sabato 20 febbraio 2021

Nicola Romano "Tra un niente e una menzogna" (Passigli editore, 2020)


 

C'è una consistenza nitida nelle parole esatte; quelle che comportano l'esegesi di una traccia ma anche l'elemento caratteristico del procedere poetico. La ricerca di quella parola che non può essere altra, poiché l'equilibrio unico significante/significato si determina nel suo essere, nel suo sapersi e dirsi. Al contrario di ciò che viene espresso da molto parlare generico e da qualche critico gravato da carichi ideologici, sussiste un abisso di distanza tra canzone e poesia. Due forme espressive totalmente diverse, almeno nell'ottica di definizione tangibile, e in senso moderno, della letteratura italiana. La canzone trova una modulazione affidata principalmente all'effetto musicale proprio di un ascolto che si fa intrattenimento magari piacevole ma spesso banale. La poesia è ricerca nel linguaggio di una scrittura che abita lo spazio della pagina ed è unico contenitore di significato. Il coinvolgimento quindi diviene propriamente concettuale ed esprime una vera e propria esegesi che per sua stessa natura si fa ermeneutica. Tali considerazioni appaiono evidenti ogni volta che ci si confronti con un autentico e riuscito esito poetico. Come bene emerge dai versi dell'opera di Nicola Romano "Tra un niente e una menzogna", dove l'attesa porta al confronto con l'esattezza di quelle parole che sanno porsi nella grazia della epifania linguistica. Accorre una semantica sostanziale nella quale l'evento versificato è traccia sistematica di una reiterata attenzione alle determinazioni quotidiane: "Con un sentore d'assurdo/ risalgono canali a quel principio/ che fa nascere il corso d'ogni storia". Romano trafigge quel niente che se veramente fosse, sarebbe quindi qualcosa e quella menzogna che, come dice Calvino nella citazione, 'i non è nei discorsi, è nelle cose". La poesia mette a nudo il dato e naviga verso l'acquisizione di verità; si fa dunque filosofica, non sempre nella sua esecuzione formale ma nella intenzione ulteriore. E' un riverbero dibattuto di sensi e di ciglia, di risacche e ricordi, di profili smarriti e immagini che catturano ciò che fa diga a protezione del nostro resistere. Il senso della perdita è particolarmente accentuato nelle sonorità dei versi del poeta siciliano come interpretazione filtrata dai rapporti con le manifestazioni di natura. Si respira, per dirla con Pareyson, una "ontologia della libertà" che distanzia l'esistenzialismo personalistico e dove tutto muove verso un acquisito senso della determinazione. "Ristagna/ ai confini dell'ora/ un dubbio d'eclissi perduta/ La sera ne sfoglia il disguido/ e indaga occasioni di cielo"; la tenuta ritmica accompagna l'evidente concentrazione sillabica incalzata dallo iato esplicito che pone la pausa meditativa e la proietta verso la ricezione dei sensi. Certo il sottofondo concede molto spazio ad un tono dolente che considera l'allontanarsi delle cose nel procedere del tempo, in un irrimediabile avvenuto: "ma eravamo quel che siamo stati", consapevoli di ciò che abbiamo mancato o perduto. "Mi tiene vivo/ la magnificenza unica del mare" ...sembra riecheggiare l'atavico rapporto con l'elemento che tanto ha animato la poesia di un autore come Giuseppe Conte, ma qui non in una formula legata al mito bensì all'approccio più umile dei "residui di comune penitenza". Nicola Romano accompagna il lettore con passo ponderato, lento, coinvolto in un sussurro lieve e antico, "con quella flemma/ propria dei tramonti"

 

Andrea Rompianesi

martedì 19 gennaio 2021

Carlo Marcello Conti “Attraversato da” (Campanotto Editore, 2019)


 

