Il flusso
allitterante del titolo espone quelle cose prima racchiuse e ora esternate,
irradiate nella prospettiva di una lacerazione che responsabilizza i frammenti,
granuli sovraesposti attraverso la peculiare abitazione della pagina per
processo di cut up come detto da Laura Pugno nella nota in quarta di copertina.
Scriviamo dell’opera in versi “Cose chiuse fuori” di Marco Giovenale. Lavoro
che da subito appare felicemente innovativo e originale nel processo di
costruzione linguistica, attraverso spazi, parentesi, inquadrature,
interruzioni, attivazioni lessicali impreviste e riconducibili a tracciati
alternativi. “Prima di uscire con due gesti/ misurati rimette in distrazione/
lo straccio azzurro del bagno o lago”, come un’anticipazione di segnale
acustico che comporta balzi tra le pulsioni di una fisicità disegnata nelle e
intorno alle cose. C’è, nell’altissimo esercizio stilistico di Giovenale, una
considerazione versificata degli elementi assolti dal dovere di funzioni e
proiettati in uno spazio di confronto e di concessa opzione. Come stagioni
schermate e scaltre, così ipotesi di sosta dove l’allungo asimmetrico detiene
la compattezza solida del cuneo. Il taglio nel verso allude e spesso non
completa ma devia in modo da oltrepassare l’atteso per ampliare l’osservazione
verso un ulteriore riquadro, esprimendo l’esigibile accorato procedere delle
irregolarità temporali. La presa d’atto allontana ogni funzione consolatoria e
vuole trattarci duramente in una accentuazione della visibilità drammatica
quando implica proiezione: “Full. Pieno qui di/ storpi che convergono – a
trovare il morto/ sul celeste, alle righe orizzontali”. Le pluralità linguistiche,
gli spazi, i corsivi coordinano la mappatura di ciò che, anche se proiettato
all’esterno, si fa solido e inamovibile. In un’epoca dove si moltiplicano come
in fotocopia scritture poetiche prevedibili e scontate, qui incontriamo un raro
esempio di effettiva ricerca testuale capace di costruire passi talmente
robusti da meritare l’indicazione dell’intera strofa : “Fontane, tritoni
manierati, photoshop:/ nel parco vuoto è fitto di panchine/ vuote, a segmenti
triti, di vento – logico,/ mezzo offeso, fronte strada./ La virgo stacca/salda
insieme i file/ brevi dei porno, morso morso,/ il lavorato, delle ore al buio/
nella casamatta. E’ del custode.”; un vero e proprio cimento quasi
cinematografico a sequenze interrotte e riassorbite nella procedura inusuale
delle diverse elaborazioni dello stesso dato grafico. Il tutto non esclude
minima provocazione e solida ironia, cambi di paradigma, echi di una critica
alla cifra anche sociale delle pluralità viste, a volte, attraverso un processo
non tanto indirizzato verso una “prosa in prosa” tautologica ma affine ad una
scomposizione fotografica. Intarsi di segnali appuntati ridisegnano le
corrosive effusioni ad intreccio e intervallo, quasi Marco Giovenale si ponesse
nella possibilità di accentuare la persistente occasione di segnalare il punto
trascurato che riaffiora dalla volontà interpretante della presa d’atto di ciò
che apparentemente si dichiara oggettivo, mentre “a un getto del sottosole/ che
scrosta gli smerigli e fa l’avaro” sembra detergere l’attinenza come ciò che
riesce a dislocare le parti previste in una interpunzione fissata a ruolo
diffusivo. Gli spazi della guerra come le ritirate conduzioni ad una domestica
intrusione, “ha fatto molto freddo sul lato/ esposto a nord, dall’usciolo nel
porticato/ inglese”, emergono indicanti. La completa appropriazione della fornita capacità strutturale porta
l’autore ad una versificazione di solidità diveniente, compatta nel compimento
anche fonetico: “Reso e perso tempo, il tempo/ del sangue nelle commessure e ore/
cobalto, cianotipo singolare/ di giara e ringhiera parigina...”. Le tubolari
infittite e sotterranee esplicazioni si confrontano anche con i lutti, le
visite oscillanti, le debolezze termiche, le attenzioni parziali, le possibili
ammissioni di un parlare che, forse, conta. “Cose chiuse fuori” di Marco
Giovenale è davvero esito poetico tra i più originali e riusciti di questi
anni.
Andrea Rompianesi