Dalla Prefazione di "Visighéri da vùus" (Confusione di voci) di Sandro Gros-Pietro
Forse, potrebbe essere rivelativo risalire a Charles Bukowski e alla sua sempre citata formula essenziale da seguire non solo per fare poesia, ma anche per capire qualsiasi significato rivelatore della vita e dei suoi enigmi, “La verità profonda, per fare qualunque cosa, per scrivere, per dipingere, sta nella semplicità. La vita è profonda nella sua semplicità”. Tuttavia, è anche vero che la semplicità è complessa, e non è una contraddizione, ma è un ossimoro, nel senso che non si può avere una semplicità senza avere la totalità, perché la semplicità parziale sarebbe un tromp l’oeil, sarebbe una sorta di inganno da madonnaro, cioè una falsificazione. Il semplice deve anche essere tuttoquelchecè. Per capire la semplicità delle cose, bisogna avere il coraggio di affrontare la confusione. Bisogna tuffarsi dentro, come il delfino nel vasto mare: nuotare con gioia nell’elemento che totalmente ci possiede.
La confusione delle voci è da sempre considerata come La Voce per antonomasia, perché già per i latini valeva il proverbio vox populi, vox dei. La confusione delle voci è per definizione il concetto popolare di tuttoquelchecè, che già diviene una contaminazione escatologica con l’idea semplice, quasi alla mano, dell’universalità. Visighéri da vùus è l’espressione in dialetto varesotto in tutto corrispondente a vucciria in dialetto palermitano, cioè la confusione, che poi altro non è che uno dei due più importanti mercati della capitale siciliana, insieme a Ballarò. Sono mercati piazzati in strade cittadine del centro storico, strette e contorte quasi come vicoli, dove si avanza in uno struscio continuativo, tra bancarelle, rivenditori urlanti, richiami di madri, pianti di figli, risate e schiamazzi, osservazioni petulanti o spiritose, motorette spernacchianti, carrettini ingombranti, tutt’intorno a una pandemia mercatistica composta da tuttoquelchecè, cioè una confusione incredibile di articoli da mangiare per pranzo, per cena, per il passeggio in strada, insieme a materiali del vivere quotidiano, per la casa, per i viaggi, per il diporto, che rappresentano la cosa più semplice di questo mondo, perché ogni roba si capisce al volo, intuitivamente: la grande confusione parla senza inganni e in totale semplicità.
L’operazione letteraria di Enea Biumi rappresenta per lo meno una Trimurti di valori, perché tocca le tre grandi aree della cultura. In primo luogo, il linguaggio, nelle sue due splendide versioni proponibili da un bravo poeta italiano: cioè, il dialetto e la lingua nazionale. Va detto che ogni regione italiana possiede questa doppia profondità di visione interpretativa e descrittiva della realtà: la visione dialettale, tutta basata sull’intelligenza emotiva, musicale e spaziale, e la visione letteraria, elaborata, invece, nella dimensione intellettiva logica e matematica, come è illustrato da Howard Gardner e dai suoi seguaci in psicologia, che oggi vanno per la maggiore. Precisamente, Enea Biumi mette a confronto le due versioni poetiche. Se vogliamo essere pignoli, non si tratta di traduzioni, ma appunto di versioni, cioè due modi e due mondi diversi di espressione poetica, perché il dialetto punta tutto sull’emotività, sulla musicalità e sulla spazialità dell’espressione, mentre la lingua nazionale punta tutto sulla ricostruzione astratta e logica dell’espressione verbale, in modo scientifico e matematico.
In secondo luogo, l’altra divinità della Trimurti rappresentata da Biumi è il senso del tempo, questo Dio umano troppo umano, congegnato nelle famose Tre Età, dipinte dai maggiori pittori del Rinascimento e del Barocco, ma anche dopo, fino ad arrivare a tutto il Novecento, tanto per citare Gustav Klimt e i suoi contemporanei e per arrivare fino a Botero. Muovendosi tra Est ed Ovest: il Tempo è l’enigma più affascinante rappresentativo della vita e della morte che è stato totalmente inventato dall’uomo, ma che non esiste nel progetto creativo dell’universo, quest’ultimo è misurabile solo per spazio e per energia, ma non certo per il tempo, a meno che si voglia concepire l’eternità come una grandezza umanamente definibile. Invece, ecco che ogni dimensione umana, descritta o, meglio, interpretata da Biumi passa attraverso lo scorrere delle stagioni di Vivaldi – quest’ultimo anche apertamente occhieggiato nei versi del Poeta – l’adolescenza, la gioventù e l’anzianità sempre si riconoscono negli intrecci poetici bene calibrati e fanno capolino nelle vicende umane.
In terzo luogo, l’ultima divinità della Trimurti culturale è l’erranza, consistente sia nel compiere l’itinerario odisseico sia anche nel commettere l’errore, lo sviamento, la dispersione e la perdita. Biumi ha in sé qualcosa di Georges Moustaki. C’è in lui un concetto di meticciato, qualche elemento dello straniero, che si abbevera ad ogni fonte, ma lo fa con molta eleganza, perché cita il Capitano d’Alto Mare Pierre Loti, divenuto accademico di Francia per i suoi romanzi d’avventura. Idealmente, il Poeta sale a bordo dell’Orient Express, in felice intesa letteraria con Agatha Christie e compie il viaggio con destinazione Istanbul, per poi proiettarsi al di fuori della citazione resa in omaggio alla regina del racconto in giallo, ovviamente di illustrissima fattura, e continuare l’avventura all’interno di un’esperienza autobiografica fino nell’isola per metà greca e per meta turca di Cipro, nell’unica città al mondo, Nicosia, ancora divisa in due stati contrapposti che si osservano in cagnesco, come un tempo fu di Berlino Est ed Ovest. Il segno dei tempi e delle ostilità guerresche, che costituiscono la pazzia del primo quarto del nuovo secolo, aggalla apertamente nei testi poetici, che divengono anche una documentazione storica.
Visigéhri da vùus è un’opera della maturità più splendente di ingegno e di cultura di Enea Biumi, che mette a segno una poesia composta con le intelligenze multiple esplorate da Howard Gardner, in un ponte d’arcobaleno che sottende le aree della documentazione storica, dell’interpretazione emotiva e della descrizione spaziale, nella duplice dimensione di una parola che si osserva allo specchio, nella sua dimensione popolare e in quella del rigore letterario, esempio di una complessità ideativa, che non è mai complicanza, ma, al contrario, è il valore coeso della semplicità.