E’ invaso dal bianco che circonda ed esalta i versi, i sintagmi, le singole parole; è un accenno al sentire più puro e immediato dei poeti; è l’evidente emergere delle cose intime e autentiche nella materia dell’anima; tutto questo è “Attraversato da”, esito poetico di Carlo Marcello Conti, autore, artista multimediale, editore. L’intelaiatura dei versi brevi, essenziali, tratteggia i moti impercettibili di una nuvola, di un torrente, di sensazioni che ci attraversano nei modi più diretti o imprevisti. C’è un’attesa subitanea oltre l’esperito che Conti accoglie nella pacata sensibilità ricettiva: “Non lasciarmi/ in una giornata/ con un cielo qualunque”. Si percepisce il senso della perdita, della mancanza; l’esegesi di una condizione esistenziale capace di filtrare le possibili annessioni e le diramate attese quando gli spazi accolgono dalle parole l’invito a farsi dimora, concentrazione di appunti espressivi. Tutto l’evidente assorbire la rifrazione panica che comporta la lettura di moti aurorali, delle naturali emissioni lente e ataviche, testimoni delle solitudini. Quasi un paesaggio innevato dove ritrovare l’angolo caldo di un interno che riabilita la personalità degli enti quotidiani riproposti nelle corporeità delle pagine innestate nella natura delle radici che costituiscono l’essenza di moti e passaggi. “Non aspetterò la notte/ ma un momento che/ aspetta una cosa” scrive Conti, immerso in una iterazione di esperienze che lo attraversano. E il tocco lieve annuncia la tersa accortezza delle vibrazioni, i chiarori setacciati nella conoscenza che trasforma “in/ un sinestetico senso dei sensi”. Le composizioni brevi abitano lo spazio bianco della pagina in una riflessione che emerge dai particolari, dai sentiti episodi delle ambientazioni che affiorano dalla pratica delle coincidenze in viaggio. Il senso del dolore è assorbito dalla cura dei vocaboli ed in particolare della parola poesia che “è rimasta qui/ da tempo/ Tantissimo tempo e/ il poeta la trova/ attraversato da voci/ al di là della poesia”. In questa sua opera Carlo Marcello Conti realizza un risultato letterario di particolare finezza e nitore, dove l’evento si concretizza in parole luminose e ponderate, lungo la capacità di filtrare ciò che accade a partire da quell’inizio “molto presto di mattina”.

 

                                                                                                                                         Andrea Rompianesi


giovedì 24 dicembre 2020

Adelio Fusé ”Le direzioni dell’attesa” (Manni Editori, 2020)

 

                                                        


“Fino a prova contraria, un profumo non può modificare un aspetto, tuttavia può dislocare altrove”. Luoghi, dunque, in stati che sono dell’animo come una temperatura misurabile per gradi, riflessi, estensioni icastiche. Seduzioni espresse da Adelio Fusé nel suo “Le direzioni dell’attesa”, testo di narrativa viandante che mette in scena, in una formula cara all’autore, due figure giovanili, una maschile e una femminile, Walter potenziale scrittore e Alina attrice imprevedibile, che mettono in atto una vasta danza di movimenti caratterizzati dal continuo perdersi e ritrovarsi nell’arco temporale di due decenni e in luoghi lontani tra loro che assumono i contorni della rivelazione. Chi scrive questa nota sente una particolare familiarità autoriale con la tematica specifica espressa dal rapporto con i luoghi, dal tema del viaggio come ricerca di significati. Nel passaggio dalla terza persona alla prima, l’overture è su Parigi; la Ville Lumière acconsente ad ospitare la passione fisica che coinvolge occasionalmente i due profili nella formula di un ancoraggio teso a restituire il credito mancato. E’ percepibile l’azione dell’autore che dispone sulla pagina la traccia per compensare l’estenuante disillusione degli attesi accadimenti che solo nella proiezione e nella trasfigurazione delle cose possono assimilare e poi filtrare le cedevoli attenuanti della corrosione artistica. Il vissuto è già troppo orientato se non si compie quel prodigio d’intervallo che rinomina le cose; quasi le salva in una rivisitazione esegetica, sempre ardua quando il proposito narrativo intende farsi conforto alla dinamica sofferta dei dissidi. Non a caso la prima parentesi parigina si conclude nella solitaria presenza del protagonista che assorbe la volontaria sparizione della figura femminile. L’assenza è tema di prova del processo estensivo adottato dalla prosa di Fusé che intende avvalersi di una misurazione costante, di modalità lineari nella conferma forse voluta di cenni allusivi alla prevedibilità compatibile con una tradizionale strategia espressiva. Nella scrittura dell’autore la ricerca dell’altro è sempre ricerca di sé, non nel senso solipsistico del termine ma nella necessità di evolvere verso una comprensione che solo se avviata può farsi diradamento atto a far percepire gli impulsi più profondi nella loro autenticità. L’effettiva incapacità di concretizzare la creazione letteraria porta Walter, il protagonista maschile, ad una sorta di deriva prossima al vagabondaggio, alla fuga; non un desiderio di distruggersi ma di perdersi, forse per poi essere ritrovato, in qualche modo. Così, dopo anni attraverso l’Europa, avviene infatti nella ricomparsa improvvisa di Alina. I nuovi incontri riaccendono una passione sostanzialmente anarchica e infantile; quasi colpi di scena di un teatro instabile, incapace di determinare fondamenta. E proprio così si avvicendano gli episodi della vita teatrale a Edimburgo o la nuova sosta di relazione a Lisbona. Sul piano stilistico, tanto è articolata, preziosa e complessa la poesia di Fusé quanto è assolutamente immediata la sua prosa, totalmente narrativa. Non sussiste però un’esigenza di trama propriamente detta; l’obiettivo è individuato nel complesso tentativo di far emergere dai luoghi effetti di riflessione. Ma qui sembra che i luoghi abbiano, in realtà, più una valenza da sfondo scenico. Forse tra le righe prevale il desiderio di quell’auspicato incontro mai del tutto raggiunto, il bisogno di una stabilità emotiva difficilmente attuabile. La necessità esplicativa porta quindi a moltiplicare il succedersi delle pagine, documentando l’estensione dicibile nel proposito comunicante che non esclude anche tratti di rimando a considerazioni civili. Lungo il percorso, la scrittura tende a concedersi momenti maggiormente focalizzati sulle distinzioni quando l’osservazione intercetta “le progressioni della luce”, metafora di aspettative, come avviene nel passaggio del protagonista per le città del Marocco. Il ripetuto perdersi dei personaggi compone lo spartito dei rimandi e le attese conseguenti premiate dal destino. Nuovi intermezzi si determinano anche in ulteriori luoghi d’Europa, come una parentesi di relazione con altra donna a Berlino, fino all’ultima tappa narrata che si distende nel sole della Grecia e incontra il mare dell’isola di Nìsyros. E lì, tra una luce intensa e grappoli di nuvole, fra un cielo simile a un vigneto e un accapigliarsi di onde, ricompare Alina e nuovamente si riavvia una danza di sguardi, di membra arrese ai venti. Adelio Fusé lascia scorrere la sua narrazione nella consapevolezza di quanto siano necessarie le molteplici direzioni di una qualunque intima attesa.

