venerdì 20 dicembre 2024

Enzo Campi “Fate attenzione a non calpestare il testo!” (Puntoacapo Editrice, 2024)


                               

Dalle animalìe e dai bestiari di una origine nietzscheana erompe o, meglio, trapela la voce insistente e reiterante di una poesia che oppone la determinazione assertiva ad una sottostante dolenza. Dire “e/ pure/ procede/ dilagandosi a raggera, non rivendica piccoli padri/ né magnifiche madri...” equivale, forse, all’appostarsi intorno all’esigente dicibile, attutito ma immite, quale rimozione dell’ingiusto. Scriviamo del libro di poesie “Fate attenzione a non calpestare il testo!” di Enzo Campi. Esito evocante uno spirito drammaturgico sulle orme di Zarathustra, sui confini levigati dalla domanda che è ferita, oltre le disamine di cori e corsi, di ciò che non basta a sfiancare il riproporsi delle ingiurie e delle cadute. Il sacrificio è termine di una proposta assidua che scolpisce sulla pagina dell’autore una impalcatura stabile nella natura compiuta, in sé dialogica, tra il profilo del poeta e quello del filosofo. Enzo Campi sembra tracciare un solco che equivale a trattare il testo nella sua esigenza contenitiva, affiorante dalla presunta ipotesi di sollievo, estinta poi nella perdurante complessità dei referti. Il segno è talvolta potenziale, come quesito accolto e temprato nella chiave atemporale e ossimorica dei suggeriti passi a misura di corpi vegetali, animali, umani. Il verso interroga nella forma più contratta, in altre fasi si allunga alla consistenza del frasario. Il fronte quasi leggendario comporta florilegio di giudizi; azzarda la sosta nella proiezione teatrale che dimensiona uno slittamento verso l’epicentro della chiamata. “Tutto scorre, certo/ tutto fluisce e rifluisce docilmente/ nello stallo in cui si consegna il derma/ all’attacco del chiodo di turno”; come reagire al dramma diuturno che lambisce la vicenda del giorno, nel fluttuare incostante dei destini e delle ombre, là dove il sacrificio rinnova la sua peculiare natura fra traumi e dettati. S’impone il bestiario in forma che inquieta e devasta nella percezione di un riprodursi di perdite eviscerate nell’integrato consumo come algida osservazione che l’autore impone in una ipotesi di sconfitta: “in questo falso tripudio di vita/ che tanto somiglia alla morte”. Ci sarà dissoluzione in danza tra i versi del poeta che ritrova l’occasione di un richiamo quasi profetico verso constatazioni di avvenuta incomprensione o piuttosto isolata e appartata mestizia. Il canto indecifrabile della sirena si stempera nei dettagli inquisiti e posti alla luce fioca della comparazione esegetica. E allora il profondo è “crogiolo di scaglie e di squame”, nella proliferazione di umidi cunicoli impervi e retaggi di gabbie, ma anche simulazioni di stadi, di avvenute metamorfosi, quelle scandite da Nietzsche verso l’oltreuomo da cammello, leone, fanciullo. Dal troppo umano emerge il germe dell’ingiustizia che cavalca la storia, in quel tono tendente al sapienziale per rendersi prossimo alla forse illusoria portata inerente all’idea  “che il pianto/ non venga versato a caso/ su questo o quel rudere”. La prigione della libertà, allora, quasi ci preserva dall’infido oltraggio del reiterato, dalla ciclicità simbolicamente espressa dal serpente, ma solo nella sua forma relativa in quanto immanente. L’eterno ritorno sostanziale drappeggia il fronte delle righe condotte da Enzo Campi all’esito di un continuo interrogarsi: “e fu così che cominciai/ a comprendere il suo idioma enigmatico” perché “ci sono tavole./ Alcune recano i segni e i segnali/ del linguaggio/ che ha generato i nostri avi”.

                                             Andrea Rompianesi


giovedì 28 novembre 2024

Paolo Ruffilli “Fuochi di Lisbona” (Passigli Editori, 2024)

 



“Al posteggio dei tassì c’era il blu di prima che iniziasse il giorno. Dopo il blu velluto della notte e prima dell’azzurro del mattino, quando alla fine il buio inciampa a un tratto nella luce”. E’ un brano dell’opera narrativa di Paolo Ruffilli, “Fuochi di Lisbona”. L’impresa ardua esprime tutta l’attenzione e il coinvolgimento dell’autore nel suo empatico percorso, volendo rapportarsi alla scrittura del grande poeta portoghese Fernando Pessoa e, in particolar modo, al carteggio che testimonia del suo amore per la giovane Ophélia Soares Queiroz; relazione poi interrotta. Testi stessi di Pessoa riprodotti in corsivo si alternano alla prosa di Ruffilli che pone sulla pagina un contemporaneo io narrante, recatosi a Lisbona per un convegno, e che vive una parallela storia di passione con una donna, Vita, che lo attrae in un magma di sensualità e fascinazione. Il procedere testuale si pone in una veste commisurata al sentire la complessità dei sentimenti, dei sensi, il dialettico arpeggio delle domande, il dibattuto accogliere la seduzione, la ricerca fondamentale di un significato sempre nascosto nei misteri del vissuto. E’ una prosa, quella di Ruffilli, che qui sviluppa rimandi, nelle frasi, di vere e proprie rime e assonanze, quasi a evocare la più autentica natura poetica dell’autore. La tonalità efficace appare nella esposizione cromatica delle sfumature che caratterizzano la città sulle rive del Tago, così le sensuali infiltrazioni della fisicità, la potenza interiore del canto di Amalia Rodrigues.  Da sempre e più di tutto, i colori nella incandescenza del riflesso sull’anima; “beige e sabbia, ormai, il cielo e il fiume. Ocra, terra di Siena, ruggine, cacao, avana, prugna: le case e la città erano prese in una gamma mescolata di marroni. Nella polvere d’oro della sera che moriva”. Il senso arcano della vita e il continuo inseguimento di quella figura che nel libro dell’inquietudine e nei tanti eteronimi ha interpretato l’approccio più autentico a quelle giornate che sono filosofie. Paolo Ruffilli esprime qui una visione peculiare di ciò che il sentimento d’amore, nelle sue diverse connotazioni e sfumature, comporta come vicissitudine attraverso aneliti, paure, delusioni, moti, contraddizioni che, comunque, giustificano il nostro inesausto cercare. Accompagna il testo una nota di Antonio Tabucchi scritta nel 2012 sulla versione inedita dell’opera.

