martedì 1 febbraio 2022

Giovanni Lovisetto “Scavi Urbani” (Transeuropa Edizioni, 2021)


 

Un esordio poetico di coinvolgente tessitura e specifica maturità. Attraverso un sentire partecipe espresso in versi che contemplano, in una asimmetria votata alla variazione, il rivisitare interpretativo dell’episodio dicibile nella sua empatica ragione. “Scavi Urbani” è l’opera prima di Giovanni Lovisetto che si sviluppa dagli ambienti toscani dell’origine alla New York acquisita nella sua potenzialità includente. L’interiorità scava il sentiero più intimo della confessione sensuale e premia l’attesa della finitura linguistica nella peculiarità della disciplina semantica. Comunque, prima della specifica attenzione, è il lasciarsi andare all’onda di un desiderio abilitante la facoltà di nominare. E’ l’attesa del ritorno, nella danza degli incontri che affluiscono alla coscienza del fatto; allora “ti chiederai se è vera la condanna/ mentre l’assoluzione ancora tarda/ e speri sia l’ultima corolla/ che si apre/ a maggio inoltrato nel roseto”. Ricerca di una voce consapevole degli echi, paesaggi sfumati, coincidenze e intermittenze, timori partecipati nei dettagli serali; l’intenzione di Lovisetto naviga tra i colori delle varianti, nelle affettività segnate dall’alternarsi del perdersi e ritrovarsi a quel punto forse mutati, come ricreati in una limpidezza assorta. “Era luglio, ma poteva/ essere per sempre,/ sabbia tra le dita/ che non scivola”; clausure finiscono e attese bruciano, nella composta evidenza di un assalto che impedisce la resa, converge in una paziente volontà di discernere i moti sotterranei e palpabili, le levigatezze che estendono la peculiarità di una flagranza concessa. Variazioni in tonalità discorsive accompagnano il dicibile delle voci ritraibili dalle modulazioni dei respiri. L’osservazione, sembra dire l’autore, comunicherà “se noi sapremo (lo dicono/ i tuoi occhi e i palmi)/ rivendicarci sempre un po’ di spazio,/ accorciando chilometri”; quasi il gesto a cui ricorrere per acquisire la consapevolezza di piacere, nella agibilità dell’incontro. Ci sono poi poesie in cui lo sguardo si apre sullo scenario americano e nelle quali si distingue la ricezione degli enti tangibili, propriamente corrisposti in correlativi matericamente identificati, quando “cambia il suo volto in ponte/ grattacielo parco insegna al neon/ statua megastore o truck/ di cucina greca su Amsterdam Ave”. Le luci e le foglie, la pioggia e le strade, le fermate della metro, gli angoli e i corpi esprimono l’acutezza del sentire, l’epidermica passione nuda, l’epifania perturbante dei tratti amati, la predominanza delle attese e dei rimandi, l’esprimibile vicissitudine del passo nomade. Siamo, con la poesia di Giovanni Lovisetto, forse “in cerca di una dose di cielo,/ di venature celesti inclini al viola”.

                                                                         Andrea Rompianesi

mercoledì 26 gennaio 2022

Umberto Belardinelli, Stella del Mare, ed. Scriptores, Varese, youcanprint, 2021, € 12,00

 

                                             

La stella è il faro che nella notte conduce il viaggiatore. E se si tratta  di un navigante gli indica pure il percorso. Sia in terra che in mare la stella è di per sé guida sicura. Ma nella raccolta di Belardinelli è qualcosa di più. Il poeta trascende il dato immediato, la materialità che comunque, bene o male, ci appartiene ed appartiene alle cose (mare e stella sono elementi palpabili, se non con le mani, almeno con gli occhi). Eppure non ci si può fermare a questa visione materica. Belardinelli suggerisce ben altro. Allora, come in ogni poesia, ecco che il significante traduce e rivela il significato. E non si tratta solo di simbologia. Perché  il simbolo assurge a motivante rivelatore di un pensiero filosofico e teologico che ci induce a varie riflessioni.

