lunedì 1 luglio 2024

Marco Giovenale “Cose chiuse fuori” (Nino Aragno Editore, 2023)



Il flusso allitterante del titolo espone quelle cose prima racchiuse e ora esternate, irradiate nella prospettiva di una lacerazione che responsabilizza i frammenti, granuli sovraesposti attraverso la peculiare abitazione della pagina per processo di cut up come detto da Laura Pugno nella nota in quarta di copertina. Scriviamo dell’opera in versi “Cose chiuse fuori” di Marco Giovenale. Lavoro che da subito appare felicemente innovativo e originale nel processo di costruzione linguistica, attraverso spazi, parentesi, inquadrature, interruzioni, attivazioni lessicali impreviste e riconducibili a tracciati alternativi. “Prima di uscire con due gesti/ misurati rimette in distrazione/ lo straccio azzurro del bagno o lago”, come un’anticipazione di segnale acustico che comporta balzi tra le pulsioni di una fisicità disegnata nelle e intorno alle cose. C’è, nell’altissimo esercizio stilistico di Giovenale, una considerazione versificata degli elementi assolti dal dovere di funzioni e proiettati in uno spazio di confronto e di concessa opzione. Come stagioni schermate e scaltre, così ipotesi di sosta dove l’allungo asimmetrico detiene la compattezza solida del cuneo. Il taglio nel verso allude e spesso non completa ma devia in modo da oltrepassare l’atteso per ampliare l’osservazione verso un ulteriore riquadro, esprimendo l’esigibile accorato procedere delle irregolarità temporali. La presa d’atto allontana ogni funzione consolatoria e vuole trattarci duramente in una accentuazione della visibilità drammatica quando implica proiezione: “Full. Pieno qui di/ storpi che convergono – a trovare il morto/ sul celeste, alle righe orizzontali”. Le pluralità linguistiche, gli spazi, i corsivi coordinano la mappatura di ciò che, anche se proiettato all’esterno, si fa solido e inamovibile. In un’epoca dove si moltiplicano come in fotocopia scritture poetiche prevedibili e scontate, qui incontriamo un raro esempio di effettiva ricerca testuale capace di costruire passi talmente robusti da meritare l’indicazione dell’intera strofa : “Fontane, tritoni manierati, photoshop:/ nel parco vuoto è fitto di panchine/ vuote, a segmenti triti, di vento – logico,/ mezzo offeso, fronte strada./ La virgo stacca/salda insieme i file/ brevi dei porno, morso morso,/ il lavorato, delle ore al buio/ nella casamatta. E’ del custode.”; un vero e proprio cimento quasi cinematografico a sequenze interrotte e riassorbite nella procedura inusuale delle diverse elaborazioni dello stesso dato grafico. Il tutto non esclude minima provocazione e solida ironia, cambi di paradigma, echi di una critica alla cifra anche sociale delle pluralità viste, a volte, attraverso un processo non tanto indirizzato verso una “prosa in prosa” tautologica ma affine ad una scomposizione fotografica. Intarsi di segnali appuntati ridisegnano le corrosive effusioni ad intreccio e intervallo, quasi Marco Giovenale si ponesse nella possibilità di accentuare la persistente occasione di segnalare il punto trascurato che riaffiora dalla volontà interpretante della presa d’atto di ciò che apparentemente si dichiara oggettivo, mentre “a un getto del sottosole/ che scrosta gli smerigli e fa l’avaro” sembra detergere l’attinenza come ciò che riesce a dislocare le parti previste in una interpunzione fissata a ruolo diffusivo. Gli spazi della guerra come le ritirate conduzioni ad una domestica intrusione, “ha fatto molto freddo sul lato/ esposto a nord, dall’usciolo nel porticato/ inglese”, emergono indicanti. La completa appropriazione  della fornita capacità strutturale porta l’autore ad una versificazione di solidità diveniente, compatta nel compimento anche fonetico: “Reso e perso tempo, il tempo/ del sangue nelle commessure e ore/ cobalto, cianotipo singolare/ di giara e ringhiera parigina...”. Le tubolari infittite e sotterranee esplicazioni si confrontano anche con i lutti, le visite oscillanti, le debolezze termiche, le attenzioni parziali, le possibili ammissioni di un parlare che, forse, conta. “Cose chiuse fuori” di Marco Giovenale è davvero esito poetico tra i più originali e riusciti di questi anni.

