Divisa in sei capitoletti la silloge “Due paradisi” appare come un chiarimento, passo dopo passo, di una giornata tipo del poeta in cui ogni vicenda diventa un rapporto con l’anima, ogni desiderio richiama una coscienza che deve sentirsi pienamente e attivamente coinvolta nella vita stessa, come una rivelazione di ciò che sta altrove, verosimilmente nascosto.
Tutta una vita attaccata
addosso / come una resina, raccolta per la strada, / così la rada che svela ciò
che è sotto / una città, che è attorno, è dentro.
Da qui la quotidianità
che scardina tempi e dissolve ricordi – trasfigurazioni oniriche di una realtà
vissuta e rivissuta anche in situazioni limitatamente erogene – per giungere ad
una specie di epinicio che celebri i momenti trascorsi, le grida dell’oggi e il
timore del domani. La necessità del racconto di un modo d’essere si trasforma
in una doverosa inchiesta su se stesso. Molteplici sono le domande e sebbene non
sempre si aprano a soluzioni, restano comunque auspicabili perché segnalano
l’esistenza di un mondo organizzato a spezzoni dove l’individualismo cerca di
ottenere il sopravvento. Forse a questo punto l’incertezza è la sola certezza
del domani costruito su un ieri rivelatosi traditore e tradito: un amore
latente delle cose e per le cose, degli uomini e per gli uomini.
Viviamo di abitudini
segrete, l’uno / all’altro ignoti, come tra polvere / e vento le fasi remote
della luna (…)
Nulla di noi / sappiamo
fuori dell’agosto, io / e il mio giardino vivi al mondo / un’unica stagione,
quella che non fa / mai notte (…)
L’immagine poetica si
rinnova in costanti e perpetui trapassi dalla realtà ai sogni, dai desideri
alle delusioni, in un fluire di versi che assommano ritmo alternato di rime,
assonanze, enjambement. La strofa diventa una struttura espressionistica, una
partitura che presenta cesure, pause e accelerazioni tali che indirizzano verso
una lettura consapevole e attenta. È un procedere attraverso figure retoriche
che suggeriscono rimandi intertestuali, dove non manca, come in ogni buon testo
poetico, l’ironia amabile e leggera. In tal modo la poesia, nata come
espressione di una rinnovata e riconquistata innocenza, trasforma l’infanzia,
dandole un valore di serena beatitudine in contrapposizione al mondo adulto che
sa offrire solo fragilità e mancanza di punti di riferimento perché
disgregatosi in una sorta di liquidità.
Un vecchio patetico di trent’anni,
/ ecco a cosa si riduce / il precoce poeta acclamato / anche da dio. Ho sognato
/ per una notte intera, ora / mi resta soltanto / la timida realtà del giorno.
Allora ho iniziato a
immaginare, a illudermi / a scendere in guerra col reale svolgersi dei giorni /
a scrivere poesie. Ma il prima?
E tutto ha inizio e fine in
questo dégorgement (mi si perdoni il
riferimento enologico, dove l’enologo, naturalmente, è il destino) di una vita
tessellata da difficoltà, scontri, incongruenze, piacevolezze, abitudini,
improvvisazioni, amori. Rimane forse solo l’apparire, non
tanto per sé, quanto per gli altri, oppure l’illusione di essere al centro del
mondo. L’uomo avverte di essere irretito dalla sorte, trasportato in un mare in
tempesta, seduto in una “piccioletta
barca”, eppure fiducioso di non affondare.
Distrarre / ancora un
poco la morte per darmi / da fare con la vita.
Forse
le pagine si scrivono / con le briciole, mentre la vita / reclama intera la
portata.
Stacca
dalla punta a ogni boccata / la sagoma della stagione, me la riporta / in
cenere un vento di memorie bruciate / già future, monito e missiva spedita / da
uno che spaventosamente mi somiglia.
L’autore,
partendo da alcune situazioni tattili (la ringhiera, una via, una città, il
mare)
arriva, quasi come in un sogno, al paradiso, per inerzia di cose o per un
destino inaspettato: epigono di una vita a volte tormentata, a volte subita,
fatta propria solo nel momento finale della consapevolezza. Resiste comunque in
sottofondo per tutta la raccolta quell’interrogativo kantiano: “Che cosa
possiamo fare?” La risposta è dettata dall’esperienza dell’imprevisto,
inquietante oppure rasserenante, che si aggancia alla nostra esistenza come
fosse una pellicola da osservare in continuazione, teso tra la quotidianità di
una cornice metropolitana e il teatro agreste (reminiscenza virgiliana) che
tanto ci addolcisce e ci consola.
È in certe ore immeritate
in dono / (è giugno, è a Roma, è dopocena) / che si offre – spalancandosi la
scena / sull’affresco sconosciuto d’un viso // il paradiso.
Una
poesia di questa natura mostra il contatto e il richiamo interiore della vita
esterna, e una necessità meditativa che parte sempre, o quasi sempre, da una
vicenda o da una sensazione che si traduce in verso. Qui c’è il senso di una
costruzione metodica e meditata, fedele a una sorta di sentimento mistico del
reale in cui le immagini escono dall’onirico e si fanno specchio dell’anima.
Allora la storia personale mette tra parentesi l’io e si innalza a diventare
storia di tutti, proprio come dovrebbe essere l’autenticità della poesia.
Poco
riposa nel tempo / come il tempo che ci vide uniti, / compagni,
testardi o più miti / di quando – in affanno – abbiamo
creduto / poter inseguire anche noi / la nostra parte di mondo / in questa
parte di storia.
Enea Biumi

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