Opera poetica stratificata, densa e meditativa
recensione a cura di Vincenzo Capodiferro
«“Icone di un viaggio” di Gianfranco Gavianu è un’opera
poetica stratificata, densa, meditativa, frutto di una lunga esperienza
esistenziale, intellettuale, spirituale. Ogni poesia una tappa, ogni sezione una
stagione della coscienza, ogni verso un’indagine sulla memoria, sul tempo,
sull’identità e sull’illusione del significato. È un viaggio psichico ed
educativo che attraversa infanzia e maturità, ideologie vissute e disattese,
amori e apparizioni, dolore e tenerezza …» scrive Massimo Gherardini nella prefazione.
Il poeta nelle “archeologie psichiche” descrive “antitesi
annichilenti”. Archeologia ci fa pensare a Freud, che paragonava il lavoro
dell’analista a quello dell’archeologo. L’archeologia psichica rimanda a Jung,
agli archetipi dell’es ancestrale, unico. Antitesti ci fa pensare a
post-hegeliane sintesi irrisolte: non tutte le storielle della vita finiscono
in “E vissero felici e contenti”.
E tu, felice felce, nel tempo inane e vuoto
deridendomi sicura ti radichi, t’avviticchi, gioisci
e poi sprofondi in torbidi sogni d’amore-umore.
Il tempo è una pagine vuota, la storia è un foglio bianco
che noi riempiamo con le nostre guerre, come diceva Hegel. La felicità umana
come una verghiana nave “Provvidenza” sprofonda nel mare dei sogni d’amore, ove
“il naufragar m’è dolce”. La poesia di Gavianu si dimena tra meta-poietico e
pseudo-sonetti.
Fummo e siamo fissità in moti illusori
o momenti gioiosi che anelano al più luce.
Siamo eleatici frammenti di quell’essere che s’asconde e che
anela perennemente ad uscire alla luce del giorno:
E quindi uscimmo a riveder le stelle.
La poesie di Gavianu riecheggia una forte eco
esistenziale ed esistenzialista che rimbomba nelle casse armoniche celebrali
con richiami dissonanti d’ogni tipo: letterari, filosofici soprattutto, o
semplici richiami, flash, frammenti mnestici che si ricompongono come puzzle di
manufatti archeo-psichici. L’armonia esteriore, fonetica, s’intreccia con
reconditi significati, con morfemi e “logemi”, che riportano a strati latenti
della psiche. Le poesie di Gavianu vanno rilette, non si capiscono subito: è
come ripercorrere la corteccia di un tronco vivente, o una sezione geologica,
ove si scorgono le varie fasi, o stadi concentrici, le vite che ripopolano
l’esistenza, che è banale nella sua conformazione, ma nella sua essenza mira
all’autenticità. Questa ricerca di autenticità si riflette in una
versificazione densa, a volte scoscesa, che si aggrappa a brandelli di sistemi.
Sen’altro i suoi versi invitano ad una profonda ricerca nell’in-sé,
l’iperuranico mondo interiore, ove queste Idee/dee guidano la nostra Volontà di
vivere (wille). Il poeta ci richiama alle radici dell’essere, a scavare
sotto le superfici fenomenologiche dell’esistenza.
Come verdi paradisi d’infanzia
memori
ora tramano, rami d’amore,
il tedio dei giorni.
In uno schopenhaueriano pendolo non c’è via di scampo. Non vi
sono vie di liberazione, né estetiche, né etiche. La noia è peggiore del
desiderio. Nel dialoghi poetici che il Nostro ci propone tra sé e la sua
interlocutrice si dice di evanescenti speranze d’al di là. La poesia diviene
come lingua/stilo/osso pungente del puro naufragio che è il terminus
ante quem dell’al di qua. Nella sua raccolta spessa e pungente la
storia di un vita si trasfigura in una vita nella storia.
Nato nel 1952 a Milano, Gianfranco Gavianu si è laureato in
lettere Moderne con una tesi su Mario Luzi. Si è dedicato per anni
all’insegnamento e «si è sempre mosso con febbrile curiosità in una sorta di
nomadismo spirituale tra interessi letterari, artistici». Ha pubblicato le sue
liriche in varie riviste letterarie e nella collana “I poeti del Ponte Vecchio”
di Dantebus.
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