giovedì 17 aprile 2025

Carlo Zanzi, Corpi imperfetti, Macchione Varese, 2025, € 15,00

 



Il romanzo di Carlo Zanzi “Corpi imperfetti” si dipana in una doppia scrittura: una in cui il protagonista si narra in prima persona, l’altra in cui le vicende vengono rappresentate in terza persona. Ciò che lega i due momenti narrativi, apparentemente così diversi tra loro, almeno nella forma, è la ricerca di un perché sulla fragilità umana. Mauro si interroga sulla propria decadenza, si arrovella per trovare una spiegazione al suo malessere fisico che diventa immediatamente anche malessere morale, mentre l’autore, scegliendo una narrazione in terza persona, mette in luce una serie di gesti, situazioni, linguaggio, che portano il lettore a riflettere sulle astenie, sulle incertezze, sulle frustrazioni che offre la vita. Non è nuovo, Zanzi, ad una narrazione costruita sulla debolezza umana. Ma in questo nuovo romanzo le domande rimbalzano più prepotenti e trovano un’esplicita risposta nel dialogo con Dio. Non è facile raggiungere un equilibrio sentimentale qui in terra. Non è facile non soggiacere al dolore per la perdita di un figlio. Ma la speranza di un ritrovarsi in un possibile aldilà dà forza e continuità ad un’esistenza che sente la propria fine imminente.

Chiaramente non si tratta di un romanzo a tesi. La vita è vista e descritta in maniera realistica. Zanzi non pretende alcun insegnamento, né ci obbliga a determinate condivisioni. La constatazione dell’imperfezione umana rende il racconto più vicino al lettore e lo invoglia a riflessioni che forse in periodi recenti non si è più usi ponderare. Tra l’altro, la presenza del covid, pur non essendone la conduzione principale, rende più concreta e attuale la considerazione sull’inconsistenza e la fragilità dell’uomo. Anche l’amore che i due giovani protagonisti perseguono ha un andamento oscillante e a volte decisamente incerto. Oltre alla presenza della pandemia, l’autore fa un quadro della “sua” città, Varese, che risulta perfettamente parallelo e intrinseco alla vita dei suoi personaggi. Varese è presente nei pensieri, nei gesti, nelle abitudini dei protagonisti, viene descritta, non dico nei minimi particolari, ma nella verità di una realtà urbana vista a tutto tondo: con le sue vie, le sue chiese, le sue piazze, i suoi pregi e i suoi difetti. Non è un caso se in uno degli ultimi capitoli Zanzi parli del funerale di Maroni. In tale contesto non possiamo omettere che lo scrittore è anche autore di un Valzer par Varés (parole e musica) che lo ha reso celebre in città.

Nel capitolo finale, come fosse un postscriptum, troviamo un’annotazione personale. L’autore abbandona le vesti dello scrittore per indossare i panni del figlio. Ritroviamo così un omaggio a sua madre Ines, redatto a pochi mesi di distanza dalla sua morte. Omaggio che comunque rimane nel contesto del romanzo: una meditazione sulla fragilità umana nel commovente ricordo della scomparsa di una persona cara. È il desiderio di un figlio che non vuole dimenticare il valore e l’importanza della propria madre, come “un bisogno di annotare i ricordi di lei, un tentativo estremo e ‘inutile’ (eppure potente) per sentirla vicina.”  E anche in quest’ultima riflessione ci si sente la labilità di ciò che l’uomo vorrebbe e la sua inutile, seppur immensa e vigorosa, inanità.

Enea Biumi


martedì 15 aprile 2025

Carlo Banfi, Lo svizzero del Canton TI, Giuliano Ladolfi Editore, 2025


 Con questo romanzo Banfi ritorna alla descrizione del suo mondo rurale per farne un elogio spassionato, sincero, certo, ma non nostalgico, bensì realistico e attuale. L’incipit stesso ci immette immediatamente in un’atmosfera contadina che si materializza attraverso un colloquio ideale con una donna di nome Oniria.

“Oniria, tu vuoi che io ti racconti come sono questi miei giorni infiniti di sole, con la terra riarsa e la tenue ombra che ti dà sollievo nel pomeriggio infuocato. Cammino coi piedi scalzi nell’erba da poco rasata e senti la frescura che ti tonifica, ma manca l’ardire di affrontare il campo aperto, regno di luce.” (…) “Oniria tu vuoi che io ti racconti di questa continua attesa e intanto il sole arde e divora le cime anzi che precipitino nel freddo squallore dopo il crepuscolo.” “Ed è già sera, la mia sera.”

In questo approccio, che possiede un sapore e una forza poetica montaliana, possiamo scorgere una specie di correlativo oggettivo che ci indica il percorso. I giorni di sole sono senz’altro momenti di vita, mentre la terra riarsa fa pensare alle difficoltà che si incontrano giorno dopo giorno, in cui solo una tenue ombra dà sollievo al pomeriggio infuocato.  Allo stesso modo l’incedere a piedi scalzi non fa altro che sottolineare una contrapposizione esistenziale: da una parte l’ardire e l’ardore nell’affrontare il quotidiano, dall’altra la fatica di fronte a problemi spesso irrisolvibili, che creano disagio e paura di fronte alla realtà. La continua attesa, invece, mi fa pensare ad una aspettativa di un futuro migliore prima che il male o il dolore ci assalgano (anzi che le cime precipitino nel freddo squallore). Mentre la sera, non è necessario sottolinearlo, riprende la metafora foscoliana della morte.

Non vorrei però forzare la mano ad una interpretazione allegorica di un romanzo che è espressione di realismo e di attualità, per quanto sentimentalmente affine ad un inno amorevole e poetico nei confronti della natura. Oltretutto il nome scelto per l’interlocutrice ci fa intravedere come il racconto sia a mezzo tra desiderio e sogno. E ci indica un auspicio: che il desiderio si avveri ed il sogno ci permetta il ritrovo in un locus amoenus, ricreato attraverso la scrittura in un’ideale di vita in sintonia con la natura stessa, scandita dalle stagioni e dalla storia.

