie speranze di liberazione esistenziale e politica: “I ragazzi del 49 sono una nave incagliata / Che i turisti invadono per la foto ricordo / Sono un ponte crollato” (tredici).

Ma l’intento di affrontare e rappresentare i conflitti e i drammi  del mondo attuale dal punto di vista di una rarefatta universalità generalizzante  può trasformare la doverosa  denuncia del male in stucchevole retorica, per quanto dignitosa e austera. Biumi sfugge a questo rischio filtrando i grandi eventi dal punto di vista di una vicenda individuale.  Ce ne offre un esempio la lirica Sette, dove l’evocazione poetica è innescata probabilmente dalla visione della foto del nonno dell’autore,  fante nella Prima Guerra Mondiale, qui rappresentato sullo sfondo della desolazione della trincea e della miseria domestica: “C’era un’umida stanza / La foto del nonno in trincea / O prigioniero alle Tofane / Il cesso in comune / Fuori  / Sul ballatoio ringhiera / La carne quando c’era se c’era / Una briciola di pane / Che doveva durare”.

La lucida e impietosa diagnosi dell’autore sul mondo contemporaneo evidenzia in diversi testi la violenza indiretta che, su un’umanità oppressa e umiliata, esercitano le tecnologie informatiche, i mass media, le ideologie ufficiali religiose e politiche, la morale ipocrita e i falsi valori  delle classi dominanti a volte purtroppo introiettati dalle stesse vittime: i ceti subalterni. Nella lirica Nove l’interno domestico piccolo borghese o proletario tradisce il fastidio, la ripugnanza spontanea  dell’autore per una ritualità religiosa che negli anni sessanta era perversamente intrecciata alla pubblicità televisiva: “Lo dice anche carosello / Che divide il giorno dalla notte / L’adulto dal bambino // E c’è più gusto per Natale / Il papa con le sue tante lingue / E la benedizione / Che si vede tutta San Pietro in festa”.  Ancora più risentita, in quanto mossa da una religiosità autentica,  è la condanna polemica di una Chiesa fondata sul denaro e coinvolta in scandali, che traspare nella lirica Quarantatré, dove gli accenti polemici sono strappati a una stucchevole ovvietà grazie a eleganti e ironici giochi sintattici: “Sebbene Pietro non avesse una banca / Oggi le banche hanno Pietro / E uccide il denaro / Come la mitraglia / Orfani non solo di guerra”. Il trionfo di una società che ferocemente e programmaticamente sembra votata alla manipolazione delle coscienze  in funzione del dominio è angosciosamente  condannato nella martellata rassegna dei molteplici e sinistri ‘idola’ che oggi imperversano: “Il diosesso, Il dioepulone, Il diomaschera, Il diotivù / Dell'audience, Il dioassassino, il dioguerra” (Trentatré).

In questo quadro anche la funzione poetica sembra aver perduto il suo senso ed essere ridotta al silenzio dal trionfo della risibile triade ‘educativa’ imposta alle nuove generazioni: informatica, impresa, inglese: “Attardati tra le calli / I poeti / Silenzio immane / Oltre la siepe / Il nulla che l’animo travolge / Produzione efficienza consumo / È il patto / Informatica impresa inglese / E niente illusioni / Perché la poesia è morta”. (Trentaquattro) Contemporaneamente impazza la manipolazione di presuntuosi e ignoranti ‘mezzibusti televisivi’: “Nell’affanno i mezzibusti tv / Annunciano guerre” (Trentaquattro) e “I reality condannano i giornali / A editare bugie” (Diciannove). Emerge il quadro di un’umanità in rovina, ridotta in frammenti  tra loro incomunicanti, costituita da un’infinità di disperazioni individuali prive di speranza di riscatto: “Il clochard / Sotto il ponte / Che riappare improvviso e reclama // Il suo ieri negato / Il suo oggi sconsolato / Il suo domani ingarbugliato (Quattordici). L’esito allora non potrà che essere la negazione dell’altro in una feroce, intolleranza omicida o la negazione di sé nel suicidio cinicamente commentato dall’indifferenza altrui: “Di questi tempi è facile impazzire / Darsi fuoco / Buttarsi da un balcone / Mentre il deputato adempie ai suoi doveri / Tra banchetti e cene elettorali” (Quarantuno). Lo stesso ‘io’ individuale appare irrimediabilmente compromesso se “Qualche luce: la natura aggredita/ Si sottrae anche il sogno / Di chi / Un tempo urlava / “Io sono” / Ora / Ora”. (Trentotto). All’inferno dell’oggi non esiste allora alcuna possibilità di opposizione, alcun punto di svolta, alcun ‘principio di resistenza’? Forse qualche spiraglio di luce, qualche lacerto di speranza Biumi affida, per  quanto dubitosamente, alla natura che, se aggredita e violentata dall’uomo, pur ci  schiude la possibilità di uno sguardo positivo sul mondo. Dopo un violento temporale notturno, una ‘topos’ classico nella nostra tradizione lirica da Leopardi a Pascoli,  il mondo gioiosamente  rinasce: “L’indomani all’alba / L’acqua redime / La sua furia sull’asfalto / Respirare al nuovo cielo / Nel cuore lago ritrovato / Vanificando inganni // Anche il sole adesso / S’è levato”. (Ventitré)

