martedì 23 dicembre 2025

Giorgio Ghiotti, Due paradisi, Vallecchi, Firenze, 2025, € 12,00


Divisa in sei capitoletti la silloge “Due paradisi” appare come un chiarimento, passo dopo passo, di una giornata tipo del poeta in cui ogni vicenda diventa un rapporto con l’anima, ogni desiderio richiama una coscienza che deve sentirsi pienamente e attivamente coinvolta nella vita stessa, come una rivelazione di ciò che sta altrove, verosimilmente nascosto.

Tutta una vita attaccata addosso / come una resina, raccolta per la strada, / così la rada che svela ciò che è sotto / una città, che è attorno, è dentro.

Da qui la quotidianità che scardina tempi e dissolve ricordi – trasfigurazioni oniriche di una realtà vissuta e rivissuta anche in situazioni limitatamente erogene – per giungere ad una specie di epinicio che celebri i momenti trascorsi, le grida dell’oggi e il timore del domani. La necessità del racconto di un modo d’essere si trasforma in una doverosa inchiesta su se stesso. Molteplici sono le domande e sebbene non sempre si aprano a soluzioni, restano comunque auspicabili perché segnalano l’esistenza di un mondo organizzato a spezzoni dove l’individualismo cerca di ottenere il sopravvento. Forse a questo punto l’incertezza è la sola certezza del domani costruito su un ieri rivelatosi traditore e tradito: un amore latente delle cose e per le cose, degli uomini e per gli uomini.

Viviamo di abitudini segrete, l’uno / all’altro ignoti, come tra polvere / e vento le fasi remote della luna (…)

Nulla di noi / sappiamo fuori dell’agosto, io / e il mio giardino vivi al mondo / un’unica stagione, quella che non fa / mai notte (…)

L’immagine poetica si rinnova in costanti e perpetui trapassi dalla realtà ai sogni, dai desideri alle delusioni, in un fluire di versi che assommano ritmo alternato di rime, assonanze, enjambement. La strofa diventa una struttura espressionistica, una partitura che presenta cesure, pause e accelerazioni tali che indirizzano verso una lettura consapevole e attenta. È un procedere attraverso figure retoriche che suggeriscono rimandi intertestuali, dove non manca, come in ogni buon testo poetico, l’ironia amabile e leggera. In tal modo la poesia, nata come espressione di una rinnovata e riconquistata innocenza, trasforma l’infanzia, dandole un valore di serena beatitudine in contrapposizione al mondo adulto che sa offrire solo fragilità e mancanza di punti di riferimento perché disgregatosi in una sorta di liquidità.

Un vecchio patetico di trent’anni, / ecco a cosa si riduce / il precoce poeta acclamato / anche da dio. Ho sognato / per una notte intera, ora / mi resta soltanto / la timida realtà del giorno.

Allora ho iniziato a immaginare, a illudermi / a scendere in guerra col reale svolgersi dei giorni / a scrivere poesie. Ma il prima?

E tutto ha inizio e fine in questo dégorgement (mi si perdoni il riferimento enologico, dove l’enologo, naturalmente, è il destino) di una vita tessellata da difficoltà, scontri, incongruenze, piacevolezze, abitudini, improvvisazioni, amori. Rimane forse solo l’apparire, non tanto per sé, quanto per gli altri, oppure l’illusione di essere al centro del mondo. L’uomo avverte di essere irretito dalla sorte, trasportato in un mare in tempesta, seduto in una “piccioletta barca”, eppure fiducioso di non affondare.

Distrarre / ancora un poco la morte per darmi / da fare con la vita.

Forse le pagine si scrivono / con le briciole, mentre la vita / reclama intera la portata.

Stacca dalla punta a ogni boccata / la sagoma della stagione, me la riporta / in cenere un vento di memorie bruciate / già future, monito e missiva spedita / da uno che spaventosamente mi somiglia.

L’autore, partendo da alcune situazioni tattili (la ringhiera, una via, una città, il mare) arriva, quasi come in un sogno, al paradiso, per inerzia di cose o per un destino inaspettato: epigono di una vita a volte tormentata, a volte subita, fatta propria solo nel momento finale della consapevolezza. Resiste comunque in sottofondo per tutta la raccolta quell’interrogativo kantiano: “Che cosa possiamo fare?” La risposta è dettata dall’esperienza dell’imprevisto, inquietante oppure rasserenante, che si aggancia alla nostra esistenza come fosse una pellicola da osservare in continuazione, teso tra la quotidianità di una cornice metropolitana e il teatro agreste (reminiscenza virgiliana) che tanto ci addolcisce e ci consola.

È in certe ore immeritate in dono / (è giugno, è a Roma, è dopocena) / che si offre – spalancandosi la scena / sull’affresco sconosciuto d’un viso // il paradiso.

Una poesia di questa natura mostra il contatto e il richiamo interiore della vita esterna, e una necessità meditativa che parte sempre, o quasi sempre, da una vicenda o da una sensazione che si traduce in verso. Qui c’è il senso di una costruzione metodica e meditata, fedele a una sorta di sentimento mistico del reale in cui le immagini escono dall’onirico e si fanno specchio dell’anima. Allora la storia personale mette tra parentesi l’io e si innalza a diventare storia di tutti, proprio come dovrebbe essere l’autenticità della poesia.

Poco riposa nel tempo / come il tempo che ci vide uniti, / compagni, testardi o più miti / di quando – in affanno – abbiamo creduto / poter inseguire anche noi / la nostra parte di mondo / in questa parte di storia.

 

Enea Biumi  

  

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