Un primo elemento, quindi, che emerge immediatamente, al di là dell’approccio lirico riscontrato, è l’incontro con la “Grande Madre”, la Terra. Un incontro sostenuto da sincero affetto, come atto dovuto di riconoscenza. Un incontro di devozione e ammirazione per i doni che Cibele ci offre, per il prodigio dei frutti che ne sortono, per la necessità di un sostentamento vitale, per la visione pacifica, ancorché difficoltosa, di animali che interagiscono con gli uomini.

Spesso Banfi, nei suoi colloqui, mi parla del suo “eremo”, una specie di personale e solitario rifugio. Che non è soltanto una costruzione materiale, vale a dire casa fatta di sassi e mattoni con allegato terreno agricolo e boschivo, bensì edificio (e artificio) letterario, innalzato in un mondo protetto, in cui si fondono l’Arcadia teocritea, le Bucoliche virgiliane, e le Mirici pascoliane, il tutto riportato alla contemporaneità in cui i ricordi d’infanzia della campagna del basso varesotto (Caronno Pertusella), il lavoro quotidiano (insegnante a Luino), la storia (la liberazione del ’45 attraverso le lotte partigiane) e l’attualità (la recente pandemia) si fondono in un unicum corpus. Si tratta, per intendersi, come una indispensabile voglia di equilibrio - forse impossibile - tra la ricerca della serenità personale e le tragedie della Storia, analizzate in forma profonda e adeguata.

D’altra parte l’autore non è nuovo a questo procedere. Si possono ricordare a tal proposito i suoi precedenti romanzi. Infatti, “Il capanno”, “La via Palestrina”, “Linea Cadorna”, offrono contenuti che si avvicinano prevalentemente ai due filoni individuati in “Lo svizzero del Canton Ti”: la Natura e la Storia. In tale contesto il suo sguardo si inoltra nei dettagli, si fa investigatore e accanto ad una panoramica oggettiva della campagna costruisce soggettivamente sentimenti, proiezioni, inibizioni, storie vere o veritiere di una umanità spesso sconvolta ed oltraggiata, quasi sempre succube di un destino contrastato e crudele. Così l’incontro con la storia antica (quella del ‘500), con la tragedia della seconda guerra mondiale, con l’idillio campagnolo, diventano occasione per uno sguardo ai comportamenti d’oggigiorno. Oggi, ci suggerisce Banfi, gli istinti dei giovani e la loro educazione vengono deviati sull’effimero e su un inconsistente edonismo, che non portano a nulla, non lasciano impronte e spesso sono delinquenziali e ammorbanti l’esistenza comunitaria.

L’autore è consapevole di non avere a disposizione la bacchetta magica, ma nel contempo non vuole rinunciare alla denuncia. Di fronte alla crisi economica che ci attanaglia non pone soluzioni, ma verifiche. Esistono problemi di immigrazione ed emigrazione che non vanno affrontati con vuoti slogan che non concludono nulla. Anche perché, molto probabilmente, l’uomo in sé non è capace di appianare le cose. È necessario, dopo aver fatto i conti con il dolore fisico e con l’angoscia morale, che l’uomo da solo non potrà risolvere, andare oltre. Per questo Banfi introduce l’argomento religioso attraverso l’incontro, ad esempio, con le Romite del Sacro Monte. O l’accenno a papa Francesco che indica la corsa al denaro come uno dei peggiori mali dell’umanità.

Ecco allora che davanti a tutta una serie di problematiche odierne, la vita rurale si trasforma idealmente in un luogo di serenità e pacifica convivenza, un ultimo angolo di mitica “età dell’oro”, momento di sopravvivenza idilliaca, tipica delle utopie letterarie. Tuttavia non possiamo estraniarci o rinchiuderci in torri d’avorio. Per l’intellettuale la ricerca della verità è un fatto incontrovertibile. Irrinunciabile. È per questo che in “Lo svizzero del Canton Ti” le descrizioni sono realistiche, vivaci e sempre dosate e raffinate. Banfi, in ultima analisi, non rinuncia al concetto di αλήθεια (verità) che unito a quello di ασυχια (tranquillità) mi fa comprendere anche la sua poetica. Questi due parametri possono avere una funzione catartica nel suo romanzo. Sicuramente lo sono nella vita.

“Eri tu, Oniria, volto di sogno, augurio di ogni bene e felicità.”

 Enea Biumi


domenica 13 aprile 2025

Marilyn Bobes, Cancellare il tutto, Genesi Editrice, Torino

 