 

                                                         Andrea Rompianesi

 


giovedì 14 novembre 2024

L'ANIMA nella Poesia di Prospero Cascini fotografata attraverso la PROPRIA, a cura di Salvatore Monetti

 


La poesia, in molte delle sue forme, è molto più di un semplice esercizio linguistico o di un passatempo estetico. Essa è da meditazione. Un atto che induce la mente al silenzio, alla quiete, permettendo al lettore di abbandonarsi alla contemplazione. È attraverso il distacco dalla frenesia del pensiero razionale che la poesia apre le porte a un'esperienza più intima e profonda, fatta di percezioni, sensazioni e visioni che trascendono il quotidiano. In questo viaggio, l'opera poetica diventa una chiave per l'autoscoperta, una via che si apre alla coscienza del lettore come una meraviglia da esplorare. Prospero Cascini, con la sua maestria poetica, ci guida lungo questa via, dove il flusso di pensieri razionali cede il passo all'ascolto profondo di sé e dell'inconscio. Le sue sillogi poetiche non si limitano a raccontare storie o emozioni, ma ci invitano a un'esperienza meditativa, in cui la mente è libera di vagare oltre i confini del razionale e del conosciuto. I suoi versi, pur nella loro apparente semplicità, svelano l'intima complessità della vita umana e del suo continuo divenire.                  


La poesia di Cascini ha il potere di trasportare il lettore in un regno di "non-senso", dove le convenzioni logiche vengono messe in discussione. È in questo spazio che la mente trova quiete, nel senso che l'interpretazione si ritira per lasciare posto alla pura esperienza, quella che è più vicina all'essenza delle cose. Le immagini evocate nei suoi versi non sono meri simboli da decodificare, ma finestre aperte su mondi interiori inaccessibili alla logica e alla razionalità. La poesia si fa strumento per scoprire quel "non-detto" che è più vero di qualsiasi affermazione razionale. Leggere le poesie di Prospero Cascini è un invito a percorrere una via che non segue la logica della quotidianità, ma quella della memoria e del pensiero profondo. I suoi componenti sono un viaggio nell'inconscio, dove le voci delle associazioni e delle analogie ci accompagnano a scoprire noi stessi, a riflettere sulla nostra esistenza in modo nuovo. Ogni poesia diventa una porta aperta verso luoghi dell'anima che non avevamo ancora esplorato. Cascini ci invita ad abbracciare l'indefinibile, a riconoscere l'impossibilità di definire tutto, ma anche la bellezza di questo indefinito che ci circonda.


Tra i temi ricorrenti nelle sue sillogi, l'amore occupa un posto centrale. Un amore che cresce e si sviluppa, che passa dalle prime sensazioni di dolcezza e desiderio, fino alla bramosia di identificazione. Le sue poesie d'amore sono un susseguirsi di emozioni contrastanti, spesso enfatizzate da assonanze e antitesi che si intrecciano in un gioco sonoro raffinato. La musicalità dei suoi versi, la scelta dei suoni e delle immagini, ci immergono in un flusso che non solo racconta l'amore, ma ne rivela la sua natura complessa e sfaccettata. In questo modo, l'amore diventa un'esperienza sensoriale e riflessiva, che ci invita a riflettere sul nostro stesso desiderio di amare. 


Nelle sue poesie, Cascini esplora le sfumature di questo amore, che può essere dolce e tenero, ma anche complesso e difficile. È un amore che ha il volto della madre, del padre e che si intreccia con il ricordo e la memoria. In alcune delle sue sillogi, l'amore familiare diventa anche uno spazio di crescita interiore. Cascini sa bene che l'amore familiare non è solo ciò che viviamo nel presente, ma è anche la somma delle esperienze vissute dai nostri genitori, dai nostri nonni, da chi ci ha preceduto. Ogni generazione è il testimone di un amore che non finisce mai, ma si trasforma, si evolve e ci accompagna come un filo invisibile che ci unisce a chi amiamo e abbiamo amato. La poesia dedicata alla nipote affonda lo sguardo nelle delicate e potenti dinamiche dell'affetto che lega un nonno alla propria nipote. Questo legame, è descritto come un amore che porta con sé un senso di dolcezza protettiva e di trasmissione, assume nella poesia di Cascini una valenza ancora più profonda, come un incontro tra generazioni che si rinnovano e si rinforza. L'amore che un nonno nutre per la propria nipote è un amore che possiede una dimensione unica, un misto di dolcezza, saggezza e speranza. 

             


Il poeta non è solo un testimone del passato, ma diventa una guida, un punto di riferimento silenzioso, ma costante. La relazione con la nipote è un atto di generosità, di protezione, ma anche di educazione. Ogni momento passato insieme è l'occasione per condividere un sapere, una saggezza che non si impone, ma si dona con naturalezza. In ultima analisi, la poesia di Prospero Cascini non è solo un piacere estetico, ma un cammino meditativo. È una forma di resistenza alla velocità e al consumismo della nostra epoca, un richiamo alla lentezza e all'ascolto, un invito a fermarsi ea guardare dentro di sé. In un mondo che corre, la poesia diventa un rifugio per l'anima, uno spazio di libertà interiore dove ogni lettore può incontrare la propria essenza e scoprire, attraverso il "non-senso", il significato più profondo della propria esistenza.

 

                              Salvatore Monetti

                      


giovedì 10 ottobre 2024

UNICITÀ DELLA LUCANIA Recensione del Filosofo Vincenzo Capodiferro, 2 ottobre 2024

 


Contravvenendo all’estetica crociana per cui l’autore si dissolve nell’opera d’arte, noi vogliamo valorizzare le persone che stanno dietro l’arte. L’arte è fatta di mani e piedi non è qualcosa di disincantato e disincarnato. 

PROSPERO ANTONIO CASCINI


Prospero Antonio Cascini, dirigente scolastico in pensione da settembre 2016, dopo sessant’anni dalla sua primina (1956), laureato in psicologia, inizia la sua carriera come preside a Oppido Mamertina (RC), successivamente in Basilicata matura esperienze di direzione in vari ordini di scuole. La primina del 1956, anno della nevicata straordinaria. Tutto iniziò tra botole, scale, bauli zollette di zucchero come viatico e tanto affetto. Si rammenta l’amore che tutto accoglie, abbinato alla dolcezza dello zucchero e al sacramentum. Operatore ed animatore culturale, ha organizzato varie iniziative, tra cui “La giornata del trekking”, le “Saraceniadi”, “Il concerto di Natale”. Tra l’altro in collaborazione con la Scuola Media “Ciro Fontana”, ha curato la mostra e l’annesso opuscolo su “Giovanni Iacovino. Tra pittura e fotografia”, ed. della Cometa, Roma 1996. Ha pubblicato con Monetti, di Battipaglia, “Il Girotondo. Tra primina e buona scuola in Basilicata”; “Lucanità saracena tra poesia e fotografia” nel 2022. Ha ricevuto vari riconoscimenti in Premi e Concorsi culturali.