Poeta eminentemente visivo (non casualmente in epigrafe alla silloge sono citati i versi dell’amico pittore Micharvegas), Biumi ricorre, nelle liriche più direttamente politiche,  a immagini potenti e cariche di espressività che ricordano Goya (Los fusiliamentos), Picasso (Massacro in Corea), l’espressionismo pittorico tedesco del primo Novecento che testimoniarono le stragi della Prima guerra mondiale (George Grosz, Otto Dix). Il ricorso a una prospettiva di rappresentazione a più voci segnalato dall’alternarsi della grafia  corsiva con quella a tondo, la mediazione frequente di un ’si’ impersonale che sostituisce la voce  diretta dell’io poetante, indicano l’impotenza della stessa volontà di testimoniare l’orrore. La disposizione grafica verticale dei versi, l’assenza di titoli (le liriche sono nudamente enumerate), conferiscono alla raccolta l’austerità dell’ epitaffio, dicono la severa necessità della denuncia, abolendo a qualsiasi orpello retorico; infine la sintassi nominale, il ricorso ad assonanze volutamente banali, ridotte spesso a un acciottolio di rime baciate, manifestano lo scacco: l’impossibilità di dare una qualsiasi coerenza all’irrazionalità presente nel mondo, la consapevole rinuncia a  un mistificante ‘sublime’, ma al tempo stesso l’impulso istintivo a ‘dire’ il male. L’unica, precaria, ipotesi di redenzione  riposa allora paradossalmente nella musica, nell’accordo di voci, nel canto poetico: “Ma il canto d’un rabbino / S’accorda ad un muezzin / In questa notte invernale che il gelo/ Ti offende / E un blues avanza nei corpi cadenzati / Di neri suonatori” (Trentaquattro).

                                          

Gianfranco Gavianu                                                                                                                                                                                              


mercoledì 8 settembre 2021

Alberto Mori “In Fra” (Fara Editore, 2021)

 

                                                    