                                                                                      Andrea Rompianesi


giovedì 3 dicembre 2020

Giacomo Giannone, Come un romanzo, Genesi Editrice, Torino, € 12.00

 

“Come un romanzo” è una silloge di poesie che offre la visione di un viaggio da percorrere, o ripercorrere, attraverso luoghi, persone, accadimenti. Un reisebilder  a tutto tondo in cui traspare fin dall’inizio il senso della vita con i suoi misteri, intoppi, piacevolezze, felicità e tristezze; in cui le volontà di conoscenza e accoglienza di nuove esperienze rimuovono le difficoltà e le afflizioni che nel corso dell’esistenza possono intralciare il cammino. “Ancora un viaggio / ancora miraggi / tu vicina tu lontana / e il pensiero va / folle ossessivo, / mentre la mia voce / muta rimaneva”. Il segno del tempo e del viaggio viene dettato fin dalla lirica iniziale “Pula”, una specie di richiamo testamentale dove, affermando il valore del vivere quotidiano, con tutto ciò ovviamente che comporta, si passano in rassegna affetti, amori, incontri, problematiche e soddisfazioni.  “Prima di morire/ barolo nebbiolo / barbera // E la terra mi accoglierà / fragrante / festante // (…) Scorre il Bisagno/ di sangue / irrorato (…)”  Le liriche che seguono costituiscono un flashback attraversato a volte da desideri che si avverano, a volte da malinconiche considerazioni su ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, a volte da scontri con un destino che sembra accanirsi proprio quando divieni più arrendevole e consapevole. “Povero Vittorio, mio Capitano, / perché il tuo letto ora è vuoto?” “Un giorno di Maggio / scivolò e in deliquio cadde / sulle piante di lavanda / in Provenza / tanto sole / tanti odori / tanti colori // (…) Non sa non dice / Lada non è più / la mia Lada”. Significativi sono i ritratti delle persone. Ribadisco persone, non personaggi che come spesso accade sono semplicemente delle maschere teatrali. Le persone infatti mantengono intatta la loro identità reale perché appartenenti allo stesso mondo del poeta e alla sua storia. “Gli occhi ha mirabolanti / occhi lucidi, verdi, cangianti / occhi con gocce di rugiada / sulle ciglia e voce fantasma / a ripetere (…)” Le medesime persone assumono una propria dimensione attraverso lo scambio con il paesaggio o i paesaggi che Giannone ha affrontato e interiorizzato. In tal modo gli ambienti diventano un tutt’uno con la vita, la storia si esprime nel rapporto con i luoghi visitati, amati, desiderati. Dai luoghi di sofferenza per eccellenza come il sanatorio di Villa Trezza presso Domegliara (Verona), dove potersi abbandonare in toto per guarire immergendosi nel sapore sereno della natura e degli uomini, ai luoghi di lavoro, come Bologna, in cui si rammenta l’esperienza da presidente d’esame, “Loquaci i colleghi / simpatici i ragazzi / ti guardano curiosi / sorridono / mi dico, spero che siano / tutti promossi”;  o ai luoghi di felicità matrimoniale dove prevalgono manifestazioni d’affetto “In un cinema di periferia / due mani si strinsero fortemente / come mai prima / e il timore di rompere l’incantesimo / mi vietò di sfiorarti con le labbra”. Insomma, il romanzo evocato dal titolo si traduce in una personale passerella che induce in profonde riflessioni sull’esistenza, propria ed altrui: momenti, infine, che non vanno sprecati ma affrontati con raziocinio e ardore, dove il sentimento fa da tramite ineludibile al film della vita stessa. “E’ stato un tempo lontano, sempre / in luoghi reconditi i ricordi scavano / per emergere furenti impietosi, / ritornano per rivedere un volto, / un ciocco di capelli carezzare, / per ascoltare una voce una parola, / ripercorrere una via un ponte, / un bacio implorare, non dimenticare”.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                  Enea Biumi