Lo scrittore e poeta uruguaiano Mario Benedetti, discettando in un breve saggio sulla poesia cubana del secolo XX,(1) annotava – cito parafrasando – come la maledizione consumistica avesse relegato la poesia ad un articolo che non si vende. Di conseguenza gli editori si rivolgono soprattutto al mercato del romanzo, indirizzandogli, e spesso imponendogli, contenuti e forme che non lascino dubbi sul guadagno economico. Di fatto però il povero poeta viene liberato da qualsiasi imposizione, sia ideologica che stilistica, per cui, a questo punto, può riversare la propria sensibilità su ciò che più gli aggrada e gli detta il cuore. Per quanto riguarda la poesia si tratta evidentemente di un fattore positivo. La marginalità, infatti, in cui essa viene rinchiusa le permette una libertà incancellabile e insopprimibile. In questo clima di apparente emarginazione, una specie di borderline letteraria, si situa la silloge poetica “Cancellare il tutto” di Marilyn Bobes, poetessa contemporanea di origine cubana. Sottolineo l’aggettivo apparente e il termine emarginazione, perché ad una disamina più approfondita i suoi versi appaiono come tante frecce destinate a imporsi in un panorama culturale più esteso e ricco. Versi “pesanti” i suoi: e “pensanti”. Pesanti perché affondano nelle radici più profonde del nostro essere uomini. Pensanti perché creano un circuito di situazioni, domande e riflessioni che non lasciano spazio al pressapochismo o all’adiaforia. “Né tu né io sappiamo / cosa c’è / dietro i suoni imprevedibili del crepuscolo. / Noia? / Sterilità?” “Perché salire di quota / in un verso strisciante / come la spiritualità / dei tuoi contemporanei?” “Da tutte le parti echi / nei vicoli in rovina / di questa piazza assediata”. Mi sembra quasi di assistere a quelle partiture musicali di Edgar Varèse o Luigi Nono che nel disordine delle note richiamano l’ordine delle cose. La comunicazione pertanto diviene più intensa ed emotivamente certa, confluendo e affluendo nel vasto e misterioso mondo della poesia. Non è difficile notare come in ogni verso si respiri un senso di libertà, un desiderio di emancipazione da ogni struttura soffocante la propria personalità, una voglia di resilienza ad ogni tipo di costrizione e sottomissione. “Non li convincerai / con pochi / sintagmi / vinti / dall’abuso”. Non si tratta, attenzione, di mera protesta. La scrittura della poetessa cubana converge in una direzione in cui è necessario apprendere per riconoscere se stessi, per trovare la propria dimensione e identità, per sapere se esista o meno una vocazione cui appellarsi. “Arrenditi ora / all’ipotetica disgrazia / di avermi preso in considerazione”. Insomma, ella chiede e si domanda, anche se nessuno risponde, e risponde e si risponde, sebbene nessuno domandi. “E tu non sei tu / e io non sono io. / Nemmeno / caricature / delle nostre passate / identità”.

“Cancellare il tutto” mi riporta alla mente il finale apocalittico della Coscienza di Zeno, la constatazione che “la vita attuale è inquinata alle radici”, la riflessione sull’uomo occhialuto che costruisce ordigni tali da distruggere ogni cosa perché si possa finalmente ritornare alla salute-salvezza tanto auspicata.(2) La silloge della poetessa cubana suggerirebbe quindi, in un primo momento, di cancellare tutto ciò che è stato, cancellare il male ed il bene, cancellare l’immagine del passato e del futuro, cancellare la storia personale e collettiva, affinché si giunga ad una laica epifania attraverso una rigenerante purificazione totale. “Abbiamo dimenticato / che il mondo è un inferno / ma desideravamo / la possibilità del paradiso / dopo il purgatorio.” Tuttavia, al contrario di quanto farebbe supporre il titolo ad una prima e superficiale lettura, i suoi versi diventano una ricerca della verità, un discrimine tra illusione e realtà, tra fantasia e concretezza, ribadendo in maniera icastica che la salvezza – di se stessi e del mondo – è una incessabile ricerca, un controllo meticoloso del possibile e dell’impossibile. “Né la bellezza era verità / né la verità nasconde / quel pezzo di cielo / che ci avrebbero promesso”. Ed ecco, allora che in questo contesto la parola assume un’importanza suprema per la sua autenticità e inalienabilità. Marilyn Bobes stessa lo sottolinea più volte. La parola, spesso evocata e idolatrata, diventa non solo parte della vita della poetessa, ma pure della nostra. Ci accompagna. Ci imprigiona. Ci distrae. Ci umilia. Ci ridicolizza. Ci aiuta. Ci salva. “Contaminati / da quei versi mortuari / che ci conducono alla morte, / i versi volano / come frecce / e si conficcano con certezza / nel corpo / di San Sebastiano. / Cosa farai dopo il Greco, / Van Dyck / e Botticelli?” Nel coacervo di segni, apparentemente indecifrabili, la poesia svela il suo significato. L’incontro-scontro con la parola accompagna dunque l’esistenza della poetessa. Direi che in fondo la sublima in un confronto sempre rigoroso, accorto, mai debordante, ma nello stesso tempo ironico e sagace. Cancellare il tutto, quindi, assume anche il significato di un allarme. Intenso. Vicino. Umanamente incalzante.  Quell’allarme è come un grido che si dilata, prolungandosi nel tempo. Si ammanta di disperazione. E non cessa di farsi sentire.

