Andrea Rompianesi
Scrittura Nomade - Viaggio polidiomatico di Arte e Cultura - Variazioni sul tema scrittura
Andrea Rompianesi
Si potrebbe definire lo scritto di
questo testo “Ti racconto perché” come un poema d’amore e sull’amore.
Infatti, a mezzo tra una serie di racconti, di poesie e di saggio, ci stanno
una riflessione importante ed un invito. La riflessione è appunto quella
riguardante l’amore in ogni sua forma e dimensione, l’invito riporta il lettore
ad un esame di coscienza su di sé e sul mondo che lo circonda.
Ora, i racconti si potrebbero
paragonare a degli exempla(1) che supportano considerazioni e
valutazioni dell’autore, mentre le poesie traducono in sintesi le più svariate
emozioni dovute a storie e accadimenti inerenti l’amore stesso.
Variegate sono le situazioni, ma una
sola è la soluzione. Essa si traduce nella consapevolezza che l’uomo è un
animale pensante, cosciente, dotato di una propria volontà e di un libero
arbitrio che lo distinguono e lo fanno unico al mondo. Per questo ontologicamente
si rende necessaria un’educazione all’altro, alla sua comprensione ed
accettazione, e per questo basta una parola semplice che tutto racchiuda:
amore. E non è la prima volta in cui Galante ci dà lezione, attraverso le sue
opere, di moralità, civiltà e buon costume. Attenzione: moralità e non
moralismo.
Si tratta allora di un trattato
sull’amore? Certamente, ma non in senso filosofico sebbene poetico. Come ebbe a
sottolineare Kant in un famoso detto: il cielo stellato sopra di me, la
legge morale dentro di me.
Alcune riflessioni qui inserite erano
già presenti nel De amore di Andrea Cappellano, come ad
esempio: Nei piaceri d’amore non sopraffare la volontà
dell’amante, oppure Conserva la castità per l’amante, ed
anche Nel dare e nel ricevere piaceri d’amore mai deve mancare il senso
del pudore. Ma Cappellano fu un autore medievale, con tutti i limiti che
noi sappiamo e che non starò a sottolineare.
A tal proposito mi sovviene
l’episodio dantesco di Paolo e Francesca, condannati non perché si amano ma per
il fatto di essersi lasciati trascinare dall’irrazionalità della passione. Ed è
una testimonianza, che l’amore è un elemento principale della condotta umana:
da lì parte il tutto. Come lo dimostrano anche le parole di Cristo, o di
Agostino d’Ippona che sostenne: “Ama e poi fa’ quello che vuoi”, perché
era sicuro che l’amore conducesse solo al bene.
Dante attraverso quell’episodio del V
Canto della Commedia condannava i romanzi cosiddetti d’amore che conducevano i
lettori ad una pedissequa imitazione dei protagonisti.(2) Oggi non è più
così. E non so quanti leggano ancora romanzi rosa, appassionanti e appassionati
(lontane sono Liala, Delly, Mura, Guido da Verona, Pittigrilli). Oggi è la
stagione degli influencer: questi sì, imitabili ed imitati e forse
pericolosi, su alcuni aspetti, come lo fu, secondo l’Alighieri, Chrétien de
Troyes con i suoi Lancillotto e Ginevra. Di per sé lo svenimento alla fine del
Canto del Poeta dimostra come l’equilibrio amore-passione e
razionale-irrazionale sia labile e il loro confine indefinito e indecifrabile,
cui nemmeno Dante, soprattutto in età giovanile, poté sottrarsi(3).
Ma esistono purtroppo anche
comportamenti inaccettabili tra amanti, meglio tra marito e moglie, ben
sottolineati dall’autore e del tutto condivisibili. Non so se Galante abbia
visto il film della Cortellesi “C’è ancora domani”, tanto giustamente celebrato.
Di sicuro, però, il modo in cui in questo racconto-saggio viene descritto il
rapporto uomo-donna è una chiara esaltazione di una unicità di legame
paritario, attraverso la gentilezza, la comprensione, la non sopraffazione
dell’uno sull’altra.
Nella seconda parte del testo,
l’autore si sofferma sulla valorizzazione di altre culture, di altri saperi, di
altri costumi. Ecco allora che da una prospettiva del singolo la visione
offerta da Galante ci riconduce alla collettività. Un tempo, sostiene, gli
emigranti eravamo noi italiani. Oggi noi siamo terra di immigrazione. Per
questo dobbiamo saper accettare il diverso da noi.
Dalla “comprensione” empatica verso
l’altro al discorso sulla guerra il passo è breve e naturale. La pace in fondo
è un problema d’amore.
Così il libro diventa un vade
mecum importante se non necessario da sistemare sul proprio comodino e
sfogliare prima di addormentarsi, per un confronto con se stessi o per puro
piacere intellettuale nella lettura di poesie e racconti come fossero favole o
parabole divertenti oltre che esplicative e didascaliche.
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1)
Exemplum: racconto veridico a scopo
didattico-religioso tipico della letteratura medievale, in cui il protagonista
alla fine raggiunge la salvezza dell’anima. Nel corso dei secoli assunse un
aspetto sempre più letterario, sino a confluire nella novella.
2)
“Quando leggemmo il disïato riso / esser basciato da
cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso, // la bocca mi basciò
tutto tremante. / Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse: / quel giorno più non
vi leggemmo avante”.
3)
Si veda a tal proposito “La vita nova” in cui
Dante tende a superare l’aspetto dolcestilnovista dell’amore cortese, portando
l’amore a più elevata essenza e facendo della donna il tramite per raggiungere
Dio.
Enea Biumi
Croupier a vita inserito nelle interiezioni (intese come originate dal “gettare in mezzo”) estranianti per passaggi focalizzati in piani narrativi che si alternano e si intrecciano attraverso salti temporali e cromatismi linguistici imprevisti. Assalti di personaggi estromessi da una finalità determinata per condurre inestricabili mutamenti al suono di luoghi e tentazioni ludiche o carnali, nella ricorrente sonorità dei rimandi a quella letterarietà che sviluppa una vera e propria prosa creativa. E’ “Live dealer” di Lamberto Garzia, testo-mondo forse postmoderno ma per lo più pagine gravitanti intorno a luoghi distanti e quindi comparabili nell’accezione dell’apporto, come la Liguria e il Messico. Terre di confine alla evanescente possibilità di determinare ogni spazialità tracciabile in multilinguismo a preziosa conduzione letteraria, quale garanzia ricevuta nel ricorrente riferirsi a spunti di rigore stilistico come quello espresso da Tommaso Landolfi. L’avventura di Garzia è nel corsivo delle incursioni tipografiche stesse; nelle proponibili infatuazioni dei gesti autoriali, nello stesso Lamberto che si pone autore e personaggio innestato nella non trama, come espediente ciclico nel vissuto occhieggiare generi impavidi e sottolineature erotiche apertamente provocatorie, senza escludere rigori critici quando è ferita l’incisione di un muro che divide un confine, che preclude l’orientamento libero. E di libertà l’autore avvolge le pagine dove il linguaggio perturbante e intertestuale coniuga celati rimandi ed estensioni liminari, digressioni fruttuose e proposizioni filmiche. L’intreccio delle arti suona dal fervore ammiccante di uno Sterne all’encomio latinoamericano di un Puig o di un Bolano. Un infrascritto che si azzarda, nell’azzardo stesso del giocatore, a pretendere l’emanazione del “mutuus dissensus” perché il contratto di lettura accolga possibilità di ricezione anarchica ed eversiva. Ogni singolo passo del testo è tutto il testo e, nello stesso tempo, non è se non frammento di tessitura dirompente, certo astutamente ludica. Misura di inconciliabile pregnanza sollevata dal contesto di una marcatura ambivalente, a inneggiare l’eclatante alternarsi dei toni stilistici determinanti la costruzione del possibile, quasi inteso come opzione e dicitura di una lettura del mondo nella sua più estesa realtà interrogante. L’espressione già tratteggiata di Lamberto Garzia in questo testo personalizza il sé ma non intende forse mai richiamare l’asserzione riconoscibile, piuttosto alludere ad una incisione nelle pieghe del tessuto vivibile, comunque empirico, di una opzione sempre accertabile, se non del nostro limitato fare, almeno in una coincidenza dove vita e scrittura possano coniugare la peculiarità creativa dell’avventura e dove la scrittura stessa interceda a sorreggere l’inesausta apprensione del nostro desiderio, così costante stimolo e reiterata pena.
Rappresentare l’amore attraverso tutte le sue sfaccettature non è impresa facile. Tanto più se il racconto viene costruito in versi. Ciò evidentemente non ha spaventato Angelo Manitta che nel suo poema “Nel volto di Mirra” è riuscito a cogliere i vari gradi dell’amore trasportando il lettore in quel mondo sentimentale raccolto in personaggi mitologici e non, eroici o profani essi siano.
“L’amore
è un fiore / nato dal nulla e nel nulla dissolto, // rinverdisce le giovinezze
e smorza gli animi / nella vecchiaia inquieta, vissuta senza vita, / spenta
senza morte, per reggere sulla croce / l’esistenza fredda dell’ultima parola”.
Il poema ha come un
andamento di exemplum: un itinerario,
tra finzione e realtà, che occupa una miriade di situazioni, luoghi,
circostanze tra loro interagenti, animati e stimolati, sofferti e combattuti, immaginifici
e verosimili. Il tutto in nome e per conto dell’amore.
Si sa che l’exemplum
è un racconto veridico, tipico della letteratura medievale, a scopo
didattico-religioso in cui il protagonista alla fine raggiunge la salvezza
dell’anima. In questo poema rievocativo delle tragedie alfieriane gli exempla sintetizzano le più svariate
emozioni causate da storie e accadimenti inerenti l’amore stesso. Eroi ed
eroine affrontano il senso di vite tribolate, spesso contorte, sicuramente
illuminanti ed illuminate da ardite metafore atte a dare il la a considerazioni
e valutazioni che trasportano il lettore verso una analitica riflessione
sull’oggetto amore. La salvezza
dell’anima, contemplata negli exempla
medievali, in questo caso, è la catarsi che alla fine di ogni episodio, dopo
una delucidante e serrata dialettica, risulta essere la conoscenza del bene e
del male.
“Dalle rocce dell’anima” grazie alla “figura ieratica d’un poeta” che
“mescola la tragica verità con la vita” sgorga,
come una magia e quasi per intervento divino (“Marte dal rosso viso d’azalea”, “impavidi profili che Antares
ripercorre”, “nostalgie d’infanzie, curve soglie di mistiche gelosie”), una “eterna simbiosi” tra l’autore e il
poeta che ha suscitato queste emozioni e che ha fatto rivivere episodi e personaggi in
una unità di sentire. Si scoprirà in
seguito che il poeta influente è Vittorio Alfieri e lo sviluppo dei temi
amorosi è la sequenza delle sue tragedie sulle quali emergerà il dramma di
Mirra.
Prima ancora della
rievocazione delle tragedie alfieriane, tuttavia, Angelo Manitta si sofferma
sugli amori dell’Alfieri stesso: il primo, giovanile e folle, con Penelope Pitt (“La donna, dal manto di grano, appare /
fugace baccante tra le braccia d’uno stalliere”); il secondo, non meno
tumultuoso ma più duraturo, con la contessa d’Albany (“La trasparente figura d’Emmanuelle d’Albany / distrasse i miei occhi”).
Dopo la descrizione
delle due donne che hanno trascinato con sé il cuore del grande astigiano,
rivediamo Merope e la accogliamo tra le sue dubbiose riflessioni, “eternamente infelice (…) donna-oggetto,
baratto / di sensualità, soprammobile abusato, / consumato da voglie malsane, /
gettato nel letamaio d’una cloaca (…)”. Lo sguardo dell’autore poi si posa
su Ottavia “che muore / tra fiamme
inviperite d’una Roma incendiata”. Allo stesso modo si consuma la vita di
Romilda, vittima d’una gelosia inconsulta, mentre “il vate impietrito si contrappose ai miei occhi” prosegue Angelo
Manitta “Le sue immagini creaturali
diventarono mie. / Una simbiotica osmosi fuse le emozioni”.
Il poema, ora, giunge al
culmine dell’ispirazione trattando il dramma di Mirra. Inutile sottolineare come
l’osmosi letteraria prosegua in un susseguirsi di immagini, riflessioni,
metafore che coinvolgono l’emotività del lettore. Citerò solo alcuni punti che
più mi hanno affascinato, rimandando il lettore alla scoperta di tutto il
poema.
Sentite la delicatezza
amorosa di questo passo in cui il padre, Ciniro, pensa e trasfigura l’immagine
della figlia: “Il tuo volto di luna è
sorto / ad oriente e il mio tenero cuore / luce imperlata di tristezza /evasa
in arabeschi di libertà, // sussulta come un bambino danzante, / sorregge i
tuoi occhi di perle, / incendia il mio senile tormento”. Oppure ammirate
quegli spazi che Manitta dedica ai simboli e alle metafore come questi versi
emblematici e che danno ulteriore vivacità al poema: “L’estate sorride a farfalle / esuberanti di luce e d’amore / sui rami
inclinati dal vento, // sul volo delle rondini migranti. / I fiori occulti cercano
/ ardore di tombe. Vinceremo / il mare e le tempeste // per sfondare i battelli
delle notti, inerpicarci a ruvidi orizzonti, / arrotare l’acqua coi coltelli /
e spegnerci nel fragore delle onde”, dove si delineano sentimenti
contrastanti d’amore, di morte, di tradimenti, di travagli, di sogni e
speranze.
Insomma, si sovrappone in
questo itinerario d’amore una miriade di impressioni che ora sembrano tempeste,
ora dolce quiete. E le parole di Manitta diventano quelle dell’Alfieri, e
quelle dell’Alfieri amplificano le parole di Mirra e di Ciniro, e la natura fa
da sfondo e controcanto ad un dramma che diventa perpetuandosi eterno. Così che
alla fine “i sensi si smarriscono tra le
rughe degli anni, / rapide gocce di miele cospargono, / come lagrime amare
d’una amata mirra, / il volto del vate che, statua di marmo, / accoglie,
insensibile, venti e tempeste”. Ecco, allora, come il titolo stesso del
poema viene di fatto recuperato. Nel volto di Mirra effettivamente vengono a
specchiarsi Alfieri, i suoi drammi e, aspetto non del tutto scontato, anche
Angelo Manitta.
Un ultimo e non meno
importante commento va fatto a proposito della struttura del poema. I versi,
come viene indicato dall’autore stesso, apparentemente sembrano liberi. Sono
invece quadrimetri, cioè con quattro arsi principali e quattro parole portatrici
di significato, oppure trimetri, vale a dire con tre arsi principali. Si tratta
di una particolare forma che vuole evidenziare metrica e musicalità della
poesia attraverso il recupero della parola chiave contenuta nel singolo verso. Alla
fine di una accurata analisi attraverso esemplificazioni esaustive a supporto
di quanto esplicitato sopra, Manitta sottolinea che “il lettore che si avventura nella lettura di questo poema, si troverà
come in una foresta, rimarrà spaesato di fronte ad una poesia che esce fuori
dagli schemi tradizionali e da un consolidato sistema letterario. Ma
probabilmente, scoperta la chiave di lettura, si avventurerà con delizia,
oppure poserà il libro sul tavolo per sempre.”
Enea Biumi
Pino loricato di Valerio come sincero attaccamento…
Coto..ru lambo/cenner nu mi fazzo/ storto e malorto/ risisto….. a fa cumbagnia a le frat/.
La Lucanità dei Cascini è lieve, delicata, che si nutre di rimpianti, di raccoglimento e silenzio partendo dal microcosmo di Castelsaraceno. Uno schiaffo di Lucanità, rimestata nel profondo, che attinge ai moti dell’anima. Una lucanità che si trasforma in emozioni forti, che lasciano un retrogusto di malinconia, di silenzio e di pace. I due poeti, pur nella loro diversità: Prospero, un cultore della parola per una poesia filosofica, Valerio un cultore dell’immagine e dell’espressione poetica esprimono all’unisono la coralità degli anfratti che hanno vissuto con le luci e le oscurità del loro tempo.
Seracchi come
blocchi di ghiaccio di metri vari d’altezza a forma di guglia o torre; morene
quali accumuli di materiali rocciosi disgregati da un ghiacciaio delle pendici
montuose poi trascinato a valle; così i significati letterali portano a
“Seracchi e morene” appunto, esito poetico di Mauro Ferrari, autore, editore,
critico, operatore culturale. L’opera si suddivide in quattro sezioni: la prima
e la quarta caratterizzate dal rapporto con le vicende della storia, la
seconda, che offre il titolo al libro, e la terza espressamente rivolte al
rapporto con il mondo della natura. Un intreccio che è guida per una
consistenza riflessiva dominata dalla consapevolezza di muoversi poeticamente
su di un terreno che possa essere tracciabile, quasi calpestabile nella sua
realtà ontologica. “L’approdo deve essere cauto/ le rotte scelte con cura, ché
poche/ hanno correnti amiche e dèi benigni”; l’insidia è opprimente condizione
che impone la veglia e l’attenzione irta verso l’episodio diurno capace di
svolta e operosa mediazione propositiva in opzione di luce. Molto infatti è per
Mauro Ferrari nel senso della vista, nella decisione acuta di volgere il passo
verso un tempo civile che si fa spazio, luogo da abitare così come i versi
scolpiti abitano lo spazio stesso della pagina. Qui si parla della follia del
nulla che davvero è tale poiché, come insegna il principio di Parmenide,
sussiste sempre l’essere che non può non essere; d’altra parte, se il nulla
esistesse non sarebbe nulla ma qualcosa. E il ritrovare frammenti in abbandono,
oggetti quali rifiuti e depositi di ansie, tormenti fisici e morali, segni
bellici, ordini caotici e graffi insistenti, conduce alla necessità della responsabilità
etica, al cosa devo fare di una ragion pratica...”e poi di nuovo quella
trasparenza/ che nasconde e illude,/ il tempo che fugge/ e l’attrazione del
fondale”. Ancora giungono echi di pandemie ed azzardi, di macerie e abusi; così
la netta necessità del poeta posto di fronte al dovere di risolvere il nitido
senso percepibile della domanda. Sembra, a questo punto, davvero una svolta
l’affidarsi allora a ciò che di natura rappresenta elemento di resistenza come
montagne, ghiacciai, rocce. Tracce di solidità a cui aggrapparsi in una
soluzione d’ordine che apre ad una possibilità forse non illusoria, anche se
vediamo “il vento e la pioggia che rodono/ istante su istante/ mentre il
muschio appone la firma/ su contratti in bianco”; come tempo che si sottrae
nelle sue creature all’azione di Shiva distruttore. Si esprimono trame e tregue
che Ferrari insegue alle foci di una contaminazione che è ferita, quesito e
tracciato inquieto. Il ciclo di rinascite e morti, l’integrarsi degli elementi
nei versatili asserti vegetali e animali ove l’esergo anticipa la veduta sulla
persistenza minerale. Il poeta, in uno slancio intimo, concede l’alternativa,
“posso fingermi altrove/ un attimo a sussurrare al vento” in una partizione
spaziale visivamente costruita sulla pagina nella breve distanza del distico
dalla terzina: “fiore lichene zampe che vagano/ sotto un cielo vuoto e sereno/
senza squarci né voci”. Il tono aurorale e panico incide con determinazione
l’asciuttezza rigorosa del verso compiuto all’interno di un equilibrio solido
tra strofe composte nella geometria del dettato, quando “solo la pietra non
soffre la sua logica”, tra spuntoni ed abissi, “sistri e cimbali”. Gli elementi
attirano lo sguardo, la svolta dell’osservatore nel dramma della verifica,
nell’innesto magmatico dove l’accesso è dimenticanza, oblio inesausto. La terza
sezione è rapidissimo e fugace confronto con tempo e spazio, per “contemplare
il tutto che noi siamo”, forse risposta all’ipotesi del nulla. L’ultima parte
ripropone il poemetto “la spira” che, affrontando una tematica industriale, la
sua crisi, pone il nucleo relativo alle disillusioni, alla caduta delle utopie
coltivate da una generazione: “in questi giorni brevi fra due notti/ la spira
sale dietro al cimitero/ e azzurra il cielo grigio/ salendo a pena per
sfaldarsi in nulla”. Mauro Ferrari in questo suo lavoro riavvolge le segnature
contratte che si materializzano in versi posti a ridestare una matura e
partecipe presa di coscienza intima e civile, dura e avvertita, consapevole
delle sconfitte ma non arresa alla dicitura della dispersione; piuttosto
concentrata sulla consistenza delle ustioni e rivolta alla forza desiderante di
un disgelo.
Andrea
Rompianesi
Angelo proveniva da Sant’Angelo Lodigiano e in verità la sua vera professione era quella del barbiere. In effetti aprì il suo negozio in via Verbano – era il 1880 – con l’insegna principale che diceva: “Parrucchiere e profumiere”, ma accanto a questa attività veniva sottolineato anche che in bottega si effettuavano fotografie e in aggiunta si vendevano pure fucili da caccia.
Non era rado per quei tempi sommare diverse attività in un unico posto. Il fatto, ad esempio, di saper differenziare nella stessa location diverse attività ha spinto il parrucchiere fotografo a ragionare evidentemente a 360 gradi, nel senso di pensare che “se non vendo la farina, vendo il pane, e se non vendo il pane posso vendere la frutta o altro”.
Certo è che finalmente anche a Varese si poteva trovare uno studio fotografico dove prenotarsi per foto commemorative o altro, senza dover attendere l’arrivo di qualche ambulante che giungeva settimanalmente a porre la propria attrezzatura in Piazza Porcari per la felicità di chi voleva farsi immortalare.
Angelo per evitare che le proprie foto venissero sfocate o poco attendibili amava lavorare all’aperto, a ciel sereno e nelle belle giornate. Se il tempo era nuvoloso chi voleva farsi fare il ritratto doveva attendere perché il parrucchiere-fotografo pretendeva che le sue foto fossero perfette nella luce, nei toni, nelle sfumature. Del resto di sfumature se ne intendeva visto che erano la sua specialità come barbiere. Sviluppava in effetti le lastre in un catino che a seconda dei casi faceva d’uopo al suo lavoro.
Ma il suo mestiere di fotografo non si limitava solo ai ritratti. Infatti si possono ammirare sue fotografie che riprendono avvenimenti, luoghi, personaggi.
Una foto fra le più famose è quella che ritrae “un treno elettrico che fugge alla Stazione Mediterranea di Varese”,(1) inserita sulla Prealpina illustrata del febbraio 1905. Da notare quel “fugge” al posto del più usuale “deraglia”, come se il fotografo (o il commentatore della foto) volesse sdrammatizzare un pericoloso incidente attribuendo al treno una volontà umana: la fuga. E si guardi pure a quella donna in basso a sinistra della foto che abbozza un sorriso (al fotografo?) forse dimentica della disgrazia che si andava celebrando.
Si intuisce da questa straordinaria foto come Angelo Pizzocri non si attenesse solo a ritratti ma spaziasse la sua attività per catturare momenti, luoghi, spazi, curiosità della nostra Varese d’antan. Come si deduce dalle foto che accompagnano questo articolo, l’oggetto delle sue ricerche è alquanto variabile: da una parte uomini donne e bambini dai vestiti che segnano un’epoca (giacche lunghe, bluse sbuffanti, enormi papillon sotto il mento, gonne che toccano terra, cappelli e cappellini) dall’altra biciclette, carrozze, fiori, paesaggi e, come abbiano visto, treni che fuggono.
Una molteplicità di interessi fotografici, dunque, ma anche una molteplicità di interessi tout-court. Va sottolineato che Angelo non fu solo parrucchiere, profumiere, armaiolo, fotografo, bensì musicista.
Nella foto allegata lo si vede posare tra i componenti dell’orchestrina Lombardi, una piccola band varesina dell’epoca, in cui suonava il contrabbasso. In basso a sinistra si nota invece suo figlio Vittorio con il mandolino (ai tempi molto in voga a Varese). La foto è stata scattata il 24/25 gennaio 1910.
Spirito poliedrico, versatile e ironico, come qualsiasi buon artista, Angelo non era capace di oziare. Con le mani in mano si annoiava tremendamente, soprattutto d’inverno. Così decideva di uscire di casa a far due passi. Prendeva il suo cappello e bastone, indossava cappotto, sciarpa, e guanti, e quando la moglie Laura gli chiedeva “Dùe te vétt?” rispondeva ironicamente: “A vó a vidé i camìtt a fümà”. Ma non era semplicemente un vedere, bensì un esplorare la città cercando di carpirne le atmosfere e le peculiarità.
In fondo, pur provenendo da Sant’Angelo Lodigiano, il nostro parrucchiere-fotografo diede in maniera abbastanza determinante un certo imprinting alla Varese del tempo e tra i varesini lui si percepisce ben presente e ben trainante.
Oltretutto la sua spinta indagatrice e la sua passione per il nuovo andò oltre se stesso passandola in eredità: il suo carattere esplorativo e inventivo arrivò al figlio che tra l’altro progettò vari brevetti, senza però mai registrarli. A quei tempi era più facile cederli ad altri e prendere immediatamente il dovuto.
Come armaiolo il figlio Vittorio introdusse diverse modifiche, che divennero oggetto di brevetto per la Pietro Beretta in Val Trompia. Negli anni a venire l’armeria Pizzocri, trasferitasi in seguito in Via Vittorio Veneto (dove ora sorge il COIN) con il subentro del figlio Vittorio e successivamente del nipote Angelo, divenne il riferimento per molti appassionati sia della caccia che del tiro al piattello, al punto che il negozio veniva affettuosamente chiamato “l’Università della caccia”. Tale passione fu tramandata ai nipoti e al pronipote.
A Varese, dunque, la famiglia Pizzocri era ben inserita e ben conosciuta. Tanto è vero che la moglie dello Speri della Chiesa e lo stesso poeta avevano nei loro confronti, e soprattutto verso sua figlia Anna, una profonda stima ed amicizia. Lo testimonia una dedica (controfirmata dallo stesso poeta) che la moglie di Speri, Alma, scrive su “I nostri buoni villici”. (2)
L’occasione per scambiare quattro parole amiche tra un the, dei pasticcini o un caffè, era il ritrovo al caffè Bosisio dove spesso le due mogli si incontravano. L’incontro era facilitato dal fatto che Anna Pizzocri gestiva un negozio di moda proprio davanti al Bosisio. Non è dato saperlo con certezza, ma si può supporre che la particolare propensione del poeta varesino verso la fotografia, oltre naturalmente la poesia, fosse dovuta anche alla presenza nella sua vita del parrucchiere-fotografo così ben stimato e apprezzato, e a qualche stimolo fatto forse rocambolescamente scivolare nell’animo di Speri.
D’altra parte poesia e fotografia vanno spesso a braccetto: l’una complementare all’altra. La poesia infatti non è lontana da quei ritratti, non solo paesaggistici, che Angelo Pizzocri andava componendo tra fine ottocento e inizio novecento, pioniere di quella che diventerà in seguito una vera e propria arte.(3)
Enea Biumi
Note
1) Bruno Belli su FB (Gruppo: La Varese nascosta) ci offre questa testimonianza: “Il primo treno (un convoglio di servizio) giunse a Varese il 9 agosto 1865. L’inaugurazione del primo trasporto per il pubblico fu il 26 settembre dello stesso anno” “L’esercizio della strada ferrata fu affidato alla Società per le «Ferrovie dell'Alta Italia» che si impegnò nella conduzione anche dopo la guerra del 1866. Con la Convenzione del 1885, la linea entrò nella «Rete Mediterranea» e quindi fu amministrata dalla «Società per le Strade Ferrate del Mediterraneo» (con brevità fu chiamata «la Mediterranea»)”.
2) La dedica così recita: “Alla signora Anna Pizzocri per un ricordo del nostro paese per augurio di felicità nella sua nuova residenza, per ringraziamento e saluto cordiale” (10-8-1922).
3) Le notizie riguardanti Angelo Pizzocri, insieme con le foto che corredano l’articolo, mi sono state date direttamente dall’omonimo pronipote. Altre informazioni le ho dedotte da un articolo apparso in seconda pagina sulla Prealpina del 19 ottobre 1956, senza firma, dal titolo: “Parrucchiere profumiere e armaiolo”, col catenaccio che mette in evidenza la nuova professione “il primo fotografo cittadino” e con l’occhiello che recita “È nuvolo, sa, niente da fare”.
La poesia, in molte delle sue forme, è molto più di un semplice esercizio linguistico o di un passatempo estetico. Essa è da meditazione. ...