“In questa altezza”, “Fra questa altezza” esprimono l’input decifrabile del titolo “In Fra”, dove la poesia sperimenta il limite, superandolo nella istituzione dialogica che impone anche varietà di caratteri tipografici poiché si fa visiva oltre che fonetica. “Lo sgoccio rastrema ritmo/ con battito umido”; certo il noto è soltanto applicabile, quasi unguento medicamentoso affinabile e proiettato all’insaputa dei mirabili tratti. “Quando tutto manca/ nessun pensiero resta presente”. Distinguono gesti acrobatici e peculiarità anatomiche i versi di Alberto Mori, così come estensioni mentali. Ma se “In” affiora, “Fra” coordina la partecipazione liminare che contende al dato l’esecuzione delle lontananze. Accende in atto quando “Trasmette mittenza condivisa/ il gesto comunicato dal movimento”, ben sapendo di quanta attualità si carichi l’antico concetto di “moto” inteso anche come “mutamento”. L’intermittenza è nella veglia aurorale, nel dialogare perenne, nella opacità di tempi, nella temporalità dei segni. La contraddizione si fa evasiva, postula una modalità esperita, l’attribuibile icasticità dei frammenti. Sarebbe applicabile un diuturno passaggio ad accostamenti tracciati in linee; inoltre comprendere esordi imprevisti di acque marine. Intervengono squarci d’aperture capaci di ridefinire il quadro percepibile in estremi oppositivi: “La linea pluviale gronda addentro/ Il piccolo viaggio del rivolo discende/ Scolma fessurato nel tombino”. Le immagini pretendono comunque d’imporsi nella forza policroma delle effusioni, quando è lo sguardo che incontra “le scaglie rosso violette imbevute”. Al di là di una impressione primaria, qui la forma nettamente s’impone sulla materia, l’anima sul corpo, l’atto sulla potenza. Ci sono erranze, decisioni, distinzioni, ricezioni, pensieri, estensioni emergenti da correlativi traducibili in esperienze. L’iterazione del cielo è appunto “segno”, quindi simbolo d’altro, “aria senza luogo” perché oltre il luogo. Poi giunge il cammino al suo naturale esporsi, quando la luce testimonia l’evento, l’accadente. Alberto Mori sembra annotare la spazialità luminosa come occasione di percezione fertile, inesausta, riprodotta dalla tellurica effervescenza dei passaggi. Qualcosa è davvero accaduto e molto avviene poi di significativo e, allo stesso tempo, indecifrabile mentre, ci dice il poeta”, “Questa nota silenziosa interroga”.

 

                               Andrea Rompianesi


lunedì 21 giugno 2021

Michele Toniolo “Passaggio sul Rodano” (Galaad Edizioni, 2021)

 