giovedì 19 novembre 2020

Giorgio Bonacini “I segni e la polvere” (Arcipelago itaca Edizioni,2020)



Giorgio Bonacini, poeta di particolare qualità e consistenza stilistica, propone questo esito “I segni e la polvere” nella definizione di un sottotitolo che allude a percorsi ritmati in 52 poesie “distrattamente felici”. Qui, il verso breve, limpido, essenziale, nella connotazione visibile del sintagma, nel verticalismo strutturale, nella lieve fonetica dell’assonanza così come nell’osare della rima, imprime alla pagina una espressività icastica che rimanda ad una conseguente attenzione riflessiva. L’immediata sensazione è di trovarsi di fronte ad un intreccio di prospettive che sorprendono nell’accostamento rapido e profondo, denso nella sostanza effusiva contemplata nei particolari esigenti; ben sapendo che “non è la distanza/ né il muoversi/ troppo che assorbe/ nel ritmo/ un tamburo di guerra/ ma ninnoli e note/ nel canto alla terra”. Sono attese di risposte nelle peculiarità delle piccole incisioni, nelle ferite, nei prospetti cromatici accesi dagli accostamenti di una sinestesia armonica: “i tuoi mille profumi/ li vedo giallissimi”. Un verso breve che nella veloce successione scava ogni volta una profondità evocativa. E’ trovare traccia di un assenso interpretante il valore della mitezza quando essa sa osservare contemplando, interrogare esprimendo. L’elemento naturale si ritrova lungo il percorso degli accostamenti in un sorvegliare liricamente le genesi e le mutazioni, così come gli esiti, in una volontaria ermeneutica dei dati materici accuditi e rivisitati. Giorgio Bonacini sa dosare la limatura del verso con estrema perizia, lasciando volutamente un aere sospeso, dove lo spazio della pagina sembra costituire ampiezze ulteriori, margini di accenni non detti ma intuibili. E sono, a succedersi, segni di neve e chiarori, sabbie e pietraie, venti e smanie, ma anche impreviste farfalle incuranti, tracce di una gradazione di risorse a volte diafane, altre incise, che corrispondono a passi rivelanti la tersa complessità del sentire oltre l’immediato. L’autore coniuga l’attesa con l’intuizione accorta “in fumogeni d’arte/ o di lingua/ e in fittizia clausura/ nei versi aggrottati...” quasi un esperire il senso autentico di un’ estetica che si è sempre più rivelata una valutazione del sensibile, in un suo definibile equilibrio. Gli accostamenti dicibili avvicinano esperienze sensitive diverse e inattese che esortano a pensieri capaci di riformulare le visibilità in considerazioni curanti una genesi partecipativa, evolvente, scandita in atti che comportano processi analogici. E’ quasi un contenersi sulla pagina per innestare propositi di accostamenti che richiedono una esegesi al di là delle fratture e delle scomposizioni. Poi diventa necessario porsi una domanda sull’oltre e sul senso, che sorge spontanea, inalienabile, dopo la sintesi di un’osservazione durante la quale “si mastica l’acqua/ per giorni e per notti/ si guarda all’insù/ con la mente/ racchiusa in un cielo”. La rievocazione è subitanea affiorando alle foci dei calori avvertibili, nella impossibilità di determinare gli eventi, ove sono i ritmi spesso chiusi che disperdono i segnali riproducibili e le contaminazioni collocabili in aree altre rispetto alle nostre stesse percezioni. Le assonanze evocano ritmi allusivi e pertinenti dissolvenze, attraverso le funzioni caratterizzanti la dinamica della stessa attenzione. Emerge la possibilità di cogliere il proprio limite nell’ancoraggio a segni devianti il mirare, dopo collocazioni inagibili e restie a decifrare i tumulti del cuore, così come la scansione riprodotta dalle sillabe nell’ora della vulnerabilità, della riduzione dei passaggi. Giorgio Bonacini vede il nostro procedere “in solitudine/ all’interno/ di un calvario minimale/ o di abitudine”. Vi sono misteri quotidiani da decifrare, allusivi ritorni all’incedere franto; come, a volte, è inevitabile accorgersi di percezioni fertili in mitezze d’aurore e smarrimenti d’esilio.  