                                                                                          Andrea Rompianesi

 

martedì 25 giugno 2024

Andrea Rompianesi, Riviere, Puntoacapo Editrice, Pasturana (Al), € 12,00


 

Il poeta Andrea Rompianesi continua, anche in questa sua ultima opera, a scandagliare in una ricerca costante e minuziosa il rapporto esistente tra realtà e metarealtà. Sembra non accontentarsi del hinc et nunc, non gli è sufficiente uno sguardo semplicemente indagatore. Vuole penetrare l’apparenza per comprenderne la sostanza. Come suggerisce nel risvolto di quarta copertina: “l’essenza sta alla potenza come l’esistenza all’atto”, o nella citazione di Novalis che introduce la quarta sezione: “La poesia è il reale, veramente assoluto. Quanto più poetico, tanto più vero.” Le liriche suddivise in quattro sezioni, pur avendo avuto una datazione differente (le prime tre appartengono al 2007, l’ultima è del 2023) hanno un medesimo indirizzo ed una medesima intonazione: la ricerca dell’unicum esistenziale, che si traduce in una indagine materia-spirito delle cose, della natura, degli oggetti riflettenti l’umano nel suo percorso affluente di domande irrisolte. In effetti, le prime tre sezioni, lontane sì circa un ventennio, ma nel concreto riposte in un’atmosfera atemporale, hanno l’appiglio veloce ed istintivo che segnano il desiderio giovanile del sapere, mentre l’ultima parte svolge il compito del riassunto sinottico in un clima di meditativo sentire. Tuttavia, se non ce lo avesse suggerito il poeta stesso, forse non ci saremmo avveduti di questa pur minima differenza, perché alla fine i versi rimangono sempre dettati da pennellate fulminee, a volte accecanti, del tutto intrinseche a ciò che è il fine della poetica di Rompianesi. Ritorna anche in questa silloge quello che avevo chiamato in altre occasioni l’elemento filosofico che intende disvelare attraverso gli oggetti la natura costitutiva della realtà. Lo dimostrano, se ce ne fosse bisogno, le citazioni che appaiono nelle varie sezioni e che non sono messe lì a caso, ma con uno scopo ben preciso: come fossero tante intonazioni per dare il “la” alla sinfonia che sta per iniziare. Così per quanto riguarda la prima sezione l’aver messo in rilievo i versi di Sereni che sottolineano la presenza-assenza delle stagioni, in particolare dell’estate, contribuisce a crea il climax che evidenzia una presa diretta sull’evolversi della natura in rapporto ai manufatti dell’uomo. Risulta allora sincronico il passaggio tra “sedie garitte operose fameliche” e il “connubio su cieli estivi simposi”, dove si intravede un rimando, quasi un colloquio, gestito in termini sintattici nominali, atto a suscitare una visione frammentata della realtà, che nel frammento tuttavia ricerca l’unità. La citazione di Fortini che anticipa il secondo riquadro aggiunge all’elemento stagione l’elemento del mese. Il lettore viene indirizzato a cogliere il senso di ciò che è la caratteristica di questo periodo attraverso inquadrature precise, colte nel momento di maggiore intensità (“insenature o golfi / saliscendi vegetali / anemoni segugi”; “aspro limone acefalo / buccia contorta ibrida / gialla mutata sfida / lucida rotonda danza”). Proseguendo nella lettura la terza sezione ci offre una particolarità stilistica esaltando un differente modello di scrittura poetica. I versi hanno infatti una sola linea orizzontale, quasi a dettarci visivamente l’orizzonte ampio del mare (nonché del tempo) e quindi del nostro stesso esistere in rapporto all’oggi, finito e contingente. I versi sono introdotti da una quartina di Mario Novaro (fratello del più famoso Angiolo Silvio) che affronta, in maniera non certo semplicistica, il libeccio dando in tal modo il via a una serie di immagini che si avvitano attorno a emozioni e sensazioni di una realtà circostante che si avvale di citazioni in metacromotipia restituendo al lettore la visibilità propria della natura (“per aranceti in polpe e scorze morigerate implose o di  palmeti”; “el culto a la vida esorbitante ammanco o dicerie silvestri”). Siamo così giunti all’ultima sezione che, come anticipato, ha la peculiarità di evidenziare il lato riflessivo (meglio filosofico) della poetica di Rompianesi. In un gioco di specchi la maggiore descrittività presente in queste pagine ci racconta che la realtà poetica supera il contingente. L’ontico non può raggiungere, se non in poesia, l’ontologico, cioè l’essenza dell’esistenza. In “Riviere” Andrea Rompianesi ha voluto scalare questa vetta, scavando il più possibile nella realtà per carpirne il nascosto, l’assoluto, l’ulteriore.