Un lessico familiare unico in otto racconti, che nasce anche in un unico luogo: il Rodano quando giunge a perdersi nell’umidore della Camargue. Da un traghetto che lo attraversa, con l’acqua a bagnare le scarpe e il vento a trascurare il bucato steso tra i pini di mare, il libro ha inizio. Si tratta di “Passaggio sul Rodano”, opera in prosa di Michele Toniolo, particolarissimo autore nonché fondatore di Amos Edizioni. Nello sviluppo di narrazione si evidenziano elementi nitidi che confermano una sequenza o successione di oggetti e movimenti che sembrano evocare un passato testimone di fatti intrisi di silenzio. Il ritmo è quello della successione scandita da frasi brevi, frutto di paziente cesellatura. Aleggia, già dalle prime pagine, il senso di una inquietudine; la consapevolezza che qualcosa di drammatico è avvenuto, inesorabilmente, incidendo nell’animo degli interpreti. Si accalcano i particolari che determinano la scena e acquisiscono la simbolica appartenenza all’evento mentre “corde di nuvole tirano il cielo verso la notte”. Sembra di percepire i tratti di un quadro da cui emergono figure con la consistenza dei lemuri, case abbandonate, un traghetto affondato. Nel testo che sviluppa una danza, essa si fa memoria della caduta di una madre che sa esattamente dove il segno e la linea dello sguardo devono indicare l’unica opzione di ripresa che non può essere altro se non la presenza del figlio. Un filo conduttore si sviluppa partecipe nella prosa di Toniolo, tale da riemergere nelle conduzioni che echeggiano in non detto, tutto ciò che viene fatto soltanto intuire come nelle alcune parole dedicate ad Alice. Anche qui, predominante, s’innalza il rapporto tra madre e figlio, ma in una esperienza di dolore nella quale la domanda di senso interroga le modalità della morte. Una memoria ferita che titola le profonde vicende e più drammatiche con segnali esposti dalle stagioni e dagli eventi di natura. Ci sono parole importanti che fluttuano al passaggio delle frasi: delitto, debolezza, respiro; e poi grazia, croce, amore. Un principio svelante emerge nitido: non c’è azione più grande di chi sa restare. Se un figlio accoglie la morte, scrive Michele Toniolo, nella morte vi entra lasciandosi stringere dalla madre. Questo è amare; questa è la croce. E la madre, tenendo stretto suo figlio, ha stretto anche Dio. Un processo di scrittura conduce a levigare le sfumature materiche suscitate dalla tessitura rivelando nervature più profonde, che chiamano alla veglia, all’esegesi filtrata attraverso un’ ermeneutica contemplativa. Un incedere che rivela anche un ulteriore rapporto: quello del figlio e del padre; di quando ciò ammette il riconoscere una ennesima apertura all’amore. Il testo si sofferma poi sulle radici di una narrazione originaria. E qui Toniolo opportunamente evoca, nel senso espresso da Kafka, l’evidenza della parola giusta che conduce, e di quella non giusta, forse piuttosto esatta, che seduce. I legami sono costitutivi di relazioni attinenti alla vita e alla morte, nella consistenza di un durevole approccio che evidenzia nella scrittura letteraria l’ostinazione di senso, la ricerca di senso, in un’accezione sostanzialmente teologica, intesa non specificamente come anagogica. Allora le parole possono stare nella soglia tra la vita e la morte, tra la verità di una cosa e la cosa stessa, forse tra l’essere di un ente e l’ente stesso: la soglia che costituisce la rivelazione creativa. Esondano agnizioni che portano a riferimenti di abissi in cui il totale accedere convoca partecipazioni ancestrali, determinazioni maieutiche, figure come quella di Abramo, il cavaliere della fede che annulla il timore della disperazione, della malattia mortale, nell’espressione voluta da Kierkegaard. Qui, però, il segno è affidato all’accenno della singola individualità che si ritrova a contenere il confronto con il mistero e il suo richiamo; il suo inesorabile porsi, la traccia gravosa della solitudine che ci fa ostinati ma che, nello stesso tempo, ci coinvolge nella seduzione della presenza. E a questo punto non si può evitare di sentire un riferimento costruttivo che ci riporta alla mente proprio quella dottrina heideggeriana dell’arte come messa in opera della verità, nella valutazione di un approccio che coinvolge un “accadere” di aperture storiche e linguistiche in cui, come in anni ormai lontani aveva sottolineato Vattimo, ogni conformità e verifica diventano possibili. Ma oltre la fondazione, l’opera è sfondamento. Anche se, per chi scrive questa nota, il senso di questo sfondamento si allontana dalla interpretazione citata, e acquisisce una valenza più propriamente e necessariamente metafisica; così come anche la poesia può determinarsi come poesia dell’essere. Scriveva Goethe, pur ammettendo tutte le sfumature anche contraddittorie che hanno caratterizzato le sue espressioni: “l’uomo quando è commosso sente profondamente ciò che è infinito”. Appare forte il senso della perdita dei ruoli più intimi e l’accostarsi alla testimonianza di chi rimane a raccontare un dolore che è separazione e ricongiunzione nello stesso tempo ma sotto un diverso aspetto; ben al di là di un teatro dolente, come viene tratteggiato in un andare “tra ciottoli d’ombra tra i cipressi”. Così s’intrecciano stimoli che esorcizzano una storia con un’altra, come da titolo di una prosa che evoca la torre di Holderlin o la prigione di Bonhoeffer. Notti e fughe negli spazi tra fiume e vento, nei tanti modi che accompagnano al congedo. Conclude il libro una postfazione o, meglio, un vero e proprio breve saggio di Arnaldo Colasanti che evidenzia la natura di una prosa esprimente l’iterazione, una sorta di soluzione che affronta e supera il tonalismo paratattico, sfumature capaci di ricordarci le suggestioni di un autore come Peter Handke. Notando però, da parte di chi scrive queste osservazioni, che, in realtà, non sussiste contraddizione tra metafisica e concretezza. Proprio perché la metafisica stessa, essendo discorso sull’essere, affronta tutto ciò che essendo, proprio perché è, non può non essere anche concreto, in una peculiarità che comunque certo non esclude le distinzioni ontologiche, ma le amplia. Così come concreti e tangibili sono il dolore e il farsi prossimo, temi sostanziali dell’opera di Michele Toniolo, esito di grande maturità letteraria.