                     

                                                                                                         Andrea Rompianesi

 

 

martedì 13 ottobre 2020

Fabio Scotto, Storia di Emma C. e altre poesie, Puntoacapo, Alessandria, 2020

 


In una nota finale ed esplicativa di questa silloge Fabio Scotto ci ricorda la sua idea di poesia, che rivela poi il suo modus operandi, e cioè: “costante fedeltà all’autoascultazione del corpo, della sua voce e dei luoghi del mondo”. Che didascalicamente tradotto significa privilegiare il campo dei cinque sensi, come insegna la lezione leopardiana. In effetti non c’è pagina in cui non si presenti la materialità ontologica che si trasmuta, per magia di parola, in una visione meramente pura, scevra dai ceppi illusori della semplice realtà, la cui scaturigine sperimenta un’idea totale della scrittura intesa come poetica, teatrale, lirica. Si innesta così una specie di non-luogo, di non-tempo (o meglio: oltre-tempo), che si dipana nel duplice binario antipodale: hic et nunc, da una parte, e ascesi inesprimibile, dall’altra: al pari di quella zattera gremita d’invisibile di Raboni.(1)  Il trait d’union che agisce da stimolo, sia di lettura che di scrittura, è il sentimento (desiderio, voglia, urgenza, tensione) d’amore. Si potrebbe nel concreto partire da questi suoi due versi, inclusi nella lirica Le parole, come ex ergo o incipit di critica al volumetto: “Ti dico ‘amore’, rispondi ‘amore’/ E già la sera è più serena”. Sì, perché l’amore la fa da padrone (mi si permette la semplicità di questa espressione), risultando il dominus indiscusso e riconosciuto di tutta la raccolta poetica, l’elemento centripeto e centrifugo, colto in ogni suo spessore, nella sua poliedrica consistenza e nella sua necessaria ambiguità.

Nel pezzo iniziale, altamente drammatico, e che dà il titolo a tutta l’opera “Storia di Emma C.”, la protagonista, Emma appunto, racconta la propria vita di fanciulla povera, dove la fatica del quotidiano e la miseria si accumulano di anno in anno. Mentre i genitori non tralasciano di azzuffarsi, anche per un nonnulla, Emma si ritaglia uno spazio tutto suo, un recinto di protezione che sarà alla fine spezzato, una volta raggiunta la pienezza di donna, dalla violenza e dallo stupro del padre su di lei. “Io che ti amavo se mi tenevi in braccio/ se mi donavi bambole di pezza, o un gelato/ eccomi lacera e vuota/ qui tra la latta e il vetro/ nel silenzio del sangue…”. Il padre verrà denunciato e portato in galera, ma la povertà costringerà la protagonista a prostituirsi. “Il  mio corpo è altrove/ persa ne è la chiave/ Così Emma C. muore…/ Cercatemi nella gola di mio padre/ Nelle tomba degli elfi/ Nella bava del sole”. 