 

Enea Biumi

martedì 18 giugno 2024

NUCCIO PROVENZANO: ALTOMONTE E DINTORNI

 




NUCCIO PROVENZANO: UN LUCANO CHE AMA ANCHE I POSTI IN CUI VIVE……

ALTOMONTE E DINTORNI è un reportage non solo fotografico, ma storico-artistitico di NUCCIO PROVENZANO, mio compagno di collegio negli anni 60 del secolo scorso a Lagonegro nostra città studi.

Ho letto “cose” della Calabria, di cui non avevo conoscenza specifica ed ho molto apprezzato lo stile essenziale di NUCCIO, attento ai vari aspetti delle comunità osservate. Ho apprezzato l’impostazione del lavoro: di storico, di cultore della bellezza e di valorizzatore ulteriore ….. di ALTOMONTE, il paese dei suoi affetti, dove TOMMASO CAMPANELLA ideò la CITTA’ DEL SOLE. Di Altomonte, ho apprezzato lo scorcio del borgo, nato BALBIA poi BRAHAILLA, la descrizione della CHIESA DELLA CONSOLAZIONE e la descrizione del CONVENTO DEI MINIMI (obbligo di immediata visita). 

Dell’itinerario I sono stato colpito dal paesaggio di FIRMO E dal PORTALE DEL CONVENTO DOMENICANO.

torre normanna XI sec.

Dell’itinerario II porto con me – così ben descritto - il paesaggio montano di SAN DONATO di I NINEA e la chiesa di SANTA CATERINA VERGINE di SAN SOSTI. 

Del terzo itinerario ho apprezzato la descrizione della CHIESA di SAN MICHELE ARCANGELO di MALVITO e la valle dei MULINI.

Del quarto itinerario mi porto dentro la chiesa di SANTA MARIA DEL SEGGIO di TARSIA ed anche la pitta cu i iuri i maiu, una focaccia con i fiori di sambuco che fioriscono a Maggio ed anche la DECRIZIONE delle terme di SPEZZANO ALBANESE.


Nel V itinerario ho colto con interesse e affetto FRASCINETO (mio nonno NICOLA , un RAGAZZO del 1899 negli anni 50 dello scorso secolo faceva il “MASSARO” in quella zona) e porto con me la descrizione della chiesa di SANTA LUCIA.

Nell’ultimo itinerario proposto, terrò nel mio cuore il MUSEO di STORIA DELL’AGRICOLTURA e Pastorizia di MORANO CALABRO, il MUSEO delle ICONE E DELLE TRADIZIONI BIZANTINE di SAN BASILE e IL MUSEO PARROCCHIALE di SANTA MARIA DEL GAMIO a SARACENA- 

opera di Luigi Amato di Spezzano Albanese

Nuccio - in questo lavoro - non ha mai dimenticato di essere lucano dentro, sensibile all’approccio poetico con la realtà circostante SEMPRE!

 

CASTELSARACENO 18/6/2024 PROSPERO CASCINI

poeta lucano

già dirigente scolastico


Daniela Pericone “Corpo contro” (Passigli Editori, 2024)