Con questa raccolta Marilyn Bobes palesa apertamente un modo di percepire la vita e la letteratura sicuramente autentico, nonché pressante, invitandoci a riflettere sulla effettiva entità dell’essere e della scrittura. L’autrice tende a scoprire una realtà mutevole nel tempo, osservata dai suoi differenti punti di vista, mai univoca né statica. La silloge infatti contiene, sia pur in sottofondo, una fiducia nella forza delle idee che in modo arduo possono penetrare a fondo la realtà per renderla il più possibile comprensibile. “Tre volte moriamo. / La prima, / quando ce ne andiamo. / La seconda, / quando restiamo, / e la terza, / quando ritorniamo”.  La poetessa constata che il mondo è costituito da “vittime di differenti crepuscoli”, mentre le parole risultano “prigioniere”, “definitivamente spezzate”, “surreali”. La poesia smaschera dunque le falsità. O per lo meno, ci prova. Anche perché non sta nelle mani del poeta la chiave del tutto. Anzi. Il poeta vive appartato in luoghi in cui le “parole non possono decifrarci”. Sembra a volte una situazione schizofrenica, questa, ribadita dalla poetessa nei versi: “È utile / perdere la lotta / alcune volte. / Per comprendere meglio / quegli esseri geniali / che di solito chiamano / schizofrenici”. Il richiamo alla schizofrenia mi rimanda implicitamente a quei poeti ed artisti che si sono visti depauperati della loro personalità e della loro stessa esistenza. Penso ad Alda Merini, Dino Campana, al cubano José Jacinto Milanés. E l’elenco potrebbe proseguire. Tuttavia credo che per essere artisti un po’ di follia non dovrebbe mancare.(3) Perché comunque è necessario il distacco, l’alienazione sia pur controllata, la spregiudicatezza e l’incoscienza dell’esplorazione. Sulla stessa linea si pone la poetessa cubana, là dove insinua “Le dissociazioni / che vanno e vengono / sono te e le altre: / tutte convivono con te / nella molteplicità del tuo inconscio”. Risulta evidente che, alla fine, il significato sigilla il significante, la materialità si fa rada, quasi surreale, diventa suono e la fonicità così ottenuta (anche nella traduzione) offre spunti di immaginazione ed intuizione che collimano alternandosi in momenti di tangibilità da una parte e di astrazione dall’altra. Il verso sembra raccogliersi attorno alla possibilità di riflettersi nel tempo, di imporsi nell’oggi e nel domani. Infatti, “Noi, quelli di una volta / abbiamo ceduto al tempo / e restiamo bloccati nella storia”, “La Storia non è finita / ma la morte dilaga / senza che venga un profeta / a smantellare le utopie”. Certo, non è detto che la storia sia ancora Magistra vitae. La storia forse non insegna più. O non ha mai insegnato. “Il futuro non è stato / quella sfera magica / che usavamo un tempo per predire / le nascite”. I paragoni diventano però impossibili perché “raccontare racconti / renderebbe interminabile / questa dubbiosa favola”.  Nonostante ciò, al di là della “paura del fallimento”, al di là “dell’ignoranza”, perché “solo / i droni del subconscio” possono “ignorare la tua dimenticanza”, “continueremo a leggere Borges / morendo a Parigi / sotto il diluvio tecnologico”. Tutto questo ontologicamente si traduce nell’esistenza quotidiana e insopprimibile della poesia, sebbene ci sia sempre chi si ostina a perseguitarla, a chiuderle la bocca, perché “la poesia / è un esercizio inutile”. “Quando si racconta ciò che accade / proclami la tua assoluta sfiducia / negli effetti della poesia”.

Quella Parigi tecnologica evocata e velatamente invocata ci conduce ad una serie di domande. È forse più utile la modernità? Più desiderabile la tecnologia? Più indispensabile Facebook, tweet, un account? Meglio la “borsa di Louis Bouton”, “i vestiti di Mango”, “le febbrili passerelle di Chanel”? Non c’è risposta. Solo il silenzio. Un silenzio che cade sulle cose, sulle persone, sugli avvenimenti. Il silenzio cui l’anima della poetessa aspira, pretende, incalza. È nel silenzio che si ricrea l’umanità. Questa umanità distrutta dalle guerre, dall’egoismo, dall’arrivismo. “Niente può essere più necessario / di questo silenzio / per recuperare l’antica chiarezza / di quel volto enigmatico”. “Hai scelto il silenzio / meglio per te / non dire / quello che sai”. Si tratta di una introspezione duplice e importante. In questo rientrare in se stessa la poetessa ci rivela innanzitutto i suoi dubbi e le sue incertezze, in secondo luogo ci stimola a riflettere sulla sua fatica e fede poetica: un lavorio intellettuale che vuole riportare al centro dell’attenzione e del dibattito la condizione dell’uomo moderno. Una condizione comunque di per sé difficoltosa e contradditoria: tra la grandezza del passato, l’indeterminatezza del futuro e la supponenza del presente. “Tutti sono tornati alla fine, / ginocchia a terra / permanenti / o eterni /o virtualmente feriti / e come se il ritorno / fosse un patto d’amore / con il passato”. Che scopo avrebbe allora parlare di poesia al giorno d’oggi? La poesia è comunicazione. E oggi, come mai prima d’ora, comunicare non è mai stato così facile, semplice e naturale. Il paradosso però è proprio questo: che nell’epoca della massima comunicazione (in un secondo mi collego con l’amico di New York o di Singapore, posso vedere in diretta quello che accade dall’altra parte del mondo) si innalza all’infinito il muro dell’incomunicabilità. Spesso il dialogo è tra sordi. Ecco la denuncia, la segnalazione di una incapacità esistenziale di rapportarsi agli altri. “I sentieri tortuosi / di tanti personaggi / ti impediscono il contatto”, “Abbandonare la poesia. / Da ciò dipende / la realtà / o quello che sembra già troppo”. Se ne deduce quindi che ognuno opera nella propria torre d’avorio e ascolta solo se stesso. Sento in ciò come una eco di quei versi di Quasimodo in cui il poeta siciliano ribadiva la solitudine e la morte.(4) In conclusione, riusciamo o possiamo comunicare nell’ansia del domani, nel nulla del futuro, nel rifiuto del passato? Ne abbiamo la forza, il coraggio? Si tratta di una serie di domande cui Marilyn Bobes non risponde. Lascia a noi la soluzione, se soluzione esiste. “Noi, / gli analogici / (conversatori e sentimentali) / testimoniamo le decapitazioni”, “Lo schermo diventa una chimera. / E non abbiamo nemmeno / un account su Facebook / che ci trasformi / in quei semplici agnelli digitali”.