Questo monologo teatrale(2) mette in luce, come in un metaforico caleidoscopio, l’ambiguità dicotomica insita nel concetto d’amore, rivelando (è il suggerimento dello stesso autore)  un non lieto fine, quell’impossibile su cui insiste la filosofia di Georges Bataille.(3) E non c’è chi non veda che la realtà si trasforma, oltre che in denuncia, in intensa  riflessione sui comportamenti umani. Ecco lo scarto di cui parlavo inizialmente. I luoghi, i personaggi, le azioni diventano ipso facto universali. Sforano in un oltre, immateriale, dove la carne si fa coscienza e la parola assume la probità della ricerca della verità.

Allo stesso modo possiamo intendere gli altri capitoli del volumetto, forse meno drammatici ma comunque sinceramente vitali e di interesse. Così il “Diario di Ciutadella” diventa l’occasione per un dialogo d’amore con il padre. Qui l’elemento autobiografico prevale chiaramente, tuttavia non pregiudica la prosa poetica, rimanendo sempre in un ambito “alto”, come se Fabio Scotto ritraesse se stesso e il proprio padre, in una sorta di linea d’ombra del ricordo, non tanto per speculum in aenigmate quanto dentro lo specchio medesimo. “Carrer del Portal de la Font/ Carrer del Dormidor de las Monges/ Una panchina riflette la mia ombra/ Basta poco, purché la vita duri”. In tal modo la meditazione non è solo sul rapporto d’amore fra padre e figlio, sui loro gesti, sulle loro aspettative o intenzioni, bensì uno scoprire che al di là del muro, che li ha separati, la vista si spalanca su nuovi orizzonti, offre infinite letture. E c’è un passaggio, nel diario, da non sottovalutare, perché rinforza l’immagine di un poeta non astratto, non lontano dalla realtà, anche quando parla di se stesso. Lo cito nella sua completezza perché dimostra, se ce ne fosse bisogno, come la poesia, quando è veramente tale, non è né cieca né sorda. “Altri pianti di bambini meno udibili e meno visibili solcano in queste ore il Mediterraneo su vecchie barche sovraccariche di carne umana votata al macello, la cui vita conta ormai meno di nulla e non godrà della misericordia dei pescecani (i peggiori sono quelli umani). Ecco la vita in tutta la sua complessità, con tutte le sue ferite, nei suoi momenti più brutali di una morte ingiusta. Forse per questo si rende necessario proseguire, continuare, ridisegnare nuovi spazi, nuovi progetti, nuovi dialoghi. “La vita è un hangar dal quale spicchiamo voli senza senso./ Il senso, se c’è, padre, sta nel volo, non nella meta, né nel consenso (maestra fu da sempre in tal senso l’Itaca di Kavafis)”.

Un altro capitolo di questa raccolta poetica si intitola “Trittico lericino”. In esso il poeta, di origini spezzine (importante sottolinearlo), ritrova i colori e i sapori della sua terra natale e soprattutto si congiunge idealmente alle orme di artisti che di quei luoghi hanno valorizzato il nome. “Qui sono nato/ nel Golfo dei Poeti/ dove ogni hôtel/ si chiama Byron o Shelley” Per continuare nei versi successivi con una nota di melanconica autobiografia, come se, magari inconsciamente, volesse stabilire quasi un confronto con l’esperienza di chi, poeta, l’ha preceduto: “E la Venere che invoco ogni mattina/ ancora tarda/ ancora non risponde”.

Molto più esplicito, invece, è il rapporto con la sua Venere (F.) nel capitolo intitolato Movenze. Si tratta di una sequenza di amore erotico che il verbo poetico sublima ed isola in istanti di fermo immagine, dove però non viene meno la consapevolezza che qualcosa forse domani potrà mancare: il tempo, l’anima, il corpo? “Prendimi il sangue delle labbra/ la febbre feroce che mi salva/ Domani poi saremo nulla/ Ora cullami nel volo/ lubrica tua fanciulla.”