Ci sono portici (forse quelli di Mark Strand, ad esempio) che favoriscono moti, mutamenti ma anche nascondimenti, accalorati percorsi dove rivisitare con grazia le abitudini del presente, così come le suggestioni che provengono dal passato. “Questo è il tempo che non mente” dice un verso riportato nella copertina di “Corpo contro” esito poetico di Daniela Pericone. La gioia è forse inutile? E poi quale sentimento nel dissidio vissuto tra natura e ragione? L’autrice sembra volersi identificare con la pratica di versi in equilibrio espressivo tra nitore e quesito, levigature che intervengono attraverso l’inesorabile contatto e impatto dei corpi, corpi contro appunto, dove le frazioni interpretate sulla distanza si pongono come oggetto d’osservazione riprodotta in forma evocante qualcosa non dichiarabile se non attraverso l’allusiva flessione sonora del verso. E’ un clima svelato nel quale “l’aria si muove appena/ anche le statue cadendo/ non fanno rumore”; emerge un incalzante gioco di ombre e di luci, una figurazione urbana che disegna le sorti dell’attesa, trattiene l’esultanza, avverte circa la compatibile ansietà indistinta. E’ qualcosa che induce a rivedere le possibili diramazioni di una espressività contenuta nella prossimità delle percezioni che Daniela Pericone stende sulla pagina in una volontà di decifrazione affidata all’immediato sentire le sfumature cromatiche così veicolate alla vulnerabilità stagionale e umbratile, nella conformazione che permette allo sguardo l’attinenza controvento, lo sfilarsi accadente e condiviso, tracciato nell’ipotesi plausibile. Riemergono allora recuperi d’infanzia, reperti di stagioni intrisi di segnali riconoscibili; “socchiusi gli occhi/ lame d’acqua e altitudini/ dal centro nessuna distanza”. Certo l’autrice evoca falcate di vuoto ma anche fiori e piante, giardini d’inverno, le fatiche dei ritorni. In una poesia particolarmente significativa si snoda la natura tersa dei notturni attraverso la solidità paziente delle radici, quelle che permettono l’intimità con la terra, una fisicità sofferta, quando “qualcuno dispensa consigli/ e biscotti della fortuna/ un vaticinio in ogni biglietto/ rimbalza dalla sapienza dei secoli”. La compattezza lineare e allo stesso tempo lieve della tessitura linguistica permette di realizzare l’equilibrio testuale nella determinazione dicibile del procedere attraverso la suggestione solo quando essa è in grazia di accenno, nella costante e pervasiva mobilità dell’accadente, cauta percezione rielaborata in quesito, indocile acquisizione di una imponibile difesa alla caduta che è ferita (difesa dei sensibili direbbe Riccardo Olivieri), tenendo presente che “...sei su un vetro/ sempre sul punto di rompersi”. Ed è ancora e sempre una contorsione di luci e fiati, respiri e paure; materia in gioco, così come frequentazioni solitarie, derive vorticose. “Dopo il crollo ascolta i segnali/ il buio è meno buio, il dolore/ non più acuto, o forse meno ostile./ Anche lo spreco delle nostre vite/ non sembra così grave...”; ci sono panneggi nei versi che trattengono uno stupore maieutico, un auspicio di comprensione segnato tra le apparenze di una dissoluzione. “La notte si tiene in disparte/ un varco al tepore/ una distensione del respiro-/ la tregua nei fuochi della battaglia”, come un bagliore di contrasto che giunge qui dalla visione delle opere di Caravaggio, l’attenzione che allontana la perdita, il continuo assorbito dalle ombre, l’ibridazione e quello che Daniela Pericone intende come l’incessante rumorio dei pensieri.

Andrea Rompianesi

 

lunedì 27 maggio 2024

Mauro Germani “Prima del sempre” (Puntoacapo Editrice, 2024)


 