Attraverso un uso intelligente e accattivante di porsi davanti ai propri versi, la poetessa cubana ci trasporta in un viaggio che ci conduce ad una interpretazione critica e a volte intuitiva della realtà circostante, costituita da personaggi, avvenimenti e criticità irrisolvibili all’apparenza. E non si tratta di un discorso solo personale, ma universale: coinvolge tutti noi, come del resto nell’universalità si risolve spesso la vera poesia. Il suo linguaggio, infatti, è capace di suscitare emozioni, arrivando al cuore del lettore, e riuscendo ad instaurare con lui un dialogo, o per lo meno ad aprire una breccia importante. Determinanti a questo punto diventano gli accenni biografici che trapelano ora in un verso ora in un altro, come fossero led accesi per la nostra comprensione e complicità. “Scrivi solo / brandelli della tua pelle / strappata / nel corso della vita”. Non disdegna, la poetessa, di mostrare la propria vanità che tuttavia umilia e quasi dileggia come fattore negativo. “Sei famosa / come i crisantemi sulle tombe”, Abbiamo esaurito uno scrigno di parole / e quelle parole tornano / ma mai / per stabilire / inutili compromessi / né effimeri contratti”, “Strappino dalla mia fronte / quella corona / che non mi ha mai sistemato. / Immeritata del resto, / appassita, / su questi simboli sparsi / di insubordinazione”. Alla fine il confronto tra sé e la scrittura diventa il parallelo per un dibattito sul mondo e su ciò che accade intorno a sé. “Quando la poesia ritorna / non rassomiglia / a quella che è stata / né rinverdisce / la triste ingenuità / con cui pretendevi / cancellare il tutto.” Si intravede in questa raccolta poetica come una rivelazione: la ricerca del proprio io che sembra lottare con i suoi versi, mutando in continuazione circostanze e visioni. Ma proprio in virtù di tali fattori, che possono pure considerarsi come tanti desideri inespressi, l’epilogo non può che essere eticamente inapprensibile: “Voglio che la mia vita / sia un atto riverente”. Assistiamo quindi ad una specie di labirinto dove mistero, arbitrio, aspirazioni, confessioni delineano uno spirito che non si accontenta mai. Ma si tratta di un labirinto che non è mai fine a se stesso: un labirinto ossimoricamente aperto, che comunque non vuole fornire un unico modo – e giusto – di interpretazione dell’esistenza. L’opera rimane accessibile all’intuizione del lettore, alle sue emozioni, alla sua cultura. L’invito, forse sotteso, è quello di non considerare la realtà come appare, ma di appropriarsene in maniera critica, con proprie idee e proprie considerazioni, nella consapevolezza di dover sempre e comunque indagare: il tempo, i giorni, la natura, la vita e la morte. “Per quanto tu abbia letto / i migliori poeti del mondo / sarai solo la migliore per la tua famiglia / e qualche altro ignorante / che non abbia letto Borges, / che cerca nelle tue parole / qualche leggera somiglianza / con quello che nemmeno tu riconosci: / il testo / che un giorno hai voluto scrivere / prima di aver letto Borges”.

 Enea Biumi

             (1) In “Biblioteca Virtual Miguel de Cervantes”, www.cervantesvirtual.com.

(2) “Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po' più ammalato, ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie”. Da “La coscienza di Zeno”, Italo Svevo, Dall’Oglio, Milano, 1976.

(3)  Il rapporto esistente tra arte e pazzia viene segnalato anche da Sigmund Freud in una pagina della sua Interpretazione dei sogni. Il sogno che lì si cita è questo: una giovane donna si trova all'Opera. È una rappresentazione wagneriana durata sino alle sette e tre quarti del mattino. In tutta la platea vi sono dei tavoli dove si mangia e si beve. Suo cugino, che è appena tornato dal viaggio di nozze, siede a uno di questi tavoli con la giovane sposa; accanto a loro c'è un aristocratico. Di lui si dice, molto apertamente, che la giovane signora se l'è portato con sé dal viaggio di nozze, pressappoco come dal viaggio di nozze si porta a casa un cappello. Nel centro della platea si trova un'alta torre (La cosiddetta torre dei pazzi, in tedesco Narrenturm), che ha in cima una piattaforma, circondata da una ringhiera di ferro. Lassù in alto sta il direttore d'orchestra, che ha i tratti di Hans Richter; egli si aggira ininterrottamente dietro la sua ringhiera, suda copiosamente e dirige da lassù l'orchestra, disposta intorno alla base della torre. La donna è seduta con un'amica in un palco. La sorella minore vuole porgerle dalla platea un gran pezzo di carbone, con la motivazione che lei non sapeva che l’opera sarebbe durata così a lungo e sarà ora tutta gelata. L'uomo esasperato e nella furia assalito dal terrore suggerisce l'immagine di un animale ingabbiato. La citata torre dei pazzi (Narrenturm), quindi, sarebbe un ossimoro retorico: unione sintattica intima di due concetti contradditori in una unità, che rimane caricata di una forte tensione. In questo caso il più alto (l'espressione artistica) e il più basso (il manicomio): l’ispirazione e la pazzia. Si tratta di una antitesi che ricorre frequentemente in mistici e asceti: la musica del silenzio, la solitudine musicale di San Juan de La Cruz, per esempio. Attualmente Narrenturm (la torre dei pazzi) antico manicomio di cui allude Freud nell'analisi del sogno, è divenuto museo anatomopatologico dell'Ospedale Centrale di Vienna, ubicato in Hallerstrasse, 9.

(4) Ognuno sta solo sul cuor della terra, / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera.

giovedì 3 aprile 2025

L’UNICITA’ DELLA LUCANIA FA INNAMORARE LA PUGLIA

 


A Ginosa Sabato 29,nella splendida Masseria STRADA, in una sala col camino acceso, alla presenza di un pubblico numeroso e qualificato, si è parlato della silloge” L’UNICITA’ DELLA LUCANIA: un approccio fotografico e poetico”. I lavori sono stati coordinati dalla professoressa Rossella Galeota, che  ha dato il benvenuto a tutti i presenti, appassionati di poesia, al sindaco Vito PARISI, alla dottoressa Antezza Valeria, all’editore Monetti e all’autore P. Cascini, ricordando come questa idea sia nata a Marina di Ginosa frequentando lo stesso  lido e godendo lo stesso fresco (ombrelloni vicinissimi). 