Si può credere in Dio o non credere. Ma non è questo il punto. Il discrimine fra bene e male appartiene a tutti: atei o credenti. Ed è ciò che più è visibile in questa raccolta poetica dai tratti e dai risvolti di una grande fede, risvegliata e vivificata dall’incontro con la vita di Santa Faustina Kowalska, cui il poeta per motivi personali, è assai devoto. Lo sta a dimostrare la lirica “Le due strade” che invita a non facili e semplicistiche soluzioni. Anzi. La via più tortuosa è quella che alla fine ti fa raggiungere la felicità. Proprio perché è tormentata da pruni, da sassi, da sentieri irti che segnano lacrime e dolore, solo qui s’incontra l’anelata gioia, dimenticando perfino ogni sofferenza. Così come sta scritto nel Vangelo “larga è la via che conduce alla perdizione (….) mentre angusta è quella che porta alla vita” (Mt. 7; 13-14). L’imput decifrabile è appunto questa grande religiosità che si fa vita concreta, come concreto è il dolore o la gioia. Il tutto inserito in versi davvero ricchi sia di immagini che di sonorità (l’endecasillabo è il rimando più frequente, così come numerose sono le allitterazioni e alcune rime per nulla scontate o banali). Sembra quasi di immergersi in una partitura musicale che accompagna l’impegno costante di meditazione attiva e partecipata attraverso l’uso di un ampio respiro fonetico. Le parole acquistano colore e vivacità. Le immagini si moltiplicano anche là dove entrano in gioco realtà metafisiche come gli angeli e denotano una affabulazione mistica ed allo stesso tempo elegiaca che accende l’osservazione critica e ne sviluppa i contorni plurimi e ascetici. Anche la struttura poematica delle liriche aiuta il discorso filosofico teologale costituendo un affresco in cui la parola diventa verità pedagogica ed insegnamento costante.

Il rimando, rivelato dallo stesso Belardinelli, è il Diario di Santa Faustina le cui citazioni costituiscono non solo un metodo di comprensione ma anche parte integrante e illuminante della silloge. Il poeta ha attraversato le illuminazioni della santa, le ha fatte proprie e le ha tradotte in versi. E se da una parte le riflessioni risultano ampiamente e volutamente teologiche, dall’altra Belardinelli non rifiuta l’incontro-scontro con la realtà. Il piano religioso acquista dunque valore proprio per questo confronto, a volte pure aspro, ma necessario. Perché, in fondo, non si può dimenticare l’umanità con tutti i suoi difetti ed imperfezioni, con le sue assenze e le sue presenze bugiarde, con i suoi slanci generosi e i suoi tradimenti quotidiani. In tale duplice veste (da una parte l’uomo, dall’altra l’angelo) diviene reale anche l’irreale, santo anche il peccatore, universale anche il particolare, e dove su tutto, in maniera costante e silenziosa, veglia e regna la Misericordia.

Enea Biumi




sabato 22 gennaio 2022

Daniele Benvenuto “Chiari d’aria” (Book Editore, 2021)

 


 

Cattura la luce il taglio, l’osservazione dell’occhio indocile; ben altra la similitudine che accorpa il passaggio arguto, la flessione per ora stabile...”era ineguagliabile, poi, nei toni grigi fino a tornare,/ le ore alla rinfusa, al blu notturno”. Evoluzione in un tracciato del verso che coinvolge e seduce nella stessa maturità del porre. E’ “Chiari d’aria”, titolo del poeta ed artista Daniele Benvenuto. Un verso pensante accoglie gli stimoli provenienti da una natura emissaria di ragioni inesplorate, con difficoltà racchiuse nella compatibile conduzione dei propositi. I dubbi evocano percorribili ristori non immuni dalla forza di un lucore che condivide l’esprimibile asperità del nodo esistenziale con le ombre delle sfumature inerenti le testimonianze condotte all’appello della scrittura. Il corsivo dei “chiari” segni dilata l’inespresso e condona pene ataviche, ragioni che discutono il senso più intimo di una norma; l’agevole cognizione di un dolore ancestrale, di una prossimità inesausta. Si prevedono grovigli, ingenuità, varchi e solfeggi; “lascia che l’idea si eclissi, che sia la corrente continua/ della luce a trafugare la presenza dell’ombra” scrive Benvenuto. E saranno ancora debiti dell’aria, estuari e pulviscoli potentemente rianimati, confronti con un tempo ubiquo, fragori e incendi (e qui non sfugge il magistero di Roberto Sanesi). A strutture poematiche compatte succedono interventi ad architettura di strofe; si alternano scorci che travalicano l’impressione per farsi esegesi duttile, sensitiva e concettuale. Le teorie si decodificano per ritrarre le sospensioni abitate da visioni imminenti, nella priorità stabilita dalla osservazione intangibile e, sullo stesso piano, evidente come “scocca improvvisa”, mappa cromatica trasformata in dicitura fonetica, in turbamento tattile, quando le condizioni dei giorni disegnano codici tenaci. E’ una poesia di forte tessitura linguistica, capace di evolversi nella stessa forma come equilibrio di forze in atto. La domanda partecipe intinge l’acuto senso del quesito nelle territorialità corpose degli elementi, evitando distrazioni proponibili alla mobilità dei confini, delle ricezioni. Non bastano i miti, per altro vaganti, ma il procedere “con piccoli gesti sulla carta” richiede fatica e talenti. Quel tono sapientemente letterario che sa inoltrarsi nei periodi di una versificazione alta, elegante, profonda. Daniele Benvenuto convince nell’esito, delinea contorni materici, conduce ad un solco in cui “lo spietato miraggio è compiuto”.