Nella sezione successiva Flamenco l’amore s’intreccia alla danza, s’incontra nel canto, si abbandona al ritmo sensuale delle chitarre. È un turbinio d’immagini sempre in movimento, un accumulo di sensazioni uditive e visive che trascinano il lettore entro le tipiche taverne spagnole dove il flamenco è il re della serata. Rivivono suoni e movenze: afrodisiaci momenti. “Non tori, né banderillas/ solo lei che fugge/ o lui che non la piglia/ il cerchio si stringe/ tintinnano caviglie/ e palme sulle cosce/ tonfi di pece sul costato.” La bravura poetica di Scotto in questo caso, ma non solo, si rivela in tutta la sua dimensione. L’andamento della lirica segue l’andamento del flamenco, il trasporto è immediato, non c’è tempo per respirare o per pensare: esiste solo quel momento, immerso nel ritmo incessante dei suoni e della danza. “Ma tu danza/ sul mio cuore ferito/ danza, danza, danza,/ sul mio cuore rinato/ danza, danza, danza/ contro il freddo che sento/ nel silenzio del mondo/ con la voce del vento/ tu sia amato tormento/ Flamenco.”

L’ultimo segmento della raccolta, Nostos, rievoca i luoghi in cui l’autore è stato, le sensazioni avute, il rapporto con gli altri e in particolare con l’altra. Le città visitate diventano àncora di salvezza, forza per proseguire, invitano alla coscienza di un sé intelligente nella conoscenza del mondo. “Sapermi solo/ Ma è solo un’ombra/ nel blu del tuo bel riso/ Wisla, viso, vivo, scrivo”. Questa, dunque, la consapevolezza del poeta che, immerso nelle contraddizioni inquietanti della vita, riporta alla luce ciò che spesso non vediamo e non udiamo perché le parole che quotidianamente sentiamo sono distanti dalla verità e non ci permettono di percepire la realtà. Per questo il ritorno, non solo fisico bensì spirituale, non è mai inutile o scontato: è la percezione che qualcosa di umano ancora rimane: è la forza della poesia. “Nostos l’amore/ Nostos ogni primo fiato/ l’esilio espiato/ tra orde di aguzzini in foia/ e gente che muore in strada/ d’inedia e di freddo/ frollata dal vento della storia”.

Enea Biumi

 


 

1)      Giovanni Raboni, Quare tristis, Mondadori, Milano, 1998

2)      Storia di Emma C. è stato rappresentato dall’attrice Eugenia Marcolli, con adattamento e riduzione, al Teatro Santuccio di Varese, il 24 novembre 2019, per la regia di Nicola Tosi.

3)      “Il progetto di raccontare il desiderio umano diviene un ricettacolo del torbido che spalanca una rivelazione inedita delle nostre esperienze interiori, il loro dialogo con la violenza, il gioco, il teologico e l’ateologico”. (….) “….la speculazione di Bataille si dispone intorno alle privilegiate esperienze di naufragio dentro cui l’uomo può sperimentare una differente versione di sé, aliena ai codici razionali dentro cui la storia lo ha adeguato. L’indocilità della nostra parte sacra e maledetta coinvolge Bataille in un inseguimento dell’impossibile fatto di silenzi, ingorghi concettuali e poetiche esplosioni di riso che erodono le norme discorsive e l’autenticità stessa delle strategie con cui invano tentiamo di disciplinare definitivamente la nostra inquietudine erotica.”  Tratto da: Georges Bataille: la mistica dell’osceno, tesi di Laurea di Diletta Caimmi, anno accademico 2016-2017, Università di Bologna, relatore prof. Vittorio D’Anna.

venerdì 2 ottobre 2020

Luciano Cecchinel “Da sponda a sponda” (Arcipelago itaca Edizioni, 2019)


 