Il sindaco Parisi ha portato il saluto dell’amministrazione e si è soffermato sul concetto di cultura come volano di sviluppo salutando il poeta Prospero Cascini come COSTRUTTORE di Paesaggi. Appassionata la relazione di Antezza  che ha chiesto, a gran voce, la contaminazione dell’ESSERE LUCANO, ricordando a se stessa la sua conoscenza della Lucania e come la vicinanza della nostra cittadina con MATERA ha sempre favorito lo scambio di valori e servizi. Interessante l’analisi poetica delle poesie di Valerio e Prospero Cascini  da parte di ANTEZZA che ha ribadito …. che Valerio vede con gli occhi del Bambino e Prospero torna indietro nel suo poetare al mondo dell’infanzia, della nipotina, della primina… con lo stesso entusiasmo…. di essere stato giovanissimo con Valerio alla primina  e alle scuole elementari, e alla vacanze castellane! 

L’editore  Monetti ha ricordato il percorso del testo, la sua originalità (mettere insieme poesia in lingua, in vernacolo e foto)  ha ricordato il coinvolgimento del consiglio regionale di Basilicata, - il cui Presidente dell’epoca Carmine Cicala dichiara nella sua prefazione” una identità che può essere espressa solo sulla base del patrimonio culturale, che, come istituzioni siamo tenuti a custodire e valorizzare” E’ una opera - ha concluso l’editore - che apparterà sempre al patrimonio culturale della Basilicata.


IL Coautore Prospero Cascini, nelle sue conclusioni, ha ringraziato il Sindaco e i suoi assessori presenti (DANIA SANSOLINO e DOMENICO GIGANTE), i coniugi STRADA per la collaborazione offerta, gli amici di Laterza, di Ginosa  e gli amici venuti da Bari.

Si è congedato leggendo una poesia-preghiera indiana: amami, ma non fermare le mie ali se vorrò volare / non chiudermi in una gabbia per paura di perdermi/amami con l’umile certezza del tuo amore ed io non andrò via/ e se sarò in un cielo lontano  ritroverò la strada del tuo pensiero../e se sarai con me ti insegnerò a volare/e tu mi insegnerai a restare.

Le poesie in vernacolo sono state declamate da P. CASCINI, quelle  in lingua da R. GALEOTA, da I. BARDINELLI e da V. ANTEZZA e da D.SANSOLINO   

L'Autore dell'articolo è Prospero Cascini

   


mercoledì 5 marzo 2025

Danila Di Croce “Dove ancora non siamo nati” (Puntoacapo Editrice, 2024)


Elevazione e, nello stesso tempo, rarefazione. Un divenire che s’infinita... sono parole di Ivan Fedeli, prefatore dell’opera “Dove ancora non siamo nati” di Danila Di Croce. La possibilità di espressività opaca, termine ibrido, non è motivo di difficile accesso ma, anzi, pregio nel momento in cui ciò deterge da simulacri riprodotti e apre invece a riferimenti imprevisti. Il riemergere, dunque, è anche nella poiesi ulteriore, nuova o almeno rinnovata, quando l’accadimento è cogliere l’alta priorità del fare, del decidere, come rifuggire le distrazioni, focalizzandosi invece sulla praticabilità delle tregue, dei ritrovamenti oltre i profili usuali. “Certo, quel punto/ frustra attese e illusioni, ma si impianta/ sulla retina e rinasce di dentro...”; attraversare intonazioni che responsabilizzano gli espedienti franti e ricomposti nell’aggrumarsi dei retaggi. Il salto quotidiano, per Danila Di Croce, è volo ma volo di strada, di limite e dolore. Se l’imprevisto incalza, tende agguati nel mimetico, ci confronta con le attese estenuate, “fulminea la detonazione/ oltre il muro dell’evidenza/ ha già pietrificato il volo”. Ancora l’attenzione qui si rinnova e conferma la natura sostanzialmente conoscitiva della pratica poetica; codice a inoltrare la richiesta impellente della traccia generativa come e più di un’analisi attraverso la quale la compostezza strutturale dei versi si coniuga con la prudenza del dettato. No, davvero il rischio non è l’opaco, semmai il suo contrario, poiché il destino insorto dell’evocare il luogo, quello appunto dove ancora non siamo nati, è di per sé sito ubiquo, bifronte, tendenzialmente equivoco. Di Croce allora osa tentare la tenerezza dello sguardo compositivo che si fa premessa; attinge alle risorse esposte nella condivisione oggettiva ma interpretata, come solo può esserlo ogni confronto con una ipotesi di realismo. “Si corre in silenzio, ché il fiato/ non basta a dire la fatica/ o lo slancio e il traguardo/ non è un nome da gridare”; come l’insistenza di un confronto collettivo con l’incompiuto che resta parte e sintomo della dispersione dinamica che disegna tessere e mietiture assorte. La solitudine è quindi “randagia” ma, o forse proprio per questo, sostiene “il canto nuovo dell’estate”, quando il linguaggio cerca il suo senso nel farsi, nel dislocarsi autentico e condotto attraverso le forre delle perturbazioni terrigne. Allora qualcosa s’accende, compone evidenze d’inciampo, impressioni aperte, “un cielo bianco di assenza e di niente”, come la capacità lieve di concentrare nei versi una sorta di riproducibilità materica inoltrata verso l’esegesi violabile attraverso voli, appunto, che conducono la tracciatura delle urgenze sospese. In Danila Di Croce la poesia vuole aggirarsi nella direzione di un’ apertura verso le cose, verso le rinascite (nascere è forse sempre un rinascere), sviluppando ipotesi di relazione tra gli opposti, vegliando nelle atmosfere della notte. Una diversa gravità insinua il senso dell’acquisizione ma anche della dispersione; Hegel parlava della capacità di sostare nel negativo, nella contrapposizione che contribuisce alla molteplice sintesi di altro esito. “Si accorgono spesso le notti/ che tutto sviene il nostro cielo/ e che quaggiù deraglia pure il vento” dicono i versi dell’autrice, quasi a riportare quelle sensazioni accostate al senso di una nostalgia franta che può essere presa d’atto di una identità da comporre nella complessità biografica del mosaico policromo attestante la nostra tramatura. E ci saranno fondi di storie e di segreti, di nomi e nodi, inviti e abitudini, soste e risalite, così serviranno giorni e strade inesauste per difendere il ruolo e l’anticipazione di ciò che detiene bellezza, quasi un riverbero che la poesia ritrova e raccoglie, ricrea nella dimensione della risorgenza, dopo le pause esitanti del ricordo. Può esserci forse un’intesa di nomi che incrociano le intenzioni stesse ben sapendo, come scritto da Daniele Mencarelli, che sia di ieri o di oggi, nulla c’appartiene.

