Come una doppia cartina di tornasole potrebbe essere letto
questo nuovo romanzo di Carlo Zanzi. Da una parte emerge la storia di Varese, che
scorre nel cosiddetto secolo breve, attraverso l’evolversi dell’aspetto
architettonico, urbanistico, perfino toponomastico; dall’altro si assiste al
rapporto nonni nipoti alla cui ombra affiorano amori, dissapori, difficoltà del
vivere quotidiano, soddisfazioni e risultati ottenuti. Al di sopra di ciò, come
fosse un inedito falso scopo, la passione per la montagna, non solo quella dolomitica,
ma anche quella prealpina. Sebbene morfologicamente differenti i due gruppi
alpini possono considerarsi simili per come si impongono all’animo umano, per
come ne forgiano lo spirito e ne equilibrino la mente. Non a caso l’opera si
apre con il protagonista intento a scalare la vetta del Sassolungo e termina
con lo stesso protagonista al Campo dei fiori. Almeno, questo è ciò che appare
leggendo il romanzo. Non due realtà di montagna, bensì una. Ma andiamo con
ordine.
Parlavo di secolo breve. In effetti il racconto si snoda dal
1910 al 1987 e ci indica il percorso di una famiglia varesina, ben radicata
nella propria terra e soprattutto ben addentro nella storia generale
dell’Italia e del mondo. Non c’è pagina, o quasi, infatti, che non faccia
riferimento esplicito o implicito a Varese. Si può affermare senza ombra di
dubbio che sia proprio la città la coprotagonista del romanzo. Una città che si
muove nel tempo e nello spazio e che l’autore accompagna, passo passo,
prendendole la mano come fosse una persona, accarezzandola, dipingendola,
vestendola e svestendola, orgogliosamente con amore. La storia e le
vicissitudini della famiglia Frigerio si intrecciano con Varese e ne fanno un
tutt’uno indivisibile, anche quando il racconto parla della guerra, delle
Dolomiti, dell’Albania, o altro. Il lettore che non conoscesse la città la può
rivivere attraverso minuziose e realistiche descrizioni, oppure tramite il nome
di vie – che cambiano nel tempo – piazze, Chiese, opifici – il Calzaturificio,
in primis – o bar e pasticcerie.
Il paesaggio quindi non è solo motivo di cornice, sfondo di
abbellimento, bensì parte essenziale del romanzo. Ma non solo.
A un certo punto del racconto c’è una frase illuminante: “Scrivere
è una liberazione e un conforto. Non ha mai provato la paura di essere
dimenticata?” A pronunciare queste parole è Gabriele, che si rivelerà
essere nel prosieguo dell’opera Guido Morselli. Lo scrittore varesino che si
ritroverà vittima della sua scrittura proprio perché inascoltato e
continuamente rifiutato dalle varie Case Editrici. Ma quella domanda è un po’
anche il centro del romanzo, ne costituisce una motivazione. Non voglio scomodare
i classici della letteratura, italiana e non, è pur tuttavia chiaro che i
maggiori autori, chi più chi meno, avevano preso in mano la penna oltre che per
trasmettere un proprio messaggio anche per prolungare la propria esistenza al di
là della morte. Ecco allora rivelarsi fondamentale e importante il rapporto
genitori figli, e soprattutto nonni nipoti, dove si infrange o si tenta di
infrangere la barriera del tempo.
Ogni capitolo del romanzo riassume grosso modo le vicende di
un anno – alcuni anni si dilatano in più capitoli, altri anni non vengono
menzionati. E sotto i nostri occhi trascorrono i cambiamenti di una città e
quelli di una famiglia. Così le vie o le piazze possono cambiare nome e
divenire più spaziose e più comode, e i personaggi cambiare lo status in bene o
in male, essere fedeli al proprio partner oppure cercare altre avventure,
magari anche omosessuali, diventare famosi architetti o fallire nel cercare
consenso alla propria scrittura. Quello che rimane è comunque lo spirito
varesino: la bottega, il lavoro, l’arte (dalla musica, alla pittura, alla
scrittura). Non per nulla nel romanzo vengono rappresentate figure tipiche
della cultura varesina: da Guido Bertini a Piero Chiara, a Morselli, tanto per
citare i più famosi. In modo particolare rimane la vita, in ogni suo aspetto,
con la sua sofferenza, con la sua instabilità, con le sue pur misurate gioie.
Una vita che si dipana nel corso di tre generazioni, fermandosi alla soglia
della quarta, come un’improvvisa frenata di bicicletta.
Può anche trattarsi di un bildungsroman come si
afferma nella quarta di copertina, sebbene le tappe di formazione riguardino
più personaggi e più vicende tra loro intrecciantesi. Ciò che prevale però sul
romanzo di formazione è il desiderio di dar corpo rappresentativo al sentimento
dell’amore: amore per i luoghi nativi, amore per i padri e le madri, amore per
le generazioni future. È probabilmente a quest’ultime che il romanzo si rivolge
in maniera molto più forte e dirompente, offrendo loro un messaggio di verità. Non
contano gli errori, i tradimenti, i cambiamenti voluti o non voluti. Ciò che
non va dimenticata è la radice a cui tutti siamo aggrappati: figli, padri,
nipoti, luoghi che ci hanno visto crescere e vivere, a volte nell’inconsapevolezza
delle verità più ovvie che hanno riempito la nostra esistenza. Lo stesso uso,
frequente soprattutto nella pima parte del romanzo, del dialetto dà l’impronta di
un innato desiderio di continuità col passato, che la morte non può sopprimere.
Anzi. Ne esalta e riproduce l’aspirazione. Come quell’anelito che conduce nonno
e nipote a percorrere chilometri su chilometri in bicicletta in un sogno di
eterna giovinezza.
Enea Biumi