Gli Stati Uniti d’America come luogo a cui rapportarsi dall’Italia, nelle articolate vicende di emigrazione che hanno caratterizzato la nostra storia. Luciano Cecchinel, in questo suo esito di poesia “Da sponda a sponda”, rivisita il dialettico rapporto con il paese che ha dato ospitalità a parte della famiglia materna e dove è nata e ha trascorso l’infanzia la madre. L’esperienza, in seguito avvenuta, di visita delle terre statunitensi da parte del poeta, concede uno spettro di emozioni che sviluppano sentimenti alterni; da una iniziale componente nostalgica ad una successiva disillusione e relativo distacco. Cecchinel esprime efficacemente il riaffiorare delle immagini registrate e interpretate nella calibratura dei versi: “Muskingum River/ acqua pigra e melmosa/ la ruota del battello/ le pale sbrodolanti/ bocca mostruosa di ingordigia”. Qui il sogno americano è trascinato a terra, nella polvere e nella sofferenza vissuta dai migranti; da chi in quei luoghi cercava uno spazio di sopravvivenza, di riscatto, lungo i territori dell’Ohio, del Midwest, come a New York o nel New Jersey. La successione delle strade abita il quadro riprodotto di uno sviluppo dei segnali che determinano il tracciato della mappa nella rivisitazione aperta oltre l’iterazione del profilo di riferimento anche quando il verso trova nel suo sviluppo orizzontale l’estensione narrante: “le farms che corrono lungo una collina e ai piedi della collina sterpi/ e poi colline a perdizione boschi radure cespugli quasi un paradiso”. Sembra un lamento antico in odore di tono biblico, evocante esodi ma anche un “melting pot”, un crogiolo di culture che spesso si ritrovano a convivere nella difficoltà dei rapporti. Si susseguono spunti tratti dalle vastità raccolte e determinate dagli influssi di una ricezione che evoca la partitura di un Whitman; tende a ridisegnare le durezze abbinate agli strati rocciosi, alle vibrazioni operose che conducono attraverso le successioni innescate dalle voci disperse. Nella seconda parte del libro lo scenario si sposta presso Revine-Lago, paese in provincia di Treviso, luogo di nascita dell’autore. Qui è analizzato anche il senso di sofferenza espresso dalla madre Annie che, nata e cresciuta in terra americana, aveva poi dolorosamente dovuto lasciarla per rientrare in Italia. Il rapporto con le proprie radici comporta quindi differenze e stati d’animo relativi alle personali, mai ripetibili, sensazioni accelerate dalle vicissitudini subite e riaffiorate nella visitazione intima, come tratto indicante l’evidenza del percorso collegato alla esegesi dei luoghi. Anche il ricordo di soldati americani di stanza presso una base veneta e poi inviati a combattere nella guerra del Vietnam, conduce Cecchinel ad esprimere strofe che si rispecchiano in segnali traccianti le contaminazioni culturali che diventano riconoscimento di sentimenti comuni. I segni topografici racchiudono segnali di memorie, dove il testo è profondamente innestato nelle vicende familiari del poeta. L’asperità dei recuperi dilata travagli, gli spessori inesausti dove arde la domanda primaria frammentata e dispersa fra le proponenti attese dimentiche della possibilità di un conforto. L’ora insinua l’attenzione alle relazioni, alle opportunità mancate, oltre l’evidenza dei tributi offerti alla storia personale calcata nella contingente faticosa immanenza. Il luogo diviene quindi correlativo fonetico, concreto nella sua leggibilità visiva. Un’ermeneutica del bisogno infrange ogni proposizione asettica e nutre invece la carnalità delle emozioni così come l’acuta critica disincantata e amara. La terza parte del volume sviluppa una poesia a tutta pagina, una forma di lungo “talking blues” dove un intreccio linguistico di italiano/inglese evoca molti spunti e riferimenti alla cultura americana nella tonalità musicale che rimanda al tono country, così come allo slang italoamericano, ai ritmi dello spiritual e alle espressioni del blues, jazz e delle voci di una componente tipica del folk singer. Ma anche spunti drammatici che si soffermano sulle atrocità del conflitto in Vietnam o sulle ingiustizie delle discriminazioni razziali. La corporatura compatta delle strofe si trasforma in successione di poemetti dove il tema dei rapporti famigliari, le sofferenze della lontananza si intrecciano con le tonalità amare delle solitudini, profonde anche nello scenario variegato della cosiddetta terra delle libertà: “perché sommesse hanno ansimato per le loro foglie di nuovi alberi/ tristezze di spossatezza e nostalgia e sussurrato ossessi uccelli le/ cantilene di nazioni straniere non più devono piangere quegli/ occhi di una perduta età”. Davvero allora, nella complessità policroma di un sundown medley (letteralmente miscuglio del tramonto) Luciano Cecchinel si chiede “ quale    quale il senso?    vero    falso    celato?” attraverso la vasta proporzione di un affresco che include lunghe citazioni e non elude mai i contrasti e le contraddizioni su di uno sfondo disegnato da “la terra sassosa gialla rossa bruciata along the Navajo Trail il filo d’acqua/ sul fondo del canyon baracche con le cisterne per la pioggia...”.

                                Andrea Rompianesi


L'ANIMA nella Poesia di Prospero Cascini fotografata attraverso la PROPRIA, a cura di Salvatore Monetti

  La poesia, in molte delle sue forme, è molto più di un semplice esercizio linguistico o di un passatempo estetico. Essa è da meditazione. ...