                                                                     Andrea Rompianesi


 

sabato 25 gennaio 2025

Laura Caccia “Le voci insorte” (Book Editore, 2024)


Parla di voci la citazione da Paul Celan che caratterizza l’esito poetico di Laura Caccia, “Le voci insorte”. Qui siamo posti di fronte, innanzitutto, al complesso e ricco rigore formale che determina sempre tutta la qualità stilistica dell’opera poetica dell’autrice. Laura Caccia si adopera per abitare lo spazio della pagina in formule attinenti ad un approfondimento non solo fonetico ma anche specificamente visivo nell’architettura testuale. E’ un procedere davvero “a corda di vento”, oltre indefinibile nulla, attraverso sussurri che divengono ombre a confronto con l’insinuarsi lucido di stati d’animo in attesa, nello scavo continuo verso la presa d’atto minata dai percepiti residui di una partitura composita e in bilico tra caduta e salvezza. La sezione iniziale confida in una strutturale compattezza di poesie in forma di poemetto prosastico a decrittare l’evolversi lento dei possibili esoneri; come l’evidenza solcante il terreno accidentato delle ancorate condivisioni. Non c’è arpeggio disadorno ma confronto esprimente il farsi non ladra di sabbia, per citare Margherita Sergardi, ma “farsi ladra di suoni tutta la notte a fuoco d’inferi spifferi/ non darsi pace e niente la schiena attorno al suo orizzonte””. Le voci sono tutte e nessuna; ritornano trasformate in venti, in stirpi canore, in azzurri e varchi, sbavature inerti, sillabe e appunti, soccorsi che rievocano accostamenti imprevisti, frammenti nominali paratattici, riporti di episodicità minimale ma svelante. La scrittura di Laura Caccia, magistrale per tenuta, concede già nella seconda sezione, l’aprirsi di una tessitura che si dilata graficamente sulla pagina a voce esplicita in versi asimmetrici e spazialità divaricanti le tracciature stesse nella più attenta estensione. C’è allora un tentativo di sintattico diradamento che comporta e include la possibilità di movimento nel testo, quasi un’applicata opzione di concretizzare l’uso della pausa grafica in accezione sospensiva. Così “cresce sui rami la voce che era/ nostra sfiora marzo e mani i loro suoni // mortali a dissipare a ogni angolo di strada” quali sviluppi restii a mostrarsi senza prima tentare di colmare almeno nella parola esatta le distanze e le notti che Laura Caccia definisce “contromano”. Una sintassi del travaglio procede e delimita il perimetro dell’esprimibile, là dove ogni confine è indicazione di ciò che a quel confine sta oltre, tanto che l’estrema varietà di forme strutturali fa sì che il testo possa assemblare trabeazioni felicemente efficaci, disegnate sempre in una misura complessa e articolata. Forse una sintassi avvolta dall’insidia di uno scavato immanentismo che si concentra sull’opzione filtrante il reale; un reale pensato non nel dato stesso ma nella sua interpretazione come “ogni etimo muto” od “ogni pausa sfollata”, a porre l’attento distinguere le peculiarità materiche alla foce degli enigmi e delle forre, tra crepe e figure, corpi e tracce, bordi e archi, l’assiduo e compreso desiderare quale passaggio “nel tempo debole/ quotidiano neppure il vizio a fondale una parola/ potrebbe e ciascun brandello”. A’ rebours, davvero, rivisitando i passi in sezioni strutturate secondo schemi testuali sempre diversi, inseriti in una prospettiva che compie il tracciato conoscitivo attraverso la composizione strofica ad estensione e contrazione, come possibili eventi capaci di scandire osservazioni, ipotesi, ritorni “tra le periferie degli occhi/ sonnambuli nei/ turni delle notti al guado”, anche “nel sangue tra cronache di oppressi”. Ci sono strofe a forma di terzina o quartina irregolari poste a specchio asimmetrico con accenni di distici, quasi uno scalare e porsi nella successione di nomi di natura in una composizione panica: “tutti i mattini i pensieri/ screpolati non è/ il primo nome che si fa parola” quando poi “ogni crepa d’alba/ in contumacia pone un freno/ al suo esondare// nel farsi chiaroscuro che/ slabbra l’approssimare della luce/ agli orli delle cose”, con inoltre ritorni di parole chiave. Aspetti che riguardano una particolare qualità di equilibrio; “perché un corpo sia stabile è necessario che abbia almeno tre punti d’appoggio che non si trovano in linea retta” scrive Thomas Bernhard nel suo “Correzione”, e allora gli appoggi saranno in una base testuale che diviene ogni volta esito composito di progetto, determinazioni che la parola traccia in una formula espressiva che continuamente insorge. L’esperienza assidua si dimensiona anche nella conduzione dei segni grafici: “/ ospita a rovescio il suo migrare mondano /” e lo slash interviene a comporre ulteriori confini che aprono al dopo. O ancora la sorte, l’inquieto destarsi del dire “come è potuto accadere che ci siano cose/ a cui non abbiamo dato voce”; oppure le ceneri che si strutturano in compatti blocchi linguistici quali possono essere i brani in prosa poetica o poemetti in prosa che mantengono sempre una consistenza ritmica. Il lavoro di Laura Caccia si chiude poi come una fioritura di mappe inesauste, similari a teorie di note in partitura evocanti il nostro esserci contemplato e combattuto, “dove insiste è poco dire/ un tale irriparo che a farne nido niente è metafora”, attraverso quella “musicalità” che non ha nulla da spartire, per citare ancora Celan, con quella “melodiosità” più o meno imperturbata.