E’ un aprirsi in natura di poemetti in prosa o, come nell’accezione meno da ossimoro, una serie di brani in prosa poetica che esalta l’opportunità della ricezione dell’ascolto contratto in un testimoniare la presenza quando si assesta grafia in piano. Scriviamo di “Prima del sempre”, opera antologica di Mauro Germani, sviluppata su un lungo arco temporale che va dal 1995 al 2022. Ombre e parole, sedimenti filtrati nell’accorto condurre ad un passo dalla voce emersa da spalti in fiamme dove si salva “la cera che è stata infanzia e perdono”, ponendosi nella prospettiva che coglie “e sa il desiderio delle vette, dei nomi dispersi”. Il poeta sviluppa elencazione in ciò che promette riparo ma non ostacola la presa d’atto, tra parole inaudite, luci bagnate, cieli riconoscibili prima dell’evento albale. Sembra di percepire sussurri di voci, rintocchi, alla luce di rugiade invernali. Strade e macchie, veglie e partenze, sogni e rovine. Ma l’elemento decisivo che forse Germani esprime o tenta di interpretare è quell’indicibile che costituisce il mistero della nostra stessa condizione e che ci conduce alla consapevolezza di una poesia che è domanda. Nell’autore il senso della condivisione e compassione è integro, maturo, coerente con le tracce dei riattati strumenti necessariamente riprodotti e temprati dalla determinazione sintattica, calibrata su di un equilibrio contenuto. “Sono i poveri, le parole saltate. Piangono la stessa agonia, il grido strappato agli ulivi”; un dire che si veste d’intuizione civile, di prospettiva sensibile alle urgenze etiche. Così è l’attenzione rivolta agli affetti più forti, alcuni perduti in senso fisico ma trattenuti nella relazione spirituale che emerge oltre le cose, in attimi vissuti nei loro mutamenti, in una vocalità di metafisica concreta, pensando a Florenskij. “E una pace sembra scendere di lato, spiare dalle chiome invisibili...”, attirare le possibili alternative che si vestono di nostalgie ma anche di attese, scenari incisi là dove il pensiero rimanda alla consistenza dei quesiti irrisolti, alla caratterizzazione dell’esteso tratto insorto dopo riti e diluvi, nella espressiva capacità di rivederci “come saremo ancora bambini nella luce alta di giugno, insieme per sempre, nell’attimo preciso del vento”. Per Mauro Germani è determinante cogliere l’afflato spirituale in un confronto serrato con le cadute, le depresse scomposizioni dei pulviscoli attinenti alle maree, incalzati dalla brevità dell’asserto prosastico inciso nella gravità della pagina, in un tendere quasi ad esito escatologico. Dalla sezione “Livorno”, città d’origine della madre, la poesia assume l’impianto proprio della versificazione attraverso uno spezzare i tempi su modalità contratte, dicibile in una comparsa di lessico limato in sequenza...”ma d’improvviso/ un vento si alza/ ed è sogno, terra/ appena di luce/ appena di vita// prima dell’onda”. Scorrono poi, nella ricerca dell’autore, bellezze e frantumi, lumi e volti, schegge quasi frequentatrici di mastabe (per citare Sereni), lontananze e confini. Altra voce interrotta nelle dimenticanze urbane, nella compostezza delle strofe brevi a riecheggiare umori d’infanzia, segnature rivedibili alla luce della riflessione mite che allunga in verticale, ad un certo punto, il passo; dilata le strofe stesse producendo una continuità di richiami. “Dimmi cos’è la vita/ adesso che non c’è più/ Livorno e nemmeno/ Milano, solo/ una pianura di luci/ basse nella nebbia”. L’ultima parte del testo si fa preghiera, sentimento del dolore e della pietà, nella vocazione al riscatto in un dono che, davvero, si pone eucaristico “...quel suo/ pane straziato,/ quel calice/ d’ogni ferita”.

                                       Andrea Rompianesi

mercoledì 22 maggio 2024

“L’UNICITA’ DELLA LUCANIA” AL SALONE DEL LIBRO DI TORINO.


Il 10 maggio, a partire dalle ore 13,30, a seguire per il dì successivo, presso la Sala Basilicata, al Salone del libro di Torino è approdata l’opera: “L’unicità della Lucania: un approccio fotografico e poetico”, un libro di poesie e fotografie dei cugini Prospero e Valerio Cascini, edito da Salvatore Monetti, di Battipaglia, nel 2023. La pubblicazione contiene una raccolta di liriche in italiano e in vernacolo, arricchita da intense immagini, prodotte a cura de grandioso intellettuale, nonché editore Salvatore Monetti. A coordinare i lavori si è prestata la giornalista Maria Brigida Langellotti, capo dell’ufficio stampa del Consiglio Regionale della Basilicata. I cugini Cascini, compagni di scuola alle elementari, in particolare compagni della ‘primina’ del Cinquantasei, fatidico anno della nevicata sul cupolone, hanno coltivato la poesia nel tempo. Valerio, da giovane, si è trasferito a Torino, mentre Prospero è rimasto in Basilicata. Valerio scrive in vernacolo, Prospero in italiano: “Una testimonianza dell'amore per la Lucania e un omaggio al proprio paese di origine, Castelsaraceno, in provincia di Potenza”. Dal tempo della poesia si è passati così alla poesia nel tempo: il tempo della poesia è l’infanzia, l’adolescenza, poi si passa alla prosa, come diceva Croce. Ma quello spirito poetico resta sempre, quel “fanciullino”. Pascoli aveva insegnato anche a Matera, dove quei “Sassi”, piccole casette, naif, avevano ispirato senz’altro i temi della piccolezza, del nido.





