sabato 26 novembre 2022

Sergio Cicalò, Passionis – Passioni, Edizioni Cofine, Roma, 2022 PREMIO CITTÀ DI ISCHITELLA-PIETRO GIANNONE 2022


 

La silloge inizia con un’interrogazione che va ad approfondire il significato del linguaggio in un contesto di suoni consonantici e onomatopeici, tra allitterazioni e rimandi fonici, sottoponendo il lettore a soffermarsi per riflettere il valore del messaggio, di ogni messaggio, poetico: Ita ingùrti’ de sa bòxi su siléntziu” (Che cosa inghiotte della voce il silenzio). In questo passaggio lo scrittore traccia una linea di lettura che rimarca autorevolmente e sapientemente il pensiero di una comunità che ascolta e agisce di conseguenza, sottolineando che “su bùidu chi s’obèridi” (il vuoto che si apre) si colma attraverso “sa mandàda” (il dono), vale a dire, secondo la stessa spiegazione che ne offre l’autore, “il dono reciproco della tradizione sarda. Quando una fa­miglia avesse avuto di una derrata alimentare una quantità superiore al possibile consumo del momento (tipicamente carne di maiale, dopo aver ucciso l’animale allevato in casa, ma anche frutta o verdura), faceva dono del surplus ad altre famiglie legate ad essa dal vincolo de sa man­dàda, attendendosi di venire ricambiata in futuro.” L’annotazione è importante perché svela la base e le fondamenta dell’impianto dell’opera. Siamo di fronte ad una poesia che incarna la cultura di un popolo e di quella cultura si fa portavoce. Ne è testimonianza, senza dubbio, la seconda lirica della raccolta “Su nènniri” che mette subito a disposizione del lettore gli strumenti per una opportuna conoscenza e analisi. Si tratta, con il nènniri, di un rituale dalle radici molto antiche che trae la sua origine dal culto millenario di Adone (come annota l’autore). Secondo la tradizione sarda nel mercoledì delle ceneri, le donne devono preparare un vaso con dei semi di grano da far germogliare al buio. I semi vengono depositati su di un piatto con del cotone e vengono conservati al buio per cui i germogli nasceranno di un colore pallido. Questa pratica non è nient’altro che un simbolo che sta ad indicare, in ambito cristiano, la resurrezione di Cristo avvenuta dopo tante sofferenze. In ambito pagano, invece, il collegamento è dato dai rituali legati al dio Adone che celebravano la rinascita della natura in primavera. D’altra parte se il seme non muore sotto terra, non ci sarà nessuna fioritura, come sta scritto nel Vangelo di Giovanni. La morte in questo caso è solo temporanea. Ma ci sarà un’altra morte, quella definitiva, che non lascia spazio a ulteriori speranze, ma porterà lutto e lacrime: is ògus nòstusu funti dua’ làgrimas // chi èus arrennèsci a prangi.” (i nostri occhi sono due lacrime // che riusciremo a piangere). Per questo “sa fentàna” (la finestra) diventa luogo privilegiato per meditare oppure per farsene una ragione: “de cussu’ lògus innùi pàri’ / ca sa vida e’ suspéndia” (di quei posti in cui sembra / che la vita è sospesa) Dato questo contesto si fa più chiaro il titolo della silloge “Passionis (passioni)” in cui l’autore si propone di tracciare un iter di sentimenti e aspetti poliedrici che vanno dalle sofferenze di Cristo al travaglio di donne e uomini alla ricerca di un bene e di una serenità per se stessi o per i propri cari. In effetti il rapporto tra la passione di Cristo e la passione dell’umanità è strettamente legato e conserva una valenza universale. Il sangue di Cristo è quello dell’uomo, il piede di Maria che schiaccia il serpente è il piede di ogni donna che sconfigge il dolore. “Su pèi biancu de Maria asùb’ ’e sa cònca / de su calóru” (Il piede bianco di Maria sopra la testa / del serpente.) Così Gesù assume l’identità di un uomo qualsiasi perché su chi no bòlis biri / e’ su córpus de Gésus prèn’ ’e brèmis” (Quel che non vuoi vedere / è il corpo di Gesù pieno di vermi.) e la sua voce che grida dalla croce è quella di un uomo chi nèmus intèndidi” (che nessuno sente). Ma tra la morte e la vita la demarcazione è sottile, quasi invisibile. Così come è sottile l’ieri con l’oggi. Tanto che è necessario abbassarsi (cioè farsi piccoli, dimenticando se stessi) per ascoltare i vecchi, per sentire la loro voce e le loro storie. Non saremmo nulla ora se non ci fossero stati “is antìgus” (gli antichi). Ed ecco che il passato si salda al presente. Diventa testimone di ciò che siamo e che facciamo. Allora “Tòcat a si scarèsci / su chi sciéusu, // castiài bèni, ascutài.” (Bisogna dimenticare / quello che sappiamo, // guardare bene, ascoltare.) perché solo ascoltando riusciamo a capire, forse, ciò che siamo veramente. L’incontro con la tradizione diventa un incontro con la poesia che si fa, ipso facto, garante del sapere. Infatti:Su fuéddu chi circas dd’a’ cuàu / pòdit essi in su còru  // su pipìu ch’ìa’ domandàu / a nonnu sùu: poìta // no mi cantas a mèi puru / su chi cantas a sólu?” (La parola che cerchi l’ha nascosta / forse nel cuore // il bambino che aveva domandato / a suo nonno: perché // non canti anche a me / quel che canti da solo?) Come in un’orchestrazione sapiente l’ultima lirica si ricollega alla prima. La poesia è linguaggio, è lo strumento che fa vibrare l’animo riempiendo il silenzio, o il vuoto, di immagini e di sensazioni. La poesia travalica il tempo mettendo in corrispondenza episodi e persone lontane, miti e leggende, tradizioni e culture. Sebbene, alla fine, non ci sia risposta certa al dolore e alla morte, la poesia si ostina ad esserci, a seguirci, a renderci consapevoli e a porci pertanto continue interrogazioni che rimarranno senza riscontro: it’e’ custu bisóngiu / de iscrìri?” (che cos’è questo bisogno / di scrivere?)

 Enea Biumi

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