                                                                  Andrea Rompianesi


 

venerdì 10 gennaio 2025

Adelio Fusé “Di chi sono queste insonnie” (Piero Manni, 2025)


 “Conobbi Aldous Canti nel buio di una grande stanza. Il casolare verso cui eravamo diretti si serviva della campagna per fare il vuoto intorno o avveniva invece il contrario?” inizia così l’opera di narrativa “Di chi sono queste insonnie” di Adelio Fusé. Già emerge il quesito che l’autore pone alle coabitazioni delle differenze, delle incompiute alternative, salvezze e perdizioni, percorsi attraverso ammissibili opzioni. Fusé esprime la sua capacità letteraria, la sua potenzialità creativa verso il linguaggio qui domato in un rigore narrativo, nella costruzione di un passo rafforzato dalla persistente attenzione alle solidità evidenti, ai particolari da cogliere nella strategia in bilico tra luce e ombra, orma e assenza, profili che abitano le nostre più intime domande. Quella di Fusé è una partitura che ogni volta ci interroga, stimolando il nostro porci di fronte alle cose, la nostra inesauribile ansia di recupero di passioni per lo più perdute o mai compiute. “Ciò che è definitivo si lascia maneggiare facilmente ma nello stesso tempo si propaga come un’eco”; come la scrittura, quella che sospende, avverte, fluisce, avvolge, inquieta, lenisce attraverso un cammino che analizza il movimento, il realizzarsi in atto. L’approccio contempla una ossessione che si determina nella figura di Aldous Canti, scrittore dalla personalità potente, nello stesso tempo carismatico e assente, appartato e invasivo, quasi distrattamente impegnato nella realizzazione di un nuovo romanzo che possa, in qualche modo, ripetere il suo unico precedente successo. Una sorta forse di alter ego è poi Manlio Roveda, agente letterario che lo insegue nel suo vagare verso un approdo costituito dalle terre di Galizia a ridosso dell’Atlantico. “La strada, intanto, si allontana dall’oceano, si contorce, si raddrizza, ritorna sulla costa, sconfina di nuovo all’interno, sale, scende, risale, si avviluppa, si srotola, ora viziosa ora pigra”, proprio ancora come la scrittura stessa nel suo farsi. Così avviene, nella considerazione di Fusé, quella peculiare lotta con le parole nella specificità di osservazioni e distinzioni qui rappresentate da percorsi espressi in margine, quali assorti e planati su emissioni esprimibili, il saper distinguere le acque dell’oceano da quelle di un fiume o saper percepire il senso della dilatazione sull’orizzonte. La scommessa scritturale è ancora nel margine della pagina dove tutto compie l’esegesi del particolare che s’insinua tra i retaggi delle ancorate maniere in ragione di dubbio e domanda. Ricerca, allora, nel suono visivo e nell’immagine sonora, nelle insonnie, appunto, attribuibili all’io molteplice, quello voluto e quello subìto, attivo e passivo insieme, diacronico prospetto di una partitura interpretante, di una molteplicità di anime a confronto con il mistero degli eventi. Il fatto e la parola in un connubio autoriale opposto all’incuria della dimenticanza, auspicio invece del recupero di una specificità responsabile. I luoghi ospitano passaggi evolventi in riflessioni, attenzioni, negli spazi galiziani, con il percepire le vibrazioni, le sonorità che ricordano alcune atmosfere della baia di nessuno modulate da Handke, o certe messe a fuoco reinterpretanti gli elementi oggettivi che richiamano la visione del Palomar di Calvino. I vocaboli possono costituirsi in una vera e propria inondazione, interminabile e patologica, galleggiante, inoltre, tra le colorazioni ibride di albe decifrate da progetti che non escludono tutta la complessità delle interrogazioni civili. La combinazione di ciò che è vissuto e di ciò che è pensato comporta una formula che completa individualità e personalità tra ciò che è stanziale e ciò che è nomade. Fusé concentra sulla pagina uno statuto a monologo serrato dove, ad un certo punto, la figura di Aldous Canti si confronta con la malattia e con le sue implicazioni, attraverso una grata di successioni espressive che si trasformano in flusso linguistico in sé stesso riflessivo, così come evocante snodi esistenziali. Estenuato passo accumulante scorci di visuale introspettiva nominante il genere intimistico condotto alle soglie di una determinazione etica. Il testo stesso diviene, infine, quel romanzo auspicato che necessitava di una sintesi comunque parziale che raccogliesse però le interpretazioni; sapendo, ci dice Adelio Fusé, che “i sogni sono una forma d’insonnia. E alcuni sogni più di altri”. Così come il compatto senso della ricerca si distribuisce nei praticati sentieri della costruzione letteraria.

                                                                                   Andrea Rompianesi

Carlo Zanzi, Corpi imperfetti, Macchione Varese, 2025, € 15,00

  Il romanzo di Carlo Zanzi “C orpi imperfetti ” si dipana in una doppia scrittura: una in cui il protagonista si narra in prima persona, l’...