“L’unicità della Lucania” riprende senz’altro la “Lucanità saracena”, edita sempre da Monetti nel 2022. Continua quel percorso che accomuna l’”antico testamento”, cioè la vecchia lingua, il vernacolo, col “nuovo testamento”: “Un libro di ricordi e di nostalgia”, - si legge tra le News del Consiglio Regionale di Basilicata - “in cui emerge il connubio tra poesia e fotografia e i veri protagonisti sono i versi in vernacolo e in italiano”. “È un volume - ha sottolineato Valerio Cascini - che mette insieme la parola in italiano e in dialetto e anche un altro linguaggio, che è quello fotografico. In questo lavoro c’è l’intento di dare della Basilicata una visione compiuta e di unicità attraverso le varie forme espressive”. “Le fotografie sono opere dello scrittore-editore Salvatore Monetti: “Il connubio tra poesie e fotografie - ha spiegato - nasce dal legame dell’editore Monetti per la Lucania, terra che ha saputo accoglierlo”. Lo scrittore ed editore Salvatore Monetti è legato a questa terra ancestrale, che un tempo giungeva fino al Sele, quindi inglobava tutto il Cilento. Il “Ciliento” e il “Saliento” erano i confini del mondo. La “Lucanità” serafica” come la definisce Prospero, ha trovato la sua massima espressione in ogni forma d’arte: nasce, infatti, una felice associazione (le menti associate di Cattaneo) tra poesia, fotografia, musica e pittura. Alcune poesie dei nostri autori sono state musicate dal Maestro Giulio Dammiano di San Chirico Raparo. Ed altre hanno trovato riscontro in delle meravigliose pitture dell’artista piemontese Gianni Bergamini: in particolare, una pittura del pino loricato esprime un elogio della poesia di Valerio Cascini. Il pino loricato, detto così perché ha una corteccia spessa, quasi un’armatura naturale, è una specie rarissima di conifere, che cresce solo sull’appennino lucano, sul monte Alpi e sul Pollino, e cresce ad altezze elevatissime, su profondi balzi. Certamente indica l’attaccamento tenace alla nostra terra. Il pittore, presente al salone con una sua opera, ha raccontato che “il quadro si intitola Matera”. Matera è una città antichissima, semenza di civiltà. Nel corso della presentazione sono state declamate da Valerio e Rosa Cascini. delle poesie del volume, in vernacolo e in italiano. “L’unicità della Lucania” è un cammino che si esprime attraverso la dedizione della parola e l’espressività dell’immagine, è un cammino che per così dire, parte dagli antichi tratturi per finire sulle autostrade del mondo, fin dove questa lucanità si è spinta, anche con l’emigrazione storica. Lo spirito di un popolo non si perde mai. “Cché ni sapése vùie, cché ni sapése, / di quanne m’arrampichèje/ a quillu mure facce-front’ ’a porte/ d’ ’a chèsa mméje?” - recitava Albino Pierro. E così noi rimaniamo estasiati dinanzi a quelle espressioni vive, genuine, forti, della nostra lingua, che tenta di esprimersi, di uscire al giorno, dal fiume della dimenticanza, il Lete, che tenta di svelarsi nel tempo (l’ἀλήθεια, la verità dei Greci).


Vincenzo Capodiferro

lunedì 20 maggio 2024

Enea Biumi "Visighéri da vùus - Confusioni di voci", Genesi Editrice, Torino, 2024

 




“Magia del linguaggio attraverso le visioni surreali e astratte della lingua dei poeti” di Enea Biumi

“Visighéri da vùus. Confusioni di voci” è una raccolta di poesie di Enea Biumi, pseudonimo di Giuliano Mangano, edita da Genesi, Torino 2024, risultata vincitrice al premio “I Murazzi per l’inedito 2024 (Primo premio assoluto di Poesia)”. La motivazione di giuria parla di un viaggio: il primo nella memoria, il secondo «… è un viaggio in differenti luoghi, in direzione d’Oriente, culla della civiltà mediterranea, ma contaminato con il presente di Agatha Christie sull’Orient-Express, per arrivare fino ad Istanbul, poi Cipro e Nicosia, mezza turca e mezza greca, in uno sfavillio di percorsi immaginari e di annotazioni da turista fai da te». La poesia è viaggio: il viaggio di Ulisse, il viaggio di Enea, il viaggio di Dante. Come annota Sandro Gros-Pietro nella prefazione: «La confusione delle voci è sempre considerata come La Voce per antonomasia, perché già per i Latini valeva il proverbio vox populi, vox Dei». Le leibniziane petits perceptions ci permettono di cogliere il Sublime, cioè l’Assoluto: esse est percipi. E poi soprattutto il vernacolo, il dialetto nasconde una sapienza arcana, orale che si traduce sempre in termini poetici o, meglio, “poematici”. Lì s’asconde quella “antiquissima Italorum sapientia”, lì quello Omero collettivo: il cieco è colui che vede l’altro mondo, ha accesso al mondo divino. Il poeta è, come diceva Turoldo, profeta. Enea mi fa ricordare il mio conterraneo Albino Pierro: «Mò penze ca si spìccete stu chiante/ rumagne schitte iè e lu campisante». Se finisce il canto (della poesia), non ci resta che la morte. Il canto dei poeti era equiparato da Albino al pianto delle prefiche. Io ho assistito da bambino ai loro canti, simili a nenie per far dormire i “pargoletti infanti” di Ariosto. La poesia canta la vita, la poesia canta la morte. Poesia è la ninna nanna. Poesie snodavano i cantastorie. C’era una correlazione felicissima tra vita e morte, tra vecchi e bambini, una “corrispondenza d’amorosi sensi”. In “Sfulcitt” (2022), Enea parla della poesia/vita: «La vàrdi vugà via/ tutt a un bòtt/ senza paròll,». «La guardo volar via/ improvvisamente/ senza parole». Il “carpe diem”: «Chi vuole esser lieto, sia, / di doman non c’è certezza».

Visighéri da vùus
Ma crüzian ul cò
‘me barabitt dra Madòna du Munt

(Confusioni di voci/ mi tormentano la testa/ come briganti della Madonna del Monte).

Non sapevo che anche al Nord ci fossero i briganti: vedete come si somigliano Sud e Nord! Le voci dei briganti spaventavano i pastori nei boschi, le vergini che si recavano al fiume a lavare i panni ed a lavarsi, con ceste di robe sui capi. Il brigante, nell’iconografia dell’inconscio collettivo, rappresenta una figura ancestrale avversa. Sono le voci demoniache dell’Es di Groddeck e di Freud: voci dall’inferno.

Me végnan giò vùus senza rasùn
Dumà a vardà föra dul scür
Cul mund ca’l va sòtt sùra

(Mi raggiungono voci senza ragione/ solo a guardar fuori della finestra/ con il mondo che va sotto sopra).

Sono voci irrazionali che esprimono il forte disaccordo tra il “fanciullino”, il Peter Pan che è sempre in noi e l’adulto. Il poeta, affacciato alla finestra, vede un mondo sconvolto. Già l’affacciarsi alla finestra oggi è diventato uno stare ore e ore al cellulare. Eppure, i proverbi antichi dei nostri paesi sperduti dicevano: «La vita è un’affacciata di balcone». Io ricordo quando nei vicinati la gente si parlava dai balconi. Che bello! E ricordo che raccontavano di una vecchietta la quale, recatasi a votare alle elezioni, diceva: «U munnu s’è vutatu cap cha sotta e he votu pù cappera che vi fotta». In dialetto è un’altra cosa. Il vernacolo conserva sempre un’espressività ed una genuinità che il linguaggio corrente ha perso, con espressioni neo-futuristiche (+ x). Questa raccolta di Enea è bellissima: il poeta non si smentisce. La prima parte è un viaggio nei “topoi” dell’anima, la seconda è un viaggio verso oriente, con le sue tappe. L’oriente è la culla del Sole, della luce, della civiltà. L’occidente fin dall’antichità, rappresentava il paese dei morti: «… l’occaso… pien di voli». L’occidente è il luogo del “tramonto”. In questa “psicografia”, in questa topica poetica dell’anima, cogliamo finemente l’interiore e l’esteriore che s’abbracciano.

Vincenzo Capodiferro

L'ANIMA nella Poesia di Prospero Cascini fotografata attraverso la PROPRIA, a cura di Salvatore Monetti

  La poesia, in molte delle sue forme, è molto più di un semplice esercizio linguistico o di un passatempo estetico. Essa è da meditazione. ...