                                                                 Andrea Rompianesi

domenica 16 gennaio 2022

Francesco Dario Rossi ci racconta di Liala e del suo linguaggio non verbale


 

La piazzetta che Varese ha dedicato a Liala

I romanzi di Liala, anche se hanno avuto un eccezionale successo di pubblico e lettori (oltre dieci milioni di copie vendute solo in Italia), sono sempre stati snobbati dalla critica ufficiale, come appartenenti al solo genere rosa, rivolto ad un pubblico solo femminile e non meritevoli di studio come espressione di vera letteratura. Ritengo che ben pochi uomini li abbiano letti, ma li hanno guardati sempre dall’alto in basso, e a priori considerati scadenti. 

Soltanto nel 2013, dopo 18 anni dalla morte della scrittrice, si è organizzato un convegno sulla sua produzione letteraria e ne sono stati pubblicati gli atti nel libro Liala, una protagonista dell’editoria rosa.

Un altro pregiudizio che ha escluso i romanzi di Liala da una seria valutazione critica sul loro valore letterario e narratologico è l’averla considerata prima “militarista” poiché i suoi racconti fino al 1945 avevano come protagonisti aviatori e il loro ambiente; poi  aristocratico-conservatrice, poiché le classi sociali dei protagonisti sono quasi sempre altolocate, mentre gli umili (operai, camerieri, giardinieri), sono visti con paternalismo e distacco. Frequenti le ragazze di famiglia umile di cui si innamorano nobili e industriali, spesso sposandole. E’ evidente che la critica letteraria del dopoguerra, fin quasi a fine Novecento, quasi tutta militante e engagée a sinistra, abbia ignorato e snobbato questa scrittrice che, in tempi di neorealismo, descriveva con toni a volte dannunziani sontuosi palazzi e interni e industriali arricchitisi durante la seconda guerra mondiale.

Mia intenzione è esaminare una quindicina di romanzi scritti da Liala, tenendo conto della data in cui sono stati scritti, dal punto di vista della trama e narratologico e dei pregi stilistici.

Per la datazione degli anni in cui sono stati scritti (non di edizione), sono grato alla figlia di Liala, Primavera Ippolita Cambiasi, che nel 2001 mi ha gentilmente inviato una lettera con l’elenco dei romanzi di sua madre, con accanto la data di composizione. E l’elenco è un’ottima fonte, poiché la marchesa Primavera è stata tutta la vita accanto alla madre, come segretaria e collaboratrice.

Primavera, la figlia di Liala

Dal punto di vista stilistico, molto efficace è l’espressione del linguaggio non verbale, di viso, gesti e prossemica, che cala il lettore nell’atmosfera e glielo fa percepire in modo sinestetico, e l’abilità di Liala nel rendere spontanei e realistici i dialoghi. Splendide e pittoriche le descrizioni paesistiche, di albe a tramonti, luci e ombre, azzurri di mare e di cielo.

Acuta e profonda conoscitrice dell’animo umano, femminile e maschile, arricchisce i suoi romanzi con tutta la gamma dei sentimenti, vizi e passioni (invidia, gelosia, simulazione, seduzione, ira, vendetta), non soltanto sentimentalismo e amore, e costruisce caratteri a tutto tondo, con tic, fisime, intercalari tipici, pregi e difetti.

Naturalmente alcuni valori sono ormai sorpassati, ma il suo narrare è sempre fresco e attuale. Lo era sessanta-settanta anni fa per le nostre nonne e bisnonne, lo è per le madri e ragazze di oggi, che sentono il bisogno di sfumature psicologiche, di essere immerse in atmosfere anche datate, ma che le facciano meditare (e anche un po’ sognare) e vadano oltre il tutto e subito, l’essere sempre connessi online e la saturazione/ubriacatura da video e foto condivisi sui social.

IL LINGUAGGIO NON VERBALE DI LIALA

Liala ha un’abilità eccezionale nell’immergere i lettori nelle atmosfere e situazioni descritte. Non parliamo soltanto delle minuziose descrizioni di paesaggi, interni e abbigliamento dei personaggi.


Primavera, Serenella e la nipote Diana con Liala

E' abile soprattutto nell’esprimere il linguaggio non verbale: gesti, posture, atteggiamenti del viso, degli sguardi, e di arricchire quello verbale rimarcando la tonalità e il timbro della voce, per comunicare lo stato d’animo di chi parla e rendere vivi e icastici i dialoghi.

Molti dialoghi sono vere sceneggiature: il lettore vede la scena, vi è immerso e coinvolto. Con verbi opportuni ( sussurrò, bisbigliò, cinguettò, mormorò,  sibilò, sospirò, spifferò, ribatté, balbettò, farfugliò, bofonchiò, singhiozzò, sbottò, sbraitò, tuonò, inveì, esclamò, urlò, ciangottò, ecc) la scrittrice ci fa sentire il tono delle voci e trasmette sentimenti e stati d’animo. L’aggrottare la fronte, l’inarcare le ciglia, il socchiudere le palpebre, lo spalancare gli occhi, lo sbarrarli o strizzarli, lo sbirciare o guardare di traverso, il chinare lo sguardo o il volto, il fissare negli occhi, l’alzare con fierezza il mento, l’arricciare o torcere il naso, lo schiudere o increspare le labbra, l’avvampare o sbiancarsi delle gote ci comunicano emozioni più delle parole e le rendono più vive.

Così il chinare le spalle o alzarle o stringersi in esse, l’ergere il busto, il sobbalzare, il fremere, il tremare, l’irrigidirsi sono soltanto qualche esempio di comunicazione non verbale. Così il linguaggio delle mani e delle dita che si intrecciano, si serrano a pugno, con le nocche che si imbiancano, che supplicano, che accusano, che si aprono o si chiudono e serrano.

La governante Tarsilla

E’ opportuno notare che la natura ha dotato molto di più le donne che gli uomini della capacità di percepire e interpretare il linguaggio degli sguardi e dei gesti, perché possano capire i neonati, che comunicano con il pianto, con strilli e posture. Dato che la platea di chi leggeva e legge i romanzi di Liala era ed è soprattutto femminile, ne comprendiamo il successo anche per queste sue doti espressive e comunicative.

Molto importante in Liala è anche la capacità di esprimere la prossemica, ossia l’accostarsi o allontanarsi dei personaggi tra loro, la posizione nello spazio della scena descritta. Il porsi di lato, di fronte, alle spalle, il porgere o accendere una sigaretta, il modo di tenerla tra le dita, di fumarla  o di spegnere il mozzicone ( quasi tutti i personaggi dei romanzi di Liala fumano) dicono moltissimo al lettore. La scrittrice è molto attenta alla prossemica, come un regista che prepara gli attori e le scene. La grande differenza è che in teatro, nei film o telefilm gli attori trasmettono direttamente agli spettatori linguaggio non verbale e prossemica, mentre lo scrittore deve parlare alla fantasia dei lettori che vedono le scene attraverso le parole lette. Per questo è fondamentale che il linguaggio dello scrittore sia icastico.

Francesco Dario Rossi


Liala nel 1935


venerdì 14 gennaio 2022

Liala: "Sottovoce o mia Niny". Recensione di Francesco Dario Rossi


Questo romanzo si distingue dagli altri per profondità di ispirazione e novità dei temi. E’ fondamentalmente dannunziano nell’accostamento di vita e arte. 

Deo Navara, grande attore di prosa ed interprete di drammi shakespeariani, vive intensamente i suoi ruoli di artista drammatico. Fonde spesso la passionalità dei personaggi interpretati (Otello – Amleto – Romeo) con la propria passionalità ed i propri sentimenti. Vive la gelosia di Otello come la sua latente gelosia verso l’attrice-amante Gilda; quando in scena uccide Desdemona scarica la sua vendetta e rancore contro Gilda, che lo ama in modo ossessivo; quando, dopo la riconciliazione, interpretano insieme Romeo e Giulietta, vive nell’amore romantico di Romeo il proprio amore per Isea.

La scrittrice coglie bene la situazione dell’attore che, quando si cala nel personaggio, diventa personaggio e per lui è difficile scindere la vita di questo dalla vita reale (una tematica tipicamente pirandelliana). Quando tra personaggio scenico e realtà vi è troppo distacco, ne soffre l’interpretazione e  l’efficacia artistica dell’opera teatrale.

Infatti, quando Navara è in crisi per essere stato abbandonato da Gilda e quando sfuma la sua illusione d’amore per Isea, non riesce ad essere convincente e “reale” sul palcoscenico. Tuttavia, la colpa è anche della nuova partner, la Paradisi, attrice non adatta a ruoli particolarmente drammatici, e del difetto di udito di Deo, costretto a muoversi sul palcoscenico in modo artificioso per poter udire le parole degli altri attori ed il suggeritore. 

Nel romanzo vi è quindi anche il dramma di un attore che si sente menomato ed inutile per l’handicap uditivo. Navara non reagisce di fronte all’insuccesso teatrale e personale, ma si rifugia nella sua casetta in montagna, vicino al Passo della  Cisa (fuga dalla realtà, esilio in un luogo di pace ed apparente serenità, scelta di non-vita, tipica della depressione).

Isea Benini, giovane sorella del suo amico Enzo, si innamora di Deo, vedendo in lui il grande artista, idealizzandolo per il suo fascino di grande attore teatrale, gli rivela il suo amore e, per restargli vicino, cerca caparbiamente di entrare nella sua Compagnia drammatica come attrice giovane; in effetti studia recitazione, raggiungendo buoni livelli, proprio perché sorretta dal suo amore-dedizione. Ma quando lui si ritira nella sua casetta in montagna, e lei lo vede sceso dal piedistallo, mal vestito, con la barba lunga, l’infatuazione di Isea svanisce.

Deo Navara ricambia l’amore di Isea, ma non glielo rivela. Vive passione e tormento dentro di sé, sapendo che non era realizzabile per differenza di età e di ceto sociale. 

Identifica la purezza, l’innocenza, lo splendore degli occhi di Isea con l’innocenza della piccola Niny, una bimba di tre anni che vive con la mamma nel paesino sulla Cisa.  Arriva a chiamare Niny Isea. Bella la frequente sovrapposizione Niny-Isea e dello sguardo della ragazza con la dolcezza e semplicità della bimba. Le due immagini spesso si accavallano, si confondono  nella mente di Navara: nelle grandi manifestazioni di affetto per la piccina, negli slanci ingenui di questa verso di lui si può leggere simbolicamente un’incarnazione  dell’amore tra Isea e Deo, rimasto in potenza, platonico, idealizzato.

Anche dopo che Isea si fidanza e sposa con il nobile e ricchissimo Massimo Ivrea, non finisce il loro amore, che conserva il fascino e l’incanto delle attrazioni inespresse e non compiute. Durante la prima di Romeo e Giulietta, alla fine del romanzo, Isea dal palco lo guarda ed ascolta, estasiata dalle sue dolci e sognanti parole, e Deo è particolarmente calato nel personaggio proprio perché non parla con Gilda- Giulietta, ma con Isea, l’Isea che rimane sempre sua, nel profondo del suo animo. 

Altro motivo di ispirazione nel romanzo è il contrasto, frequente in Liala, fra il mondo raffinato, lussuoso, colto, della “buona società” a cui Deo appartiene come artista, ed il piccolo mondo di paese, fatto di cose piccole e semplici ( il fumo della stufa a legna, il latte nel bricco, l’odore del caffè, l’umidità alle pareti, ecc.), di Deo quando si ritira nel suo paesino.

Liala è attratta dalla poesia del “piccolo mondo”, descrive con dovizia di particolari i gesti quotidiani delle persone semplici, come Costanza, la mamma della piccola Niny, che accudisce Deo in paese, porta il lettore a sentire gusti e profumi di infanzia, di passato. Però è attratta maggiormente dal lusso delle vesti, dallo splendore di luci, dalle architetture imponenti e addobbi sontuosi, che lei descrive con competenza, riecheggiando a volte D’Annunzio..

Interessante è inoltre la complessa personalità di Gilda. Innamorata di Deo, ne è tremendamente gelosa. Lo affianca come attrice, raggiungendo alti vertici di espressività recitativa ( vedi l’interpretazione del ruolo di Desdemona nell’Otello). Poi , credendosi soppiantata dalla freschezza e dal lusso di Isea, abbandona Deo per un anziano e ricco produttore cinematografico. Quando questi si allontana da lei e Gilda si accorge che Isea non è più infatuata di Deo, va da lui nel paesino, apprezza (o finge di apprezzare) le “piccole cose” di lassù e riesce a convincerlo a ritornare con lei al teatro. Grazie all’aiuto finanziario di un amico dei marchesi Ivrea, Deo può allestire una nuova Compagnia teatrale e mettere in scena Romeo e Giulietta. Gilda capisce che può farsi accettare da Deo solo come artista e amica, non come donna, perché non è più attratto fisicamente da lei.

Il romanzo termina con le parole che Deo – Romeo pronuncia, guardando Isea spettatrice, prima di uccidersi: “Offro questo al mio amore” (Realtà o finzione scenica?) Comunque la finzione scenica prevale sulla realtà: l’arte, ancora una volta, dannunzianamente, fagocita la vita.

In questo romanzo lo stile è nel complesso artistico, letterario. 

Molto efficace la descrizione di un delirio febbrile di Deo, a cui pare di vedere danzare le fiamme dal camino e di udire le note di una cullante melodia, nello stato crepuscolare della coscienza dovuto al febbrone. Tra delirio e coscienza, tra sogno e realtà gli pare di vedere la bacchetta di un direttore d’orchestra che dirige queste visioni del delirio. Suggestivi il senso di sordità totale e di onde che si infrangono nell’orecchio (acufeni propri di chi sta perdendo l’udito) e l’affondare l’orecchio sano nel cuscino per trepidare in tale sensazione ultraumana.

Il titolo è anch’esso molto efficace. Esso è tratto dalla frase che Deo sussurra ad Isea, quando ella gli rivela definitivamente di essersi innamorata di Massimo Ivrea e di aver deciso di sposarlo. 

Deo Navara le dice questa frase, in apparenza per evitarle l’imbarazzo nel rivelargli i suoi sentimenti e nello smentire quello che tempo addietro gli aveva confessato e promesso; in realtà perché lui, non udendo da un orecchio e voltandosi verso di lei proprio da questa parte, non vuole sentire quello che Isea gli dice, perché gli farebbe troppo male. Ancora una volta avvertiamo tale ambivalenza tra apparenza e realtà, tra credere e sapere, che si intersecano in questo romanzo, come accade nella vita dell’uomo.

Francesco Dario Rossi

martedì 30 novembre 2021

Enea Biumi, Maris ast, ilfilorosso editore, Cosenza, 2021

                                        Enea Biumi è poeta civile. Lo dimostra nuovamente e in modo fermo esprimendo sulla pagina il titolo stesso della raccolta di poesie “Maris ast”, che in lingua pashtu significa “ci sono feriti”. I versi sono volutamente brevi, essenziali, perfino scarni. Eseguono una partitura minimale nella quale s’insediano tracce visibili di una umanità allo sbando. Moti violenti di scontro e di guerra, di diffuse ostilità, imprimono il passo di una marcia quotidiana e forzata, divelta dal fragore dei traumi e delle cadute. Dicono dei versi: “all’unisono la notte/ ha il sapore della cronaca”, quella che imprime l’insondabile profondità della prova. La durezza della domanda rivela nell’autore l’ansito di chi ha fame e sete di giustizia, attraverso una costruzione di versi accorpati come mattoni ritraibili da uno spazio circostante in cui i silenzi sono occasioni di pensiero. Sorge qualche spiraglio naturalistico, quasi a farsi tregua, incanto ancora possibile: “s’ammanta la luce presta del mattino/ e ferma le ore il destino”; ma l’attimo è comunque assediato dalle reiterate urgenze dei fatti e da una distruttiva retorica dell’ipocrisia imperante che caratterizza i messaggi del potere. “Informatica, impresa, inglese”, quasi mantra illusoriamente salvifico a rivelare una società caratterizzata da una persistente assenza di umanesimo integrale, quello cioè capace d’innestare l’elemento autenticamente spirituale nella dimensione ontologica dell’uomo. La ricerca è quindi constatazione amara veicolata dall’autore nei versi “parlati”, nudi, in alcune occasioni lievemente mossi da cenni di assonanze o rime. Intanto, le vie ancora “il poeta le percorre di notte/ a fari spenti/ per non disturbare/ il sonno degli innocenti”; quasi figura appartata ed esclusa, lemure trafitto da una sensibilità affranta. Enea Biumi osserva i tanti sofferenti di ieri e di oggi, gli ultimi, gli sconfitti, con una compassione che indica autentico partecipare emotivo, profondo, nel senso del “patire insieme”, adottando un versificare franto in accezione di percosso, colpito dalla durezza di un pungolo che si fa testo denuncia, testimonianza autoriale. Poi dal tutto sembra, a volte, emergere una sorta di visiva quiete ritrovata, quando s’intensificano segni “e le foto tra le onde e l’ombrellone/ una lettura/ vaga come quei pescatori sugli scogli”.

                                                                                                   Andrea Rompianesi

lunedì 8 novembre 2021

Enea Biumi, Maris ast, Ilfilorosso editore, Cosenza, 2021


La consapevolezza dell’impotenza della parola e l’imperativo etico di denunciare il negativo dell’oggi

 

Queste liriche di cui Enea Biumi (alias Giuliano Mangano) ci  fa dono segnano un importante momento della sua inesausta ricerca esistenziale e artistico-letteraria che lo ha visto cimentarsi in diversi ambiti: dalla musica, al romanzo, al teatro.  Il denominatore che accomuna questa molteplicità di esperienze e percorre come una filigrana in particolare i testi di questa raccolta, è costituito dall’intento di disegnare un quadro  a tinte fosche  dell’oggi tanto celebrata mondializzazione, colta dalla prospettiva di chi ne coglie e soffre nella propria carne i contraccolpi laceranti e distruttivi.

II titolo Maris Ast, “Ci sono feriti”, trae spunto infatti da un’  espressione in lingua ‘pashtu’ presente in un episodio di Buskashì: viaggio dentro la guerra, il racconto-testimonianza  di Gino Strada sulla guerra in Afghanistan, pubblicato nel 2002. In effetti  i quarantaquattro testi della silloge rappresentano  una mondo umano ‘ferito’, massacrato, condotto verso l’annichilamento da guerre continue e atroci che,  se sono state una costante del secolo scorso, hanno anche sinistramente attraversato i primi vent’anni del nuovo millennio. L’intenzione di gettare uno sguardo non sentimentale ma oggettivo sulla realtà si rivela forse nell’assenza di titoli: le poesie sono solo numerate. Le conseguenze tragiche dei conflitti, scatenati da una rinnovata aggressività economica e da fanatismo ideologico-religioso, sono pertanto violentemente proiettate dall’autore  sotto i nostri occhi senza compiaciuti sentimentalismi. Fin dalla prima lirica che non casualmente si apre con il drammatico annuncio “Maris Ast”, urlato e ripetuto in più momenti della composizione, dominano  immagini di disperazione e di morte: “E gli occhi rifuggono gli occhi / Le mani a implorare / Sotto la tenda lo spazio / Della vita breve // Fuori il vento spezza le ossa // Una bomba / Si avverte dopo / Polvere e schegge”. Alla radice dell’ispirazione biumiana sta dunque l’esigenza etica di osservare con sguardo fermo il negativo   della realtà storica, assumendo una netta posizione a fianco delle vittime, degli emarginati, degli sconfitti sfuggendo a facili cedimenti populistici. Nella seconda lirica assistiamo infatti all’emblematica contrapposizione tra l’indifesa fragilità di un bambino e la durezza cieca, anonima dei soldati: “Come la stampella di un bimbo / Che in viso porta l’affanno // Mentre irrompono soldati / Con l’inganno”. In questi versi va colto l’efficace uso della rima che associa e contrappone due parole dal significato antitetico: l’ ‘affanno’ è infatti la manifestazione immediata e irriflessa dello  stato d’animo di sgomento che assale la vittima; l’ ‘inganno’, nasce dall’uso freddo e perverso della riflessione attuato dal carnefice.

La guerra è d’altra parte una costante di quella angosciosa e distruttiva accelerazione storica che l’umanità ha vissuto già nel  XIX e XX secolo. Ecco infatti, nella lirica Sei, che l’autore rievoca la terribile esperienza che il popolo italiano ha vissuto con la Prima Guerra Mondiale, contrapponendo sarcasticamente al bollettino enfatico della vittoria emanato dagli alti gradi militari un desolato e aspro commento morale: “Per rivolgersi ai morti / Necessita il rispetto / E non le solite balle / Di terre promesse / Ma mai mantenute”(Sei). Il destino di sconfitta dei ‘ragazzi del ’99’ mandati al massacro della guerra, sembra riproporsi, in una sinistra corrispondenza storica,  in quello dei giovani del  ’49, la generazione del Sessantotto, condannata a vedere tragicamente bruciate in breve tempo le proprie speranze di liberazione esistenziale e politica: “I ragazzi del 49 sono una nave incagliata / Che i turisti invadono per la foto ricordo / Sono un ponte crollato” (tredici).

Ma l’intento di affrontare e rappresentare i conflitti e i drammi  del mondo attuale dal punto di vista di una rarefatta universalità generalizzante  può trasformare la doverosa  denuncia del male in stucchevole retorica, per quanto dignitosa e austera. Biumi sfugge a questo rischio filtrando i grandi eventi dal punto di vista di una vicenda individuale.  Ce ne offre un esempio la lirica Sette, dove l’evocazione poetica è innescata probabilmente dalla visione della foto del nonno dell’autore,  fante nella Prima Guerra Mondiale, qui rappresentato sullo sfondo della desolazione della trincea e della miseria domestica: “C’era un’umida stanza / La foto del nonno in trincea / O prigioniero alle Tofane / Il cesso in comune / Fuori  / Sul ballatoio ringhiera / La carne quando c’era se c’era / Una briciola di pane / Che doveva durare”.

La lucida e impietosa diagnosi dell’autore sul mondo contemporaneo evidenzia in diversi testi la violenza indiretta che, su un’umanità oppressa e umiliata, esercitano le tecnologie informatiche, i mass media, le ideologie ufficiali religiose e politiche, la morale ipocrita e i falsi valori  delle classi dominanti a volte purtroppo introiettati dalle stesse vittime: i ceti subalterni. Nella lirica Nove l’interno domestico piccolo borghese o proletario tradisce il fastidio, la ripugnanza spontanea  dell’autore per una ritualità religiosa che negli anni sessanta era perversamente intrecciata alla pubblicità televisiva: “Lo dice anche carosello / Che divide il giorno dalla notte / L’adulto dal bambino // E c’è più gusto per Natale / Il papa con le sue tante lingue / E la benedizione / Che si vede tutta San Pietro in festa”.  Ancora più risentita, in quanto mossa da una religiosità autentica,  è la condanna polemica di una Chiesa fondata sul denaro e coinvolta in scandali, che traspare nella lirica Quarantatré, dove gli accenti polemici sono strappati a una stucchevole ovvietà grazie a eleganti e ironici giochi sintattici: “Sebbene Pietro non avesse una banca / Oggi le banche hanno Pietro / E uccide il denaro / Come la mitraglia / Orfani non solo di guerra”. Il trionfo di una società che ferocemente e programmaticamente sembra votata alla manipolazione delle coscienze  in funzione del dominio è angosciosamente  condannato nella martellata rassegna dei molteplici e sinistri ‘idola’ che oggi imperversano: “Il diosesso, Il dioepulone, Il diomaschera, Il diotivù / Dell'audience, Il dioassassino, il dioguerra” (Trentatré).

In questo quadro anche la funzione poetica sembra aver perduto il suo senso ed essere ridotta al silenzio dal trionfo della risibile triade ‘educativa’ imposta alle nuove generazioni: informatica, impresa, inglese: “Attardati tra le calli / I poeti / Silenzio immane / Oltre la siepe / Il nulla che l’animo travolge / Produzione efficienza consumo / È il patto / Informatica impresa inglese / E niente illusioni / Perché la poesia è morta”. (Trentaquattro) Contemporaneamente impazza la manipolazione di presuntuosi e ignoranti ‘mezzibusti televisivi’: “Nell’affanno i mezzibusti tv / Annunciano guerre” (Trentaquattro) e “I reality condannano i giornali / A editare bugie” (Diciannove). Emerge il quadro di un’umanità in rovina, ridotta in frammenti  tra loro incomunicanti, costituita da un’infinità di disperazioni individuali prive di speranza di riscatto: “Il clochard / Sotto il ponte / Che riappare improvviso e reclama // Il suo ieri negato / Il suo oggi sconsolato / Il suo domani ingarbugliato (Quattordici). L’esito allora non potrà che essere la negazione dell’altro in una feroce, intolleranza omicida o la negazione di sé nel suicidio cinicamente commentato dall’indifferenza altrui: “Di questi tempi è facile impazzire / Darsi fuoco / Buttarsi da un balcone / Mentre il deputato adempie ai suoi doveri / Tra banchetti e cene elettorali” (Quarantuno). Lo stesso ‘io’ individuale appare irrimediabilmente compromesso se “Qualche luce: la natura aggredita/ Si sottrae anche il sogno / Di chi / Un tempo urlava / “Io sono” / Ora / Ora”. (Trentotto). All’inferno dell’oggi non esiste allora alcuna possibilità di opposizione, alcun punto di svolta, alcun ‘principio di resistenza’? Forse qualche spiraglio di luce, qualche lacerto di speranza Biumi affida, per  quanto dubitosamente, alla natura che, se aggredita e violentata dall’uomo, pur ci  schiude la possibilità di uno sguardo positivo sul mondo. Dopo un violento temporale notturno, una ‘topos’ classico nella nostra tradizione lirica da Leopardi a Pascoli,  il mondo gioiosamente  rinasce: “L’indomani all’alba / L’acqua redime / La sua furia sull’asfalto / Respirare al nuovo cielo / Nel cuore lago ritrovato / Vanificando inganni // Anche il sole adesso / S’è levato”. (Ventitré)

Poeta eminentemente visivo (non casualmente in epigrafe alla silloge sono citati i versi dell’amico pittore Micharvegas), Biumi ricorre, nelle liriche più direttamente politiche,  a immagini potenti e cariche di espressività che ricordano Goya (Los fusiliamentos), Picasso (Massacro in Corea), l’espressionismo pittorico tedesco del primo Novecento che testimoniarono le stragi della Prima guerra mondiale (George Grosz, Otto Dix). Il ricorso a una prospettiva di rappresentazione a più voci segnalato dall’alternarsi della grafia  corsiva con quella a tondo, la mediazione frequente di un ’si’ impersonale che sostituisce la voce  diretta dell’io poetante, indicano l’impotenza della stessa volontà di testimoniare l’orrore. La disposizione grafica verticale dei versi, l’assenza di titoli (le liriche sono nudamente enumerate), conferiscono alla raccolta l’austerità dell’ epitaffio, dicono la severa necessità della denuncia, abolendo a qualsiasi orpello retorico; infine la sintassi nominale, il ricorso ad assonanze volutamente banali, ridotte spesso a un acciottolio di rime baciate, manifestano lo scacco: l’impossibilità di dare una qualsiasi coerenza all’irrazionalità presente nel mondo, la consapevole rinuncia a  un mistificante ‘sublime’, ma al tempo stesso l’impulso istintivo a ‘dire’ il male. L’unica, precaria, ipotesi di redenzione  riposa allora paradossalmente nella musica, nell’accordo di voci, nel canto poetico: “Ma il canto d’un rabbino / S’accorda ad un muezzin / In questa notte invernale che il gelo/ Ti offende / E un blues avanza nei corpi cadenzati / Di neri suonatori” (Trentaquattro).

                                          

Gianfranco Gavianu                                                                                                                                                                                              


L'ANIMA nella Poesia di Prospero Cascini fotografata attraverso la PROPRIA, a cura di Salvatore Monetti

  La poesia, in molte delle sue forme, è molto più di un semplice esercizio linguistico o di un passatempo estetico. Essa è da meditazione. ...