 

                                                                                                            Andrea Rompianesi

giovedì 17 giugno 2021

Enea Biumi, La maestrina del Copacabana e altri racconti, Genesi Editrice, Torino, 2021


 

Enea Biumi è in fase di seconda giovinezza. Da sempre attivo nel mondo delle lettere, anche quando era docente di italiano negli istituti superiori, era però restio a dedicare troppo tempo alla scrittura, sia perché il lavoro era costante, sia per un riguardo diciamo di tipo morale: in fondo la scrittura non è un po’ una perdita di tempo? Per fare del bene all’umanità, può bastare mettersi a tavolino ed inventare storie? La pensione ha liberato Enea da questi riguardi e oggi la penna scivola veloce, sia in poesia che in prosa. Ora è il tempo della prosa, ma già una raccolta di poesie ha un contratto firmato e fra poco sarà in stampa. Stiamo all’oggi e alla raccolta di racconti ‘La maestrina del Copacabana’ (Genesi editrice). Si tratta di cinque racconti, meritevoli del premio ‘I Murazzi per l’inedito 2020’, premio già vinto nel 2018 con il romanzo ‘Rosa fresca aulentissima’. Cinque racconti, che richiamano alla mente pagine di Piero Chiara, ma anche di Giovannino Guareschi ma soprattutto ci riportano l’Enea Biumi che avevamo incontrato con il romanzo sopracitato. Lo ritroviamo come suonatore di pianobar nel primo racconto, quello che dà il titolo alla raccolta; lo rivediamo come professore nella seconda storia (Bocciofila Cartabbia); ecco il suo amore per la poesia, soprattutto per Giuseppe Ungaretti, nel terzo racconto (Una corolla di tenebre). E chi è ‘Aristide Giovanni Principe Turibbio’ se non l’autore, quindi ogni uomo, posto di fronte all’epilogo, al soffrire nel disfacimento e nella perdita, che si affida ai ricordi delle bravate giovanili per sopravvivere? Infine l’ultimo racconto, ‘Il Windsurf’, un fitto dialogo, uno sparlare e parlare dei fatti altrui. Biumi non si affida all’originalità stilistica, che nella ricerca del nuovo dimentica la leggibilità: punta ad essere facilmente inteso soprattutto con dialoghi invitanti, frasi brevi, periodi mai complicati, dove non manca il dialetto bosino ma anche il latino, parole ricercate (e qui il professore ogni tanto prende la mano) ma nel complesso la lettura scivola veloce nella discesa del piacere, che ogni lettore ricerca. Una scrittura popolare e insieme raffinata, una trama mai banale ma nemmeno indecifrabile. E sotto sotto c’è l’autore, con il suo antimoralismo, la sua capacità di accontentarsi godendo del quotidiano, il suo sguardo distaccato e insieme accogliente verso i peccati degli uomini, più disposto ad accettare cadute incespicando nei sassi della passione, piuttosto che il peccato di eccesso di giudizio e pregiudizio. Valga a completamento di questa mia sintetica analisi la motivazione della giuria del premio ‘I Murazzi’: “…I cinque racconti risultano ambientati nell’arco di anni che vanno dagli albori del fascismo fino all’affermazione in Italia della civiltà dei consumi e del welfare, ma mantenendo uno sguardo di particolare attenzione alle tradizioni del ceto contadino e per lo più piccolo borghese…Lo stile narrativo è allo stesso tempo facondo e schietto, con un timbro di astuzia popolare che mette a fuoco la gioia di vivere, ma anche gli inciampi della malasorte e la tentazione ai sotterfugi o agli inganni…”

Un assaggio? Eccolo, preso dal primo racconto:

“Sì, ma anche quel seno…” balbettò la preside.

“E’ una donna, del resto…figlia di sua madre” e nell’affermarlo, ella cercò di mettere in risalto quello che ormai non c’era più: i suoi anni infatti stavano mostrando tutta la loro esecranda malignità per aver fatto decadere la prosperosità di un tempo…

Come già scritto, Enea Biumi (pseudonimo di Giuliano Mangano), docente in pensione, ama la narrativa, la poesia, la musica, il teatro. Da nomade interiore, ama spaziare nei campi dell’arte e lungo le strade del mondo. Ha al suo attivo svariate pubblicazioni in prosa e poesia, collaborazioni a riviste. Consiglio di prendere visione del suo blog (il blog di Enea Biumi).

Il libro è presente in alcune librerie varesine, lo si può ordinare online anche alla casa editrice (genesi@genesi.org) o direttamente all’autore, che ha una pagina facebook.


Carlo Zanzi

L'ANIMA nella Poesia di Prospero Cascini fotografata attraverso la PROPRIA, a cura di Salvatore Monetti

  La poesia, in molte delle sue forme, è molto più di un semplice esercizio linguistico o di un passatempo estetico. Essa è da meditazione. ...