IL PRESIDE PIU’ GIOVANE D’ITALIA.

Oggi è Maria Luisa D’Onofrio, campana, di trent’anni. Allora eri tu, ma io intendevo che sei giovane nell’anima. Quant’è bella la giovinezza… Lorenzo. Ada Negri. Mia giovinezza. Non t’ho perduta. Sei rimasta, in fondo all’essere. Sei tu, ma un’altra sei: senza fronda nè fior, senza il lucente riso che avevi al tempo che non torna, senza quel canto. Un’altra sei, più bella.

VALERIO CASCINI

Valerio Cascini, avvocato, ha lasciato il suo paese d’origine, Castelsaraceno, per trasferirsi a Torino per motivi di lavoro. È autore di diverse sillogi poetiche. Ha ricevuto vari riconoscimenti in Premi e Concorsi culturali, anche in vernacolo, linguaggio che di solito l’autore utilizza nella sua versificazione. Opere: “ U’ pruf’ssore” (2009); “Ereva curaggio” (2010); “Mangiaparole” (2012); “Ti racconterò. Filastrocche per una crescita felice” (2023). U prufssore, Amedeo Megale, un grande docente, insieme alla signorina Angelina che avevo io, il prof. Leandro, Senatro, la Signora Giuseppa, la Signora Corrado, la signora Lardo, don Gaetano Pittella. Fino a Teresa, Ida e tutti gli altri. Albino Pierro. ‘A terra d’u ricorde S’i campéne di Paske su’ paròue di Criste ca hé fatte nghiùre ‘a morte, mò sta parlèta frisca di paìse jèttete u bbànne e dìcete: “Vinèse a qué, v’àgghie grapute i porte.”
Questo senso della poesia lo ritroviamo in Valerio: Fammila na puhisia e ch’ t’ costa?/ Parole mbastate cu parole a bella posta./ Ca nu sbendano a l’aria pi fa sputa,/ ch’arrivano d’rett’addun’ so’binut’. Fare poesia rimanda al “poiein” originario, alla creazione divina. Ogni poeta, come diceva Turoldo è profeta. L’homo faber umanistico è colui che fa arte. Fare poesia è impastare: rimanda all’evangelico lievito del Verbum. SALVATORE MONETTI Editore-scrittore- fotografo (sue le foto che accompagnano il testo). Salvatore Monetti è nato nel 1960. È un Uomo del Sud. Vive nel Sud dell’Italia, in provincia di Salerno. Ha iniziato a scrivere quando gli amici, i confratelli, i teologi, le persone a lui care, lo hanno coscientemente circondato con una terra di nessuno fatta di silenzio. Essa gli ha consentito di pensare, studiare, scrivere, lavorare in pace e di dialogare con tanti, sicché spera di continuare a godere di un tale trattamento, senza dover perdere il poco tempo che gli resta a rispondere al mordi e fuggi che in genere caratterizza le critiche e i sorrisi dei maîtres à penser. Autore e editore: Parla se hai parole più forti del silenzio, o conserva il silenzio. (Euripide). Vox clamatis in daeserto.

GIANNI BERGAMIN PITTORE ha trasferito su tela ………………, le emozioni della LU C A N IA! Nato ad Adria (Ro) nel 1958 Vive e lavora a Torino. Ha esposto in varie rassegne artistiche. Attualmente è artista nel Museo a cielo aperto di Camo (CN). Fa parte della collezione della biblioteca civica “A. Arduino” di Moncalieri (To) L’artista, amico di Valerio da tanti anni, ha preso spunto dalla civiltà contadina di Carlo Levi. “Io sono veneto, ma ho avuto molte relazioni in Lucania”. Ci accomuna la “Terra”. I Veneti erano i terroni del Nord. Levi: “Nel mondo dei contadini non si entra se non con una chiave di magia”. Sempre nuova è l’alba di Rocco Scotellaro. Non gridatemi più dentro, non soffiatemi in cuore i vostri fiati caldi, contadini. Beviamoci insieme una tazza colma di vino! che all’ilare tempo della sera s’acquieti il nostro vento disperato. UNICITA’ DELLA LUCANIA “L’unicità della Lucania: un approccio fotografico e poetico”. Come la precedente “Lucanità Saracena”, questa silloge ci offre un condensato di forti momenti emotivi, che si intrecciano in immagini che colgono attimi inattuali, ma eterni, intensi versi in vernacolo, che sgorgano dalla sublime penna di Valerio e in italiano, locus in cui il Preside riporta ai nostri giorni i vivi sentimenti che ci legano a questa terra ancestrale, la Lucania. Come sottolinea il Presidente Carmine Cicala: «Gli autori hanno il merito di identificare il territorio col suo linguaggio, alternando, non a caso, italiano e vernacolo… una identità che può essere espressa sulla base del patrimonio culturale che come istituzioni, siamo tenuti a custodire e a valorizzare». Il percorso della Lucanità è stato scandito, anche nell’impaginazione del testo, in quattro momenti di Lucanità: Lucanità in formazione, Lucanità intimista, Lucanità levigata e Lucanità radicale. Ferdinand De Saussure: La parola è sempre un’esecuzione linguistica individuale: è un effettivo proferimento di un insieme di fonemi che costituisce una parola. La langue, invece, non è mai individuale, ma è della collettività, è sociale, è astratta. Solo le parole sono dotate di significato, ma lo assumono solo nel contesto di una langue. Fonema e fenomeno hanno molto in comune. Luce e suono sono i due pilastri del reale. Così la fotografia si intreccia con il linguaggio. Photos e Phonos sono legati come lampo e suono. La langue, cioè, è espressione di ciò che Gustav Jung definiva l’Inconscio collettivo, coi suoi archetipi. L’inconscio collettivo, secondo Jung, rappresenta un
contenitore psichico universale, vale a dire quella parte dell’inconscio umano che è comune a quello di tutti gli altri esseri umani. Esso contiene gli archetipi, cioè le forme o i simboli che si manifestano in tutti i popoli di tutte le culture. Ai primi tramonti le parole sono pietre. Nella quotidianità assolata i cuori sono pietra. Il profeta Ezechiele annunzia: “Vi darò un cuore nuovo e metterò dentro di voi uno spirito nuovo; toglierò dal vostro corpo il cuore di pietra, e vi darò un cuore di carne”. La poesia è in filo diretto col cuore, oltre che con la mente. Il cuore è il luogo del pascoliano fanciullino. La poesia diviene luogo dell’infanzia. Infanzia deriva da infans, che significa muto, che non può parlare. Ha un significato negativo: cioè, ciò che non si può dire intorno all’essere e si può esprimere solo in altri termini, artistici. L’arte, la poesia è dimora entis (Heidegger). Aletheia, la verità è ciò che si svela nell’intuizione. C’è un’intuizione nella poesia che si chiama ispirazione. I cugini Cascini ci riportano sempre in un tuffo nella loro infanzia, nella Basilicata degli anni Cinquanta. Ogni poeta reca in sé invariabilmente quello che Giovanni Pascoli chiamava il “fanciullino”. È il fanciullino, l’Es di Freud, che parla nella poesia, nell’arte, col suo linguaggio speciale, unico. La tipicità della Lucania si ravvisa soprattutto nelle tradizioni popolari, nelle tracce indelebili dei costumi, della religiosità, ma in maniera sublime e raffinata nel linguaggio, quel linguaggio ricco di cultura orale, che oggi purtroppo si sta man mano perdendo. Ogni paese ha un dialetto diverso, tradizioni diverse. Che ricchezza! Nei paesi del Nord, ove tutto è omologato, non esiste più il dialetto, lo parlano solo gli anziani, che noia! Che tristezza! E poi ogni paese era un teatro a cielo aperto, come la Napoli dei De Filippo e di Totò. C’erano personaggi unici, speciali, anche se analfabeti, genuini, che solo nel dialetto potevano esprimere tutta una ricchezza di espressioni, di risus festaiolo collettivo. Ricordiamo il “De Risu” di Aristotele, cui Eco fa eco in “Il nome della rosa”. Vico designa con l’espressione logica poetica il modo con cui gli uomini dell’età eroica interpretarono il mondo, perché la loro conoscenza (logica) non fu razionale, compiuta cioè con l’intelletto, bensì fantastica perché attuata con l’immaginazione (poetica). Dice Enea Biumi: La terra in cui si nasce è come una madre. Ce lo insegna il Foscolo in quel prezioso sonetto che inizia con “né più mai toccherò le sacre sponde”. Ed oltre ad essere madre è anche sacra. Questi due termini di maternità e sacralità ben si addicono al volume “l’unicità della Lucania: un approccio fotografico e poetico” Heidegger: La terra è il luogo da cui ha origine l’esistenza umana, la materia nella quale siamo radicati e che spesso ci sfugge perché distratti dai problemi quotidiani. La terra è la radice e la fondazione, mentre il mondo è il contesto e il luogo dell’esistenza umana. Come se fosse possibile, all’Alba Lucana non annunciare il nuovo giorno. È come “Sempre nuova è l’alba” di Rocco Scotellaro. In Lucanità serafica: Svegliarsi senza chiedersi … del dì transumante. C’è il ricordo della transumanza: il tempo ultra-essente, trascendente per eccellenza. La Basilicata è una regione ancestrale e sconosciuta, che affascinò Levi, antropologi, come De Martino, scrittori, poeti e registi, da Pasolini a Gibson, viaggiatori di ogni tempo. Come ha sottolineato Monetti: “è stato un susseguirsi di emozioni, un intensificarsi di rapporti umani, affettivi e di studio”. I poeti hanno evidenziato che questo è stato un sogno, ma soprattutto un omaggio alla loro terra, con le sue tradizioni popolari, i riti arborei, il dialetto, le espressioni linguistiche e fotografiche.
Il “familismo amorale” di Edward Banfield non rende merito dell’immensa ricchezza spirituale legata al valore della famiglia nella nostra Lucania. In tempi in cui si considerava il nostro mondo arretrato, dovuto anche alla visione leviana (“Cristo si è fermato ad Eboli”), qui si sperimentava già la famiglia “liquida”, come la società liquida baumaniana, una famiglia allargata, che inglobava vecchi e giovani, cugini, parenti. La famiglia è tutto. Eppure, Levi è voluto tornare ad Aliano. Come mai? A Potenza ancora so usa l’espressione “mi fra”, per indicare i parenti. Basti ricordare “Il mito della Lucania sconosciuta” di Tanino Fierro; Giovanni Caserta, in “Viaggiatori stranieri in terra di Basilicata” (Strutt, Lear, Du Camp, Lenormand) scrive: «è noto che non pochi viaggiatori, prima di addentrarsi nelle terre pericolose della Lucania e della Basilicata, usavano fare testamento… si fornivano di lettere di raccomandazione, con cui si presentavano a personaggi e autorità delle terre visitate, quale forma di accreditamento. Del resto, essendo quelle terre prive, come si direbbe oggi, di strutture ricettive, un viaggiatore, per lo più, faceva affidamento sulla ospitalità, che diventava così una necessità ed un dovere. Di qui la tradizione e forse anche il mito, di una ospitalità lucana, e meridionale in genere, che si faceva risalire la mondo greco… si parlava di sacralità dell’ospite». L’hospes è un termina ambivalente: è nemico e amico, è ospite e il cospiratore. Vorrei ricordare a proposito anche “La Basilicata di Luchino Visconti” di Teresa Megale. L’unicità della Lucania è una poetica “Basilicata coast tou coast” come quella di Papaleo.

  Vincenzo Capodiferro






martedì 10 settembre 2024

Anna Maria Scocozza - Floriana Porta, SIAMO FATTE DI CARTA, (Arte, Poesia e rinascita al femminile), Ventura Edizioni

 


Davvero interessante e, oserei dire, originale questa raccolta che accomuna parole a oggetti fatti di carta, dando vita ad una ecfrasi che non ha necessità di ulteriori spiegazioni se non l’accompagnamento dell’occhio e della voce recitante. Spesso parola e figura si intrecciano dialogando spontaneamente e amalgamandosi in modo naturale e semplice. Attenzione: semplice, non semplicistico. Il richiamo iniziale all’arte giapponese del kintsugi suggerisce che le rotture si possono riparare con abilità e intelligenza. Ma dove sono le rotture? Sicuramente nella vita quotidiana fatta di successi e insuccessi, di promesse e delusioni, di sogni e di cocente realtà. Come ben sottolinea Floriana Porta nell’introduzione la sua ispirazione, che segue parallelamente quella iconografica  di Anna Maria Scocozza, è dettata dal “tempo, dalla metamorfosi, dalla forza, dalla debolezza, dal kintsugi, dall’acqua, dalle radici e dalla luce. Se la missione di Anna Maria è dare forma e corpo alla carta, la mia è di darle voce e respiro.” Sotto questo aspetto allora si tratta di allontanare la superficialità delle cose per procedere alla ricerca dell’intensità dei rapporti umani. Il fiume eracliteo che passa e scorre sempre nuovo e fresco non dà tregua, ma se ci si ferma a riflettere riusciamo a scorgere in questo suo incessante andare gli aspetti più interessanti e “nostri”, tali da farcene una ragione consapevole di ciò che la vita comporta.

Cucio e riparo tutti gli echi  / che orbitano dentro me. // Piaghe, ferite, / cicatrici e lacerazioni / nel loro concatenarsi, / si faranno portatrici di luce / nell’orizzonte della poesia.

Come un elemento  apotropaico la poesia diventa di per sé vivificante, rigenerante e tutto  sommato anestetizzante. La metamorfosi è appunto dettata dalla poesia e in essa si fa corpo e anima, ispiratrice di gesta, nemesi del male, palingenesi finale.

Nella sinuosità del verso  / appari tu, donna // come un roseto di gemme / ti frammenti e ti sveli  /ad ogni sua carezza / Infuocata d’amore // ma lui non si fa scrupoli / ti deride, ti schiaffeggia / e poi ti uccide (…)

“Siamo fatte di carta” diventa così un progetto ambizioso di riscatto e di denuncia. Tutto comunque nel nome e per conto della poesia e dell’arte costruita su pezzi di carta che parlano  essi stessi di poesia.

 

Enea Biumi


mercoledì 31 luglio 2024

Raffaela Fazio “Gli spostamenti del desiderio” (Moretti & Vitali Editori, 2023)

 


            


 

L’attesa è proposta all’ineludibile fonte che si abbevera di desiderio. Un desiderio mutante, multiplo, estenuante, assiso alla richiesta riposta verso l’appartenenza (qualcuno avrebbe detto) alla figura dell’angelo, della concessione altra che già precede la domanda. Come muta allora la condizione che non è solo movimento nello spazio ma anche, e in particolar modo, mutamento di stato, travaso di forma contenente una materia solcata da interpretare. E’ l’edito di poesia “Gli spostamenti del desiderio”. L’autrice, Raffaela Fazio, tenta forse di avvicinare due punti lontani, due stati di coscienza, due vissuti, attraverso la calibratura di ciò che diciamo forza desiderante che in quanto tale è energia creativa, volontà progettuale. Già dai versi brevi, delicati, misurati emerge una sensibilità vibrante di tipo spirituale, all’interno di una proposta che spontaneamente collega impulsi sapienziali propri di una tendenza multiculturale in dialogo mai sincretista ma più esposta alla comprensione della realtà multiforme come mosaico policromo. E’ diretto e limpido lo sguardo di Raffaela Fazio; la sua architettura testuale è volutamente lineare, votata ad una espressività dicibile nella conduzione del sentire in natura e luce: “luce che filtra/ come sogno ripetuto// pare si spezzi/ e invece si rivela”. C’è speranza anche nel dolore, nel lutto, tema della prima sezione, perché la parola insorge, chiede un riscatto dall’abisso, dalla perdita terrena, propone il racconto che accompagna quale fosse uno stato nomade (così come accenna per certi aspetti la citazione da Proust). Ma il dono si concentra in una musicalità rapita che sembra coinvolgere l’armonia di una voce in lettura o in preghiera. La temporalità si fa metro di attenzione, quella prudente ma sincera che percepisce la valenza ontologica dei dettagli, dei frammenti rivestiti di una identità che li fa segnali nell’acutizzazione esperita dei travagli. La misura docile è radicata nella ritmica prestanza di una metrica che, in punti reiterati, si distingue per reazione in una visibilità di riscatto morale. Non più lo storico aut-aut di kierkegaardiana memoria, ma una sintesi raggiunta di estetico ed etico che apre al religioso nella sua più ampia accezione. La bontà creaturale emerge in constatazione diretta: “Il corpo che si tende/ la nebbia che trattiene/ la nebbia che nasconde/ il corpo che le appartiene/ hanno nel sogno/ la stessa natura”; quale processo che l’autrice definisce in alcune poesie anamorfico, la messa in evidenza del soggetto originale fa sì che lo sia in modo tale da essere riconoscibile solo se osservato secondo certe condizioni, da un preciso punto di vista. In fondo anche la complessità dell’esperienza anagogica nella teologia dogmatica ci permette il punto di fuga, il guardare come in uno specchio il nostro essere guardati da Dio. Molti poi sono i riferimenti a nomi di particolare spessore a cui l’autrice guarda: Saramago, Dostoevskij, Yourcenar, Carver, ma anche agganci al mondo antico, alla cultura greco-latina; poi vari gli accenni all’arte cinematografica, al suo rappresentare l’immaginario che si solidifica, diviene realtà. “Forse è così che impara la misura/ chi ascolta/ dopo anni di clausura/ il rompersi inatteso dei portali”, come le prospettive di discernimento acutizzano la capacità di ricezione e la proiettano verso stadi di consapevolezza struggente, emozionale, non passiva rispetto alla caducità apparente degli esiti: “Guarda bene./ In ciascuno, erbe sane e veleni./ Ma è la dose/ che dà forma al tutto./ E’ il suo impatto/ il suo costo...”. Si identifica anche un’attenzione successiva mossa dal senso della vista, in una sorta di retina inversa che detiene, in ulteriore sfumatura, quella composizione dei temi colti già dal significativo esordio che fu di Valerio Magrelli “Ora serrata retinae”, percorso esemplare nell’affrontare il tema della messa a fuoco, della difficoltà insita nel tentativo di raggiungere una conoscenza nitida. Vibrano così pensieri e tempi, intermittenze e distrazioni, respiri ed echi “della vita/ questa vita/ che pretende una traccia/ e si scorda/ di lasciare la presa// fino a che/ sarà infine l’attesa/ non risolta”. Nell’ultima sezione del libro, Raffaela Fazio si concentra su figure che nella storia hanno espresso con il loro esempio la voce che condanna ogni discriminazione, la necessità di trasformarsi in operatori di pace, la vicinanza agli ultimi, la tenace speranza di poter alleviare anche solo la più piccola sofferenza incontrata in chi ci è prossimo.

         Andrea Rompianesi

 

 

 

 


domenica 28 luglio 2024

Eimear McBride “Strange Hotel” (La nave di Teseo, 2024)

 


                        


 “Porta. Serratura opaca graffiata. Infila. Gira la chiave. Non riesce. La scuote. Si appoggia. Resta ferma. Adesso riprova. Prova ancora, ancora. E, a un altro tentativo, ecco. E’ dentro”. Così la narrativa folgorante espressa dalla scrittrice irlandese Eimear McBride nel suo “Strange Hotel”, tradotto in italiano da Tiziana Lo Porto. La figura femminile raffigurata in una stanza d’albergo a concentrare pensieri dell’immediato filtrare sensazioni di un passato prossimo e remoto. Le anonime stanze d’hotel di varie città diventano un unico claustrofobico spazio d’interno dove percepire le fragranze angoscianti della condizione umana allo scorrere ineluttabile del tempo, nella reiterata aspettativa che domanda attraverso gli oggetti definibili nei ruoli e nelle differenze concesse della presa d’atto. Ricordi, amori passati e fugaci, insofferenze, malesseri vitali compongono la partitura di una pagina in cui lo stile letterario emerge finalmente in una realizzazione testuale oggi davvero rara. L’interpunzione grafica, qui concentrata principalmente sull’uso del punto fermo, imposta un evento scritturale a flusso di frasi brevi concatenate che incidono la conduzione di un ritmo assertivo finalizzato a determinare una procedura a scatti continui. Eimear McBride sembra aver assorbito alcune tipologie espressive di narrativa d’interni; pensiamo, ad esempio, ad un esito particolarissimo come “La stanza da bagno” di Jean- Philippe Toussaint. Le cose assumono il potere di riflettere, in quanto oggetti della nostra osservazione, interpretazioni visitate nella molteplicità degli spunti e delle sensazioni. Le vicinanze umane comportano dissidi, alternano attrazioni e fughe, compositi sillabari di un lessico oggettuale: “Le tendine marroni sono tirate su. Le altre sono spalancate. La maglietta di ieri in qualche modo si è ristretta. Suoni di sesso dappertutto”. E poi si colgono rimpianti e disprezzo, indugi e rovelli, desideri e domande, come singhiozzi muti investigano insoliti protocolli, così transizioni avvertite conducono a evocazioni di giovinezza trascorsa. “Che piacere essere un corpo solitario che si fa strada nel tempo. Se solo fosse vero. Ma quale persona è in possesso di tutte le risposte che desidera?” si chiede l’autrice. Certo l’amore perduto, nelle sue forme di seduzione concreta ma anche onirica, galleggia nella continua, ossessiva composizione dei tasselli comparabili. La protagonista vive l’incontro occasionale come una sintesi di tensioni irrisolte aperte alla trasformazione in un’opzione accolta: “Poi all’estremo nord, in alto, un gabbiano passa di sbieco, grigio-bianco nel grigio che sbianca nella luce. Un altro. Un altro. E poi un altro... Lei guarda mentre una corrente li guida e li porta più lontano dove, suppone, c’è il mare”. L’angolazione della visuale conferisce al passo la complessità del gestire razionalmente le ossessioni, i dolori, dialogando con la propria coscienza e ponendosi nella ricezione levigata del confronto con la precarietà esistenziale. McBride insinua la determinazione del voluto o negato, del permettersi l’episodio dell’incontro intimo quando l’esclusione avvalora la sintassi del dicibile. Pulsioni e note compresse nell’autoanalisi destabilizzante la prevedibilità dei percorsi, inerente all’alternativa delle trasgressioni. Il clima d’incompiutezza tracima e deborda evocando amori perduti e ricreando l’aroma erotico delle stanze d’albergo. Qui, però, l’autrice impegna la parola in una avventura interiore dove il flusso della coscienza ridisegna il possibile incrociarsi delle varianti e ci porta nella direzione del rigore dialettico sulla prospettiva ad invito: “Affronta la luce tetra del lampione ma, senza volergliene, vai dov’era l’ultima volta. A quel punto guarda e vedrai il sole ammiccare a se stesso verso est”, ben sapendo dalla voce narrante che il passato non è mai stato davvero un’opzione e sentendosi come l’ultima di tanti ricordi.

                Andrea Rompianesi


mercoledì 24 luglio 2024

Silvia Comoglio “Margit” (Book Editore,2024)

 



  “Margit e un prato con fiori e farfalle dipinto a Terezìn” è lo struggente esito poetico di Silvia Comoglio, voce particolarmente significativa della sua generazione, che prende spunto da un disegno di Margit Koretzovà, fanciulla ebrea, realizzato nel campo di concentramento di Terezìn e attualmente conservato, insieme ad altri, presso il Museo Ebraico di Praga. Le poesie sono proposte nella versione italiana e in traduzione inglese per opera di Giorgio Mobili. I versi brevi, empatici, di Silvia Comoglio tendono a porsi quali voci, agnizioni a traccia solcante il molto spazio della pagina, il flusso nel limpido passaggio che si configura in segno e nota con apporto di corsivo e parentesi, nel tratto grafico di voce indicante dizione: “- sia, il vento, un serto-/ a filo di cuore/ (...soffio a cui tenerti/ traslucido di cielo,/ per esserti più alta/ del lume del tuo corpo...”. Tutto il gorgo abissale della sofferenza e del tragico epilogo, incide quel tratteggio lasciato ai margini, facendo emergere al centro la discorsività dei dati naturali, comunque insistentemente curati dall’osservazione aurorale ma già densa, acuta, profonda nella stessa leggerezza apparente dei toni, dei nitori, umori, terra, rose, cuori ancora proponibili, nonostante tutto. L’iterazione composta detiene il privilegio della rapida fluidità ritmica dell’essenziale udibile ombra che sovrasta il piccolo moto che si fa urlo intimo: “- ma, chi lo seda allora il cuore-/ dove tu mi gridi, questa, notte sacra?”; così la fronte è margine e ferita, disciolto avvento nella drammaticità sospesa e raggelata per la definizione di ciò che in appunto è altro, è dimora di una sospensione quieta, quasi fosse possibile il diramare assolto dei tremori, l’occasione rivedibile nell’ascolto notturno, nella predominanza sorda dell’inascoltato che orienta lo sguardo verso il punto di fuga, così le mani “poggiano a respiro/ dove è incedere di pieno/ mondo a precipizio”. Silvia Comoglio fa irrompere magistralmente l’alba in un contesto dove parrebbe assente ogni prospettiva riconoscibile; regala con versi incisivi e calibrati la visibilità dell’altrove. Nel disegno iniziale, fonte d’ispirazione, e nel testo autoriale si moltiplicano le ali, le risonanze, i possibili colori che vorrebbero ridisegnare un destino, il volto raggiunto dell’angelo. Una testimonianza, questa, che accende le lettere stesse e conduce a collegare Memoria e Vita, Vita e Eticità al Tempo, affinché il Tempo sia Umanità.

                                                 Andrea Rompianesi


sabato 20 luglio 2024

Massimo Morasso “Frammenti di nobili cose” (Passigli Editore, 2023)

 





Curiosa l’affermazione nel risvolto di copertina di questo libro di Massimo Morasso “Frammenti di nobili cose” dove si dice che si potrebbe parlare di poesia metafisica se non fosse per la fervida adesione a una realtà insieme materiale e spirituale che caratterizza il dettato dell’autore. Ma la metafisica, nel suo senso più proprio, come riflessione sull’essere delle cose, e anche delle cose ultime, è propriamente un orizzonte che comprende gli aspetti più concreti del reale e, nello stesso tempo, l’ente più alto e trascendente, “oggetto” della teologia razionale. Qui, nello specifico titolo di Morasso, sembra aprirsi una inquietudine vissuta però con la capacità di farsi riflessione, attesa del sentire, possibilità di ritrovati conforti che apparivano sbiaditi... “Nel mio messaggio, l’anima si affina,/ cerca le vie per crescere, si tempra/ sfociando nell’immagine sorgiva/ di un puro, interminabile fluire” scrive il poeta. Spiritualità è combinazione di elementi che vivono interpretazioni nuove, feconde, articolate in lucori serali dipinti con parole evocanti i suoni delle metafore. E’ incessante la domanda che conduce attraverso i passi, le apparenze, le trappole, per riemergere da continenze bellicose che a volte cedono i confini ed eruttano in un privato opporsi tra le guglie della codificazione; oltre il verticale apporto quando qualcosa si evidenzia nella sua pluralità: “In principio fu la Parola/ e, per sua grazia, i mondi generati:/ la realtà.// Ma il tempo passa, e tutto si dimentica.” Massimo Morasso ama i silenzi, anzi “la duplice natura del silenzio” perché l’abitare implica opzioni che responsabilizzano nel quotidiano la nostra libertà relativa. Allora diventa possibile cogliere quel niente di speciale che però l’autore vede come “il bene di vivere”, l’incauto assolvere la trepidazione di una natura contestuale che apporta tempi e moti, riposi e orditi, mestieri e passaggi, rimbalzi e cadute, sentimenti e distanze. Poi la constatazione di una evidenza: “C’è in questa materia/ che geme e stride/ un vuoto un’attesa/ un dipendere da Dio”; così è il ritrovare i punti del tempo da collegare restituiti agli spasmi, ai giochi di luce, ai venti, ai pensieri evoluti che tratteggiano nostalgie assorte. A volte il passo poetico sembra quasi trovare gradini d’inciampo, interruzioni di flusso con iati irregolari infissi in una tramatura divelta e feriale. “Idee tempo e artificio/ e il paesaggio è un paese di pinnacoli”, quasi forme che costringono a soste e variazioni direzionali dove subentra l’alienazione: “I social. L’a vanvera si parla/ e rotola sull’oggi, e gonfia il vuoto dello smisurato/ desiderio d’esserci, di dire”. Il libro di Massimo Morasso si conclude con un omaggio a Caproni e con il poemetto “Spine”, scritto in occasione di una mostra dell’artista Roberto Pietrosanti nella quale il poeta vede “Risolta in cosa da un cannello di fuoco,/ questa lastra d’ottone, questa lastra-bozzato/ scavata a forza, abrasa, violentata”. Massimo Morasso nel suo testo ribadisce così la convinzione “che la bellezza del cammino è nel cammino”.

Andrea Rompianesi

martedì 16 luglio 2024

Alberto Mori “Posture” (Fara Editore, 2024)

 

Un fotogramma in copertina tratto da un film di Michelangelo Antonioni inaugura la scelta delle “Posture”, titolo di poesia di Alberto Mori. Il libro si suddivide in tre parti: “Azione”, “Natura e spazio”, “Set”. La disposizione è quella dei fotogrammi che s’insediano sulla pagina a dirsi segni, tratti, posizioni definibili all’interno di uno schema quasi geometrico a contatto con la luce, la sua rilevanza incauta che, a volte, va schermata per poter mettere a fuoco una visibilità sostenibile nei modi e nei tempi della ricezione: “L’occhio risale/ al messaggio appena chiarito/ Con avvertenza d’essere informato”. I dati corporei evidenziano il tracciato leggibile attraverso la riconoscibile appartenenza ad una visibilità funzionale dove emergono dita, polsi, capelli, membra esposte all’azione, appunto, delle molteplicità; delle diversità multiple, dei conoscibili gesti rielaborati in scatti fotografici mossi alla rivedibilità dell’osservazione autoriale, “Saliscendi delle ginocchia/ Spinta per ritmo motorio/ I fiati allungano/ Accorciano distanze/ Nello sforzo la strada scrive”. E’ una danza di movimenti ritratta con la lucidità della posizione trasformata in verso, struttura essenziale riprodotta nella tracciabilità formale. E’ una evidenza della visibilità che si proietta in uno spazio decifrato nella sua determinazione di contenitore, quale deposito di effetti tracciati nella solidità dei particolari inclusi in una riconoscibilità di episodi minimali che hanno come sfondo una proiezione naturale: “Poi l’orizzonte/ denota gesti solari/ dissemina luoghi/ nell’anima del cielo”. I versi sempre brevi, essenziali, materici, compongono una tessitura decifrabile nell’aroma quotidiano del dato episodico, capace di evocare categorie primarie; sapendo, ad esempio, che “il passato” a volte può essere “un viale rettilineo e vuoto”. Si coglie un ritorno di echi, una ripetizione di voci, emissioni diffuse ed energie connesse, sussulti vibrati e conduzioni indicate. Poi Alberto Mori va ad allestire una sorta di set cinematografico nel quale le figure assumono posture rivelanti movimenti, azioni o soste interpretabili come segnali che veicolano stati d’animo, storie e possibilità inespresse, davvero “La svolta della vita avvenuta ”All’intersezione angolare”; come una “Ripresa in campo lunghissimo” per fissare sulla pagina la contingenza dei fatti e trasformarla in destino. Alberto Mori qui si conferma nuovamente attento osservatore e interprete poetico di tutti quei rapporti tra ciò che diciamo “io” e ciò che diciamo “mondo”.

                                                                                                                                              Andrea Rompianesi

 


mercoledì 10 luglio 2024

Imperia Tognacci, Diario di una samaritana, Genesi Editrice, Torino, 2024

 

È necessaria una buona dose di autocontrollo del proprio dolore per esporre al pubblico una vicenda delicata e complicata come quella narrata da Imperia Tognacci. Si tratta di un percorso attraverso la malattia del marito, che lo condurrà alla morte, vissuto con amore e abnegazione in una dimensione e comprensione dell’altro fino all’estremo sacrificio di sé. Un titolo più consono non poteva esserci. È il samaritano colui che, nella parabola di Cristo, si prende cura di un ferito, lo assiste e lo aiuta. Allo stesso modo  la moglie prende sulle proprie spalle la malattia del marito e, ben sapendo che non ci sarà salvezza, farà di tutto per non impensierire lo sposo il quale continuerà a credere nella guarigione. Tradotto in questi minimi termini la vicenda potrebbe risultare scontata, come scontato può essere l’amore coniugale. Ma ciò che ci narra Imperia Tognacci va ben al di là della pura e semplice narrazione. Non per nulla l’autrice ha la statura e la bravura di una poetessa profonda e altamente riflessiva. Così la storia si amplia e si contorna di dramma e di passione condotti su un filo teso tra la vita e la morte, tra il pianto e il sorriso, tra la speranza e lo sconforto. Molto spesso, e in forma sottilmente negativa, si sente parlare di crocerossina. Ecco: la crocerossina  è quel tipo di donna che senza ottenere nulla in cambio opera tra coloro che più ne hanno necessità. In questo caso la crocerossina-samaritana-moglie diventa il simbolo di una dedizione assoluta: perinde ac cadaver, come direbbero i gesuiti. Giustamente il curatore dell’opera, nonché critico letterario sensibilissimo, Sandro Gros-Pietro, confessa la sua commozione dinanzi a uno scritto talmente intenso, intimo e accurato che trascina il lettore verso dimensioni del dolore inesplorate. Quasi fosse un’analisi tecnica dettagliata, lo scritto di Imperia Tognacci ci conduce nell’intimo delle sue sensazioni che immediatamente diventano nostre, con una sensibilità veramente straordinaria accudisce situazioni drammatiche trasformandole in momenti topici del dolore umano. L’indiscussa religiosità della scrittrice fa sì che le sue considerazioni diventino di conforto e di fiducia: in fondo, come si legge nei Vangeli, la vita non è di questo mondo. L’eternità, nascosta dalla morte, diventa allora il punto di arrivo, cancella la possibile disperazione e l’angoscia di un futuro amaro e crudele, si avvia verso un percorso di luce. Tanti sono i segni e i simboli di fede presenti in quest’opera e tutti quanti procedono verso l’unico risultato possibile: la morte non sconfigge la vita, ma la riporta nell’alveo primigenio con la coscienza che non esiste nient’altro di più grande, misterioso e assoluto di Dio, che trionfa su tutto: sull’amore, sulla debolezza umana, sul dolore, sul tempo. La speranza, nonché la consapevolezza, nasce da qui. Dal fatto che alla fine la sposa ritroverà lo sposo e l’incontro non potrà che segnarne la felicità per entrambi. “Manifesto la mia individualità in ciò che la vita mi riserva e medito sul mistero della vita e della morte e le accetto entrambe con il cuore teso alla speranza. E il vento, che già porta il sentore di una nuova primavera, mentre diffonde nell’aria certezza di risvegli, di fioriture, di nuova vita, mi sfiora il volto e sembra dirmi che il desiderio, che da tempo il mio cuore accarezza, si realizzerà. Un giorno non lontano attuerò il sogno incompiuto di mio marito. Mi imbarcherò su di un aereo diretto in Argentina. Giungerò, anche per lui che non è più, fino alle cascate di Iguazù.  Sì, diventerà realtà il mio sogno. E nell’infinito dell’acqua scrosciante, del verde della foresta e dei colori dell’arcobaleno, tu sarai con me.” Termina così il racconto: nell’intima unione spirituale di due cuori fatti l’uno per l’altra, inseparabili, nonostante tutto, perché l’amore supera la barriera della morte e trionfa. Una lezione di fede, questa, che Imperia Tognacci ci offre come cartina di tornasole di un tempo ammalato, esso sì, di individualismo e indifferenza: malattie ben peggiori, sembra suggerire la poetessa, di quel male corporeo assoluto che si chiama tumore.

 Enea Biumi

 


martedì 9 luglio 2024

Marco Plebani, DECIMO DAN, ed. La Gru, Latina, 2022

 



Ho trovato Decimo Dan come se fosse una panoramica a tutto tondo su che cosa sia il senso della vita, i suoi perché, i suoi intoppi, le sue piacevolezze, le sue incognite. Da una parte la felicità, anche di un solo momento, dall’altra la tristezza ed il dolore, cui si accompagna, come ombra benevola, un’ironia acuta che dà all’insieme il giusto apprezzamento. “Quotidianamente abortisco amore, / io sono un poeta / e dico la verità / sotto forma d’enigma.” Ecco allora che si disvela il valore quotidiano del vivere, anche in contrapposizione ai propri desideri e alle proprie intenzioni. “Chi mi risveglierà? / Chi mi risveglierà? /  Chi mi risveglierà/ da questo torpore ipno-paranoideo?”. È un cammino che si esprime attraverso la dedizione della parola e l’espressività dell’immagine che ne sorte. L’immediata sensazione è di trovarsi di fronte ad un intreccio di prospettive che sorprendono: “Voglio un verso senza pause e scuse”. Infatti le espressioni usate sono vive, genuine, forti, tentano di esprimersi come se uscissero dal fiume della dimenticanza, il Lete,  per rivendicare l’ἀλήθεια, la verità dei Greci. “Il naturale tramutar del tutto / porterà via volendo / un’umanità disumanizzata / da pornografia e videopoker.” Emerge allora la possibilità di cogliere il proprio limite nei segni-segnali che decifrano l’io in rapporto al mondo in una scansione che segna il desiderio di comprensione: di sé innanzitutto, e di chi ci circonda (discepoli, politici, città).


Enea Biumi

 


lunedì 1 luglio 2024

Marco Giovenale “Cose chiuse fuori” (Nino Aragno Editore, 2023)



Il flusso allitterante del titolo espone quelle cose prima racchiuse e ora esternate, irradiate nella prospettiva di una lacerazione che responsabilizza i frammenti, granuli sovraesposti attraverso la peculiare abitazione della pagina per processo di cut up come detto da Laura Pugno nella nota in quarta di copertina. Scriviamo dell’opera in versi “Cose chiuse fuori” di Marco Giovenale. Lavoro che da subito appare felicemente innovativo e originale nel processo di costruzione linguistica, attraverso spazi, parentesi, inquadrature, interruzioni, attivazioni lessicali impreviste e riconducibili a tracciati alternativi. “Prima di uscire con due gesti/ misurati rimette in distrazione/ lo straccio azzurro del bagno o lago”, come un’anticipazione di segnale acustico che comporta balzi tra le pulsioni di una fisicità disegnata nelle e intorno alle cose. C’è, nell’altissimo esercizio stilistico di Giovenale, una considerazione versificata degli elementi assolti dal dovere di funzioni e proiettati in uno spazio di confronto e di concessa opzione. Come stagioni schermate e scaltre, così ipotesi di sosta dove l’allungo asimmetrico detiene la compattezza solida del cuneo. Il taