Ci sono sonni
esposti ai mutamenti e veglie che intensificano lo sguardo. Oltre l’approccio
del dire c’è un ritmo cadenzato che naviga in versi brevi assunti a struttura
verticale, nella composta essenzialità dei rimedi. C’è un muoversi sul suolo
non distratto che identifica una meta fisica da raggiungere attraverso il
sentire della percezione. In questo caso la meta è Santiago di Compostela e il
poeta/viandante Salvatore Smedile che con il suo “La volontà dell’ovest” ci
accompagna attraverso le tappe di un procedere e, allo stesso tempo, riassumere
l’esperienza rivolta a Finisterre, là dove l’orizzonte del mare comincia e la
fatica della terra finisce. Certo “le ore cadranno dalle tasche/ piene di
memorie/ che non si potranno/ raccogliere con una mano”; l’incontro scandisce il
repertorio dei frammenti colti dal poeta nel caleidoscopio di figure, correnti,
discese, soste, passaggi...”a volte tutto fugge/ senza lasciare tracce;/ a
volte tutto rimane/ senza che si perda nulla”. L’autore sembra non voler
limitare il suo dire alla necessità di un esito univoco ma, come nella migliore
tradizione dello spirito del viaggio, in realtà il cammino stesso, osservante e
pensoso, è già risposta e significato. Qui però sembra che un sottile strato
d’inquietudine rivolga la sua attenzione alla presenza del timore; quello di
confondere la caducità degli episodi con la frequenza insorgente della
pulsione; la separazione implica sensibilità della cura, tremito operoso, dove
le questioni dell’anima hanno estensioni impreviste, diciture incompiute, voci
apprese che sono già echi. “Nelle orecchie una voce/ che cerca di svegliarmi/
da un oblio che dura/ da una vita” scrive il poeta “all’arrivo sarà/ più
comprensibile/ questa opposizione”, ma è solo un auspicio che non inganna poiché
l’arrivo è sempre e soltanto un nuovo inizio. Ad un certo punto, nel libro di
Smedile, “il mare è nell’aria”: “Lo dicono le pietre/ i piedi, le scarpe/ i
volti, i profumi/ i rumori”. L’elemento, la sua grandezza accoglie e sembra che
davvero, come ha espresso in un suo titolo Giuseppe Conte, non si possa finire
di scrivere sul mare. Non può mancare, comunque, l’ansia metafisica del “come
tornare con la mente/ dove siamo stati con il corpo?/ Dove eravamo quando
ancora/ non eravamo noi?”. Forse potremmo osare dire che eravamo negli occhi
dei figli, i doni lungo il cammino sacrale, distaccato ed unito ai sussulti
delle domande che nutrono la poesia. Ecco perché, scrive Salvatore Smedile, “E’
ora di andare/ di tornare da dove siamo/ partiti”, in un ciclo fertile che ci
fa pensanti in tumulto, anche quando “sembra impossibile/ essere stati il
cammino/ che non abbiamo deciso”.
Andrea Rompianesi