martedì 2 maggio 2023

Prospero Antonio Cascini – Prospero Valerio Cascini, Lucanità saracena tra poesia e fotografia, Monetti Editore, 2022

 


 

La terra in cui si nasce è come una madre. Ce lo insegna il Foscolo in quel prezioso sonetto che inizia con “né più mai toccherò le sacre sponde”.  Ed oltre ad essere madre è anche sacra. Questi due termini di maternità e sacralità ben si addicono al volume “Lucanità saracena” di Prospero Antonio Cascini e Prospero Valerio Cascini. Non si tratta, notate bene, di una semplice e scontata linea encomiastica, come di solito avviene nella descrizione e rievocazione di un passato felice in un luogo idilliaco, soprattutto là dove si innesca il vernacolo o il vissuto in città lontane da quella natia. Si tratta bensì di un ritratto, amorevole certo ma non sdolcinato, in fotografie e poesie di Castelsaraceno. La responsabilità dell’impresa è dovuta a due cugini, Prospero Antonio Cascini e Prospero Valerio Cascini che si sono impegnati a raffigurare una civiltà antica proiettata nel futuro, una civiltà fatta di bellezza e tradizione, di passione e di memoria, di realtà e poesia. D’altra parte i due autori non sono nuovi ad operazioni di tal genere. L’uno, Prospero Antonio, ha nel proprio curriculum volumi e premi di poesia, l’altro, Valerio Prospero, vanta raccolte in vernacolo premiate e celebrate. Entrambi i poeti hanno la capacità di saper intrattenere il lettore e condurlo ad emozioni e riflessioni attraverso una versificazione che non si avvale di orpelli retorici ma si aiuta di icasticità e sensibilità. Un piccolo esempio è la lirica “La lucanità saracena” di Prospero Antonio. Notate il suo incipit accattivante:

“Dormirci sopra

in un anfratto innevato

tra un cirro argentato

e un bucaneve imbalsamato”

La lirica poi prosegue nell’evocazione amorevole e sincera del suo Paese dove “pendono nelle toppe le grosse chiavi / dei palazzi antichi”, dove “è il sogno di ognuno / che lascia il segno… / sul proprio selciato”.

Non meno incisiva è la lirica di Valerio Prospero, tutta legata ai suoni dialettali che sono un segno di ancestralità e di passione e che rievocano momenti topici della vita a Castelsaraceno (dalle feste religiose, come il Natale, ai gesti quotidiani come la compra vendita al mercato, o a figure tipiche del posto come commà ‘Ndumeta o Filice u Sinisaro). Nulla, come in precedenza sottolineato, di regionalismo encomiastico, ma momenti di vera ed autentica poesia esaltati dalla musicalità di un patois lucano saraceno, come ben delineato in questa lirica dal titolo “Puhisia” (Poesia)

“Fammila na puhisia e ch’ t’ costa.

Parole ‘mbastate ca parole a bella posta.

Ca nu sbendano a l’aria pi fa sputa,

ch’arrivano d’rett’ addun’ so’ binut’.

Rammila na puhisia

a voglio tene ‘ndu portafoglio

cum’ fosse a zita.

Parole ‘mbastate cu parole

pi tutt’ a vita.”

(Fammela una poesia e cosa ti costa. / Parole impastate con parole a bella posta, / che non siano insulse tanto per parlare / ma che arrivino dritto al cuore che le fece andare. / Dammela una poesia, / la voglio tenere nel portafogli / come una sposa. / Parole impastate con parole / per tutta la vita.)

 

 

Enea Biumi

lunedì 1 maggio 2023

Gianfranco Galante, Sati d’animo (e complici emozioni), Scriptores, Varese, 2023


 


    Con questa nuova raccolta di poesie dal significativo titolo “Stati d’animo” l’Autore prosegue quel percorso lirico intrapreso tanti anni fa e che ha prodotto sillogi quali “Di tal bellezza” o “Il pensiero soffia ancora”. Siamo dunque di fronte ad una rielaborazione interiore che non ha interruzioni di tempo ma senza soluzione di continuità offre al lettore le più varie impressioni di un viaggio tutto spirituale, originale ed intellettivo. In effetti, alcuni momenti di materialità sono presenti nel testo, ma si accompagnano sempre a riflessioni o ad emozioni (come sta scritto nel sottotitolo) che appaiono come complici perché seducono e affascinano.

    Lo stile, o come s’usa in certi casi dire, la penna è la stessa, ma cambia la prospettiva, un po’ per l’età (Galante ha iniziato la sua scrittura poetica in età giovanile - 1988) un po’ per le nuove esperienze che subentrano e spesso mutano animo e sentimenti. Ça va sans dire che la capacità esaminatrice dell’Autore si fa più raffinata e meticolosa. Il metro, rimanendo sempre sul cantabile dolce, ha una sua struttura rigorosa né si abbassa a compromessi accattivanti, mentre il contenuto si eleva a decifrazioni per nulla usuali o scontate.

“Sul mare d’ottobre

l’onda frange a prua

e invita il pensiero

a pace interiore.

Galleggia qui il senso,

cullato e graziato

con fare gentile

sull’onda del mare”

    In tal modo la natura assurge a protagonista e si allinea a vicende personali squarciando quel velo che a volte un Autore pone tra sé e il lettore ed identificando ipso facto quegli stati d’animo che si abbinano, verso dopo verso, in un alternarsi di meditazioni ed emozioni che calamitano su di sé l’attenzione e la commozione. Si tratta in fondo della vita, in ogni suo aspetto in ogni suo fondamento. Là dove l’unicità impone la sua comprensione per rendere più visibile ciò che ci circonda, come un drone che si innalza alto su di noi per filmare le cose e renderci più partecipi della bellezza e della fortuna di ciò che ci è dato.

“Stasera respiro poesia;

il giorno depone,

il sole sui clivi

illumina al rosso,

allunga le ombre

e trafigge il mio cuore”

    Se poi si desidera un approfondimento maggiore, si può constatare che un elemento prevale su tutto: ed è l’amore, in ogni sua forma (fraterno, amicale, matrimoniale). Un amore mai banalizzato ma nobilitato, un amore di cui soprattutto al giorno d’oggi se ne sente la mancanza, un amore trascendente la pura corporeità.

“C’è un amore che non c’è

Ma che vive dentro me;

c’è un cuor che so dov’è

e che sa che amore è”

 

Enea Biumi

 

 

 

 


sabato 18 marzo 2023

Adelio Fusé “Mosaico del viandante” (Book Editore, 2023)


 

C’è molto di concreto a cui si può credere già nell’apertura: lo sgocciolio, la pendola, il cartello, i chiodi, dove i dettagli emergono esprimenti; impongono l’ammiccamento riconoscibile adatto a farsi viatico all’insorgere di un tempo quale unità estatica; inoltre “placido e verticale si soddisfa/ il vostro cielomare”. E’ “Mosaico del viandante”, esito testuale di Adelio Fusé, a giudizio di chi scrive, una delle voci più significative della poesia italiana contemporanea definibile “di ricerca”. Qui s’intende sviluppare un diario in seconda persona singolare, dove però l’io e il tu sono profondamente intrecciati in un connubio che esplora in atto il filo conduttore temporale attraverso osservazioni del presente e recuperi dal passato in una sequenza cronologica sovvertita che annulla le distanze e colma gli iati. Fusé riesce a costruire sulla pagina composizioni nelle quali la solidità e l’efficacia profonda delle strofe e dei versi offrono peculiari opzioni imprevedibili nella sapiente tenuta della tempistica stessa di versificazione, quasi una partitura complessa capace di avvistamenti evocativi e stratificazioni analitiche, “il rito di una sola volta/ la sua custode/ e nel segreto che ti rimane/ ti attardi”; quasi un’epoca di echi che si propaga, un effetto di variazioni che si distinguono in cromatiche ed acustiche, una determinazione che include il coinvolgimento di luoghi che dimensionano misurazioni emotive e pertinenze dialettiche, incisioni occasionali ed episodi reclusi, attinenze all’uscita dagli svaghi nel ripristino lucido di un sentire sempre ubiquo: “ti riacciuffi a vent’anni con chi tu sai/ in una specie di notte perno/ da Montmartre planando sopra le luci/ di un cielo capovolto:/ il futuro emanava bagliori/ di sicura veggenza”. L’attimo recuperato dall’autore è evento reinterpretato alla luce delle vivificazioni frammentate e conduce verso l’esprimibile continuo della curva, figura appagante lo sviluppo appartato della direzione. Nella traiettoria dei versi non si esclude il possibile avvistamento dell’archè dei presocratici, il principio che determina l’individuazione di un’origine qui non dichiaratamente ammessa ma incombente nella stessa vocazione insita nel rinnovo dei moti, nel tracciato disegnato dalle vibrazioni dei termini. Adelio Fusé accosta la sensibilità del quesito alla fragilità dell’apparenza, tenendo costante il movimento o mutamento all’indirizzo del punto di domanda, quando la persistente   preparazione del segno comunica, con straordinaria perizia, la porosità consonantica della tessitura: “eco di conchiglia che si propaga/ condotto che non tace e tracima”. C’è un varco accolto che periodizza l’esito possibile, nel portendere un itinerario conoscitivo tale da dirsi anabasi per le molte implicazioni che sanno però sempre, nella tecnica dell’autore, darsi efficaci episodi letterali di una qualità dinamica sul piano che costruisce il rapporto costante di significante/ significato. Il mosaico incide, nella vocazione culturale dell’autore, quasi potesse trasmettere una forte sensazione di anelito all’incontro, all’avvistamento che è bisogno, medicamento per le ferite del vagare. Si percepiscono spazi aperti e dimensioni fisiche tra i versi, tentativi adulti di condensare la risposta interpretativa all’insinuarsi ardente delle assuefazioni. Ma anche cantieri e luoghi urbani determinano una topografia del percepibile: “concentra vita arruffata il parcheggio h 24/ e il maratoneta delle ere lì s’infiltra”; la mossa del viandante diventa allora voce di narrazione, distribuzione di accenni che praticano storie, e storie di elementi che si fanno profili. Sostanza, qualità, quantità, relazione, luogo, tempo, stare, avere, agire, patire...sembrano cogliersi tutte, le categorie aristoteliche, tra le vicissitudini dei versi, nell’afflato conoscitivo che li anima e che li rende via via più dicibili e narranti. Gli eventi collettivi drammatici si confrontano con i ricordi personali lieti in un intreccio temporale che si fa mite e catartico; sospende il giudizio intonando una tonalità piana, evocativa dove “là nel punto d’immissione otterrai/ il crocevia delle correnti”. Il viandante è tale in sintonia con un tempo interpretabile, e a tutto ciò alludono i riferimenti a Machado, Eliot, Saramago; nella costante attenzione che libera dalla morte, evolve verso la predisposizione all’ascolto mimetico, all’astrazione filtrante. Adelio Fusé rimuove le scorie del dettato statico, le rinnova e depura in un procedere interrogativo e pensoso che determina l’avvio del meccanismo linguistico, tessendo i collegamenti grafici di una scrittura che “aspiri alla meraviglia/ che sia nostalgia/ a incorrotte avvisaglie”.

 

                                                      Andrea Rompianesi                                   

domenica 12 marzo 2023

Laura Caccia “La terza pagina” - Book Editore, 2023


Possiamo osare scrivere di felicità? Solo parlando dal limite, forse, dalla frontiera. Allora dovrà costituirsi lo spazio della pagina; dove si compiono i riti inesausti di strappo e sedimentazione, fecondazione e ferita. Dove il pensiero poetante insorge, ponendo la radicalità del tracciato e del verso. Parti del foglio, seduzione binaria al cospetto degli elementi. Un avvio che apre a “La terza pagina”, opera poetica di Laura Caccia, esemplare esito testuale che propone un’architettura del verso davvero preziosa. La scrittura qui osa tendere alle radici lessicali, costruendo una figurazione sapiente di rara maestria tecnica. Ogni singolo esito scritturale coniuga una prima parte costituita da una versificazione per lo più in due strofe brevi, a cui fa seguito un passo che potremmo definire in prosa poetica, sviluppato in una formula orizzontale che utilizza l’interpunzione dello slash nei casi in cui è invece la prima parte a comporre un andamento prosastico. Laura Caccia evoca gli esseri felici descritti da Maria Zambrano, coloro che sanno superare i contrasti, le antinomie tra ragione e passione; sapendo che proprio la Zambrano si avvaleva di categorie specificamente agostiniane, come bene osservava, a suo tempo, Giuseppina Rando. Si cerca una terza pagina, allora, assente ma intuibile, perfino necessaria. E i tralci diventano versi, accenni di prologo come antivoce, contatto in bilico sul tempo, resti di un’epoca nell’avvolgente brusìo che si fa esodo, traccia, quasi equivoco, ma di una potenzialità evocativa aperta all’oltre. Diaspora è il passato, “fino a dove la parola/ era caos che non ha finito di/ scrivere il proprio/ nome né provare a voltarsi/ a specchio ustorio”; debilitano allora gli esterni “soprusi di senso”, atteggiano alla interposta persona, verso una puntualità ricevibile di cura. E la cura, per Laura Caccia, si trasforma in definizione strutturale della composizione nel suo proporre l’iniziale verticalismo dei versi innestati nella base a tessitura orizzontale, epicentro di condensazione episodica. I sussurri di vento, le tramature di luce sono tante e tali da portare dove “a metà di dissensi antisensi/ alla deriva ad un passo dal mondo/ si esiliano i nomi/ noi esiliati per primi/ eppure un nome non mente/ tiene a mente il nulla la luce”. La scrittura si fa viatico dentro la corposità di elementi e frammenti, tonalità e ricognizioni, ingorghi e braci, solchi e fondali. Le pensose articolazioni dei fonemi concedono un controcanto dicibile e avvolgente, dove il gesto rimanda alla dicitura capace di esplicitare nitidamente la parola esatta. Sembra di cogliere eco della voce di Friedrich Creuzer quando affermava che la natura parla all’uomo attraverso i segni, tali da essere percepibili solo da quanti li conoscono. Esprimendo la necessità, quindi, d’individuare quel codice profondo che concede l’opzione del passo, l’intuizione del tracciato. Ma avvalorando anche le inestinguibili fragilità delle percezioni che declinano l’usurante passività delle mancanze. Davvero qui la pagina è sciame; conduce alla possibile verifica di un itinerario esperto che “precipita dove manca/ la voce in grembo ancora”, e l’episodio costruisce l’avanzata delle ipotesi, l’irrimediabile esitazione di fronte alla conduzione del margine, della nota, della posizione acquisita dalla difesa speculativa verso l’evidenza di un concettualismo materico che veicola il pensiero. E il pensiero, nell’opera di Laura Caccia, si fa poesia che abita la pagina, quella terza, forse, invocata, cercata, esposta alle ferite, diurna e notturna allo stesso tempo, episodica e globale, condotta e sospesa, vulnerabile e intatta, esaustiva e incompiuta, “un malcelato amore/ quasi una leggerezza irrisolta”; i rischi esondano, le domande intensificano con insistenza la loro prestanza, accudiscono il timore e accendono l’indirizzo dello sguardo e dell’ascolto, improvvisano rimandi e tentazioni, stimoli che sembrano affrettarsi verso una meta, “raccogliere questo suono inavvertito che si tuffa a precipizio”; tutto assume una pratica ancestrale attraverso l’osservazione del dettaglio, del particolare che s’innesta nel dedalo del contingente, poiché l’evento è il farsi della poesia nella sua scansione, dove “il foglio ci somiglia” come l’abluzione artata ma cedevole nell’insonne turbamento, oltre le fedeltà abrasive, nell’inattesa rifrazione insaputa, nelle feste feriali, nelle seduzioni innocenti, in quella terza pagina ad esito dialettico che risuona perché l’insieme diviene poesia e la poesia, come scriveva Novalis, è il reale, il reale veramente assoluto. Quanto più poetico, tanto più vero.

                                              Andrea Rompianesi


martedì 14 febbraio 2023

Claudio Bossi, Il picasass sopravvissuto al Titanic: la storia di Emilio Portaluppi, Margaretha Frölicher-Stehli: Germignaga e il Titanic, Macchione Editore, Varese, 2021

   

Ho insegnato Storia per una trentina d’anni. So cosa significa, sia come docente che come studente, la noiosa ripetizione di date ed avvenimenti. Possedere, invece, tra le mani documenti e testimonianze reali porta sia l’allievo che l’insegnante a recuperare passione e interesse, soprattutto quando questi attestati repertano situazioni significative e di rilievo.  È il caso di questi due preziosi volumetti di Claudio Bossi dedicati all’approfondimento di vicende e personaggi legati all’affondamento del Titanic.

Non si tratta, come ben specifica l’autore, di romanzo e pura invenzione. Ma di ricerche sul campo, in archivi, in colloqui coi superstiti o con i loro parenti, in registri, talvolta nascosti talvolta apparentemente insignificanti, e tuttavia fonti di inequivocabile valore. In tal modo il lavoro risultante è un preciso identikit di persone, avvenimenti, oggetti ruotanti attorno a ciò che fu nell’immaginario collettivo del tempo la grande e inimitabile operazione Titanic.

L’autore ci confessa di essersi interessato ed innamorato fin da ragazzo al mistero di questo mastodontico, impressionante e, per i contemporanei, inaffondabile macchinario. Da qui la sua curiosità confluita nella ricerca storica che ha contribuito a fare di Claudio Bossi il massimo esperto in materia. Non per nulla lo stesso autore è consulente presso Raistoria, il che ci induce a valorizzare il suo impegno e la sua credibilità, nonché la sua esperienza nella ricerca al contributo di verità su ciò che esiste a proposito del Titanic.

Ma non è tutto.

Infatti, attorno alle vicende del Titanic, Claudio Bossi costruisce la storia di quegli anni (la nave colpì l’iceberg che l’affondò nella notte tra il 14 e 15 aprile del 1912). Anni in cui tutto appariva proiettato verso un futuro di felicità e di benessere, anni cosiddetti della belle époque, fulgida stagione di divertimenti e di scoperte inaudite, ricca di nuovi monumenti eretti per il benessere della società (uno di questi, appunti, fu il Titanic), anni in cui l’orrore della guerra era lontano, inesistente, sebbene gli egoismi nazionalistici e il costante riarmo ne facessero prevedere l’incipit imminente. Allo stesso modo il racconto di quegli avvenimenti non si ferma ad esaminare solo le circostanze esterne, bensì analizza la società del tempo, la rigida divisione in classi sociali, ad esempio (prima, seconda, terza classe), la consapevolezza di una svolta e di un procedere tecnico capace di rivoluzionare il futuro.

In questo lavoro di ricognizione e di autenticazione, l’autore è ben consapevole che non può giudicare con gli occhi del terzo millennio. E ce lo fa sapere. Ecco un altro pregio dello storico. La capacità di sottrarsi all’oggi per immergersi completamente nell’ieri, e nei preziosi documenti che ha sotto mano, perché è solo nell’ieri, e nelle pagine del tempo ritrovate, che può scaturire un giudizio neutrale e una visione obiettiva.

Inoltre, insieme con la grande storia l’autore ci racconta la micro storia: quella locale, quella di uomini e donne che per fortunata coincidenza riuscirono a salvarsi dal naufragio per poi narrare, da testimoni vivi, l’accaduto di quelle tragiche ore. Ecco allora che nascono i racconti del picasass, Emilio Portaluppi, di Arcisate, miracolosamente scampato al disastro e di Margaretha Frölicher-Stehli, la cui descrizione si amplia in una visione storica sociale di un mondo da una parte povero, poco considerato e desideroso di ascesa sociale, dall’altra ricco, industriale e all’apice.

Quello che qui mi preme mettere in luce non sono tanto gli eventi che hanno caratterizzato i due personaggi quanto la circostanzialità delle notizie che Claudio Bossi ci fornisce intorno a loro. Del picasass ci fa sapere il travaglio degli scalpellini della Valceresio, il loro desiderio di emigrare, la loro volontà di cambiamento; della signora Margaretha l’autore ricostruisce la genealogia sia individuale sia industriale. Conoscenze, queste, che si aggiungono a quelle già riportate sulla grande storia.

Pagina dopo pagina, quindi, noi veniamo informati di un mondo lontano un secolo, ma che sopravvive grazie al lavoro di storico, alla ricerca documentale, all’analisi e alla sintesi di incontri personali e di interviste mirate.

Per chi volesse saperne di più consiglio il sito web www.titanicdiclaudiobossi.com, in cui si possono trovare ulteriori informazioni riguardanti quel fenomeno di ingegneria (ma fu davvero così?) che rappresentò il Titanic alla soglia del novecento.

 

Enea Biumi


 

lunedì 13 febbraio 2023

Stefano Bandera – Adelfo Maurizio Forni, Il Rebus di Gallarate, Macchione Editore, Varese, 2022

 



       Rebus
è il soprannome che gli amici del Caffè avevano affibbiato a Vito Donato, un sarto di Gallarate, dopo che questi aveva preconizzato che l’Italia nel 1911 avrebbe dichiarato guerra alla Turchia. Ma rebus è anche la vicenda, complicata da districare, e che mano a mano va chiarendosi e finalmente risolvendosi, attorno ad una finanziera abbandonata nel retrobottega della sartoria dello stesso Rebus. E naturalmente è il medesimo Rebus che assolve il compito di detective accorto e minuzioso, per nulla intimorito da protagonisti politicanti ed economicamente facoltosi: insomma la crème gallaratese dei primi del novecento, affiancata e infiltrata da ambienti malavitosi. Ma da dove nasce la curiosità e per dir così il desiderio di investigare di Vito? Gli autori ci fanno sapere fin dalle prime pagine che Rebus è figlio di un carabiniere, da cui si intuisce che la sua predisposizione ad inquisire è innata e le sue abilità di zerozerosette sono dovute alla vicinanza con la militanza del padre, di origini messinesi, costretto a girovagare per un po’ di tempo da una parte all’altra dell’Italia e stabilitosi alla fine a Gallarate, quasi in Svizzera. Quel quasi in Svizzera lo sottolineano gli autori stessi dimostrandosi abili narratori in quanto trasmettono ai lettori, con nonchalance, direi, la mentalità di un povero carabiniere meridionale che dopo varie peripezie si ritrova a posizionarsi in una Stazione periferica d’Italia vicinissima al confine. Una prova di erlebte rede quasi in sordina che testimonia già da subito capacità e affinità letterarie.

La trama è quella tipica di un giallo che si gioca attorno al ritrovamento di una finanziera e che incuriosisce da subito il protagonista indiscusso, Rebus, fino a condurlo alla soluzione del caso in un intrìco di situazioni e personaggi che determinano i contorni della storia e la arricchiscono indubbiamente di sottolineature e sfumature che vanno al di là del racconto in sé e per sé, la cosiddetta fabula, per dilatarsi nell’esame psicologico, storico e sociale della narrazione. Bandera e Forni, allora, ci trasportano in un milieu, sicuramente lontano dal nostro quotidiano, ma ben delineato ed evidenziato da una geografia e da una ricostruzione storico ambientale tale da condurre il lettore attraverso atmosfere dimenticate e tuttavia presenti in documenti, documentari, relazioni, musiche e qualche filmato d’epoca. E, per chi è più anziano, il ricordo di qualche racconto dei propri nonni rivivrà, sicuramente, in queste pagine che non danno vita solo alla curiosità di conoscere come va a finire, bensì a individui realisticamente registrati e colti nelle loro attività. Va da sé che quei modi d’essere e di proporsi caratterizzano un mondo specificatamente provinciale, periferico, in una cittadina, ai tempi, relativamente campagnola, sebbene dotata di servizi che oggi chiameremmo d’avanguardia, in cui la lingua principale era ancora il dialetto, le abitudini si dimostravano ancora collettive, così come ancora vigevano al di sopra di tutti le principali autorità: sindaco, prete, maestra, carabiniere. Assai interessante è la coralità che ne sorte con la descrizione degli avventori del Caffè, del cortile che immaginiamo al centro di case di ringhiera e teatro di vari pettegolezzi, il ballo di fine settimana il ritrovo sistematico degli uomini al Caffè. L’atmosfera ed il colore di quel periodo viene offerta anche da particolari come il calessino, il baciamano, l’auto velocissima che sfiora i cento all’ora (e qui viene alla mente Marinetti ed il suo futurismo esaltante il movimento e la modernità), gli abiti fin de siècle, femminili e maschili, come la finanziera. Ma non è tutto. Perché in questo clima di belle époque vengono rimarcate pure le contraddizioni. Infatti alcuni protagonisti sono costretti a subire le umiliazioni di una indigenza che li porta ai margini della società (oggi si direbbe borderline) che pure li sfrutta, li umilia e quasi li dimentica o addirittura li condanna solo per la loro povertà.

Accanto a questo riquadro storico-sociale i personaggi vengono rappresentati in una ipotiposi che li rende reali come se uscissero dalle pagine del romanzo per presentarsi a noi vivaci e veritieri, pronti a colloquiare e a discutere col lettore. A determinare questa suggestiva percezione è il dialetto che aleggia qua e là, attraverso dialoghi e interrogativi, e che apporta colore e realismo. Il fascino di questo giallo, oltre all’intreccio che non dà un attimo di respiro al lettore, sta appunto nella rappresentazione plastica e iconica dei protagonisti immersi in una Gallarate che nasconde segreti di prepotenza, di prevaricazione, enigmi non sempre di facile estricazione, truffe, strozzinaggi, nonché omicidi mascherati da suicidio. È la Gallarate noir, celata ai più, ma individuata dall’abile Rebus che, coadiuvato dall’apporto dell’amico maresciallo Rosario Cartabellotta e dagli altrettanto amici Pierin Bell, Peppino Colombo, Cesare Lovati, Giacomo Rovetta, fra gli altri, riesce a portare a termine le sue indagini e a far arrestare i colpevoli. Ed è naturalmente il lato più oscuro della cittadina che, per il resto, ha una sua peculiarità di sapore periferico e tranquillo. Il tutto immerso in una nota circostanziata di colore rosa: l’amore per Angela che, nonostante le indagini, Vito non trascurerà mai di seguire ed amare, e che gli autori, conseguentemente, accompagneranno fino all’ultima pagina dove lo sublimeranno definitivamente. “[Angela] gli mise una mano dietro la nuca, lo avvicinò a sé e lo baciò sulla bocca. Pochi secondi, poi si staccò e lo guardò ridendo. «Ecco… adesso puoi parlare.»”

 Enea Biumi

 

venerdì 3 febbraio 2023

Gianfranco Galante, Il nobile ricco e il povero nobile, Macchione editore, Varese, 2022


 

La nuova fatica di Galante disvela le sue attitudini narrative e le intenzioni etiche cui sottopone i suoi testi. La sua capacità di raccontare storie viene infatti in soccorso al desiderio di sottolineare una coscienza critica atta a far riflettere il lettore su ciò che è bene e ciò che è male. All’interno di questo messaggio abbiamo la trasposizione iconica dell’attrazione musicale come forma sublime di arte e soprattutto di ascolto. Che significa trasmissione di valori concreti in un mondo che spesso dimentica il rispetto dell’altro racchiudendosi in prospettive meramente egoistiche che allontanano e segregano il diverso.

Nonostante il titolo che potrebbe far riferimento, ad un primo e superficiale approccio, ad una fiaba per adulti (Il nobile ricco e il povero nobile), il nucleo centrale del romanzo si concentra su fatti e personaggi immersi in una realtà storica, sociale ed economica che si sviluppa al termine della seconda guerra mondiale. Ed è proprio il conflitto appena concluso che innesca una serie di interrogativi attorno agli attori del romanzo che appaiono in toto nella loro scarna, ma motivata, esistenza in cui si intravedono contraddizioni, ripensamenti, salti nel vuoto, sogni e desideri, nonché soluzioni a volte felici e a volte incomplete, comunque sempre inerenti al proprio sentire ora sincero, ora menzognero.

La vicenda si colloca nella Baviera, ancor oggi locomotiva tedesca se non europea, ai tempi principalmente agricola e immersa in tradizioni ancestrali che stratificavano i rapporti sociali in cui le barriere erano ben definite e immobili. In tale immobilità ecco che si innestano ladrocini culminanti in un delitto. Ed allora la scrittura di Galante prende le redini dell’investigazione, si dipana in tanti rivoli indagatori: di fatti e di animi. Così il quadro che ne scaturisce è una visione a trecentosessanta gradi che incuriosisce il lettore e lo trascina in luoghi e avvenimenti come fosse seduto in una sala cinematografica a goderne le varie riprese. E si tratta di pellicole scandite in un sottofondo musicale che ne accentua il fascino e l’interesse.

Eccone un esempio.

“L’alba della fine di maggio fu foriera di tepore d’aria. La rugiada dei campi del sud della Germania irrorava, certo, ma altresì evaporava rapidamente formando una nebbiolina leggera. Tra i boschi, le colline e i castelli della Baviera un’aura di mistero avvolgeva tutto. E man mano che diradava il fumello nebbioso, splendente appariva la terra tutta avvolta d’un verde imperante. Bella, rigogliosa, vitale. E dopo le prime luci i raggi lunghi del sole poggiarono anche sulle guglie della Hellen Landhaus. La sua piccola popolazione cominciava ad essere operosa, tanto dentro la villa quanto fuori; nei campi, nei fienili e tra i cavalli. Anche il barone, quindi, e tutti gli altri si prepararono ad affrontare il nuovo giorno.”

Si noti, en passant, come, di primo acchito, dopo una descrizione oggettiva dell’alba, l’aver posto, a metà del capoverso, il predicato (appariva) prima del soggetto (la terra), dona alla frase un non so che di poetico che sottolinea l’atmosfera del mattino e scandisce, con un periodo nominale e con tre aggettivi delucidativi, il clima ed il paesaggio bavarese.

Allo stesso modo l’aver inserito, non solo nei dialoghi bensì nel racconto, alcune frasi o vocaboli tedeschi avvicina il lettore ai personaggi del romanzo e aiuta a convalidare, se ce ne fosse bisogno, l’attenzione di Galante per il particolare, nonché il suo studio teso a rendere nel miglior modo possibile il ritratto di un’ambientazione lontana da noi, certo, nel tempo e nei caratteri. Il tutto, comunque, in quella bilancia straordinaria che sa soppesare e ordinare il bene e il male, il corretto e lo scorretto, la bellezza e la mediocrità.

Così la narrazione finale raggiunge lo scopo prefissato. Ed ecco che, come in una sinfonia viene racchiusa nelle battute finali l’intera opera, Galante conclude a coronamento del romanzo il suo apporto etico nel termine più sublime – ed attuale – che possa esserci: pace.

“La Baviera fu culla di questa storia (…) Grazie ai nuovi cambiamenti geopolitici del dopoguerra, il barone abbracciò parte delle politiche nazionali come, ad esempio, incoraggiare lavoratori immigrati e volonterosi (soprattutto italiani e turchi) offrendo loro stipendio onorevole, aiuto per trovare alloggi, aiuti per la crescita dei figli, per la scolarizzazione e in qualunque cosa fosse possibile. (…) Rivolse le sue attenzioni anche al mercato estero e conquistò grandi parti di commercio in tutta Europa, ridonando così fiato alle casse della bella Hellen Landhaus, all’economia della stupenda Baviera e della Germania tutta; coltivando tempi di pace”.

 

Enea Biumi

Michele Prenna, Le parole cercate, Macchione editore, Varese, 2005

  UN REGALO DI PAROLE, MA NON SOLO È con vero plaisir che ho letto questa silloge di poesie regalatami dall’amico Michele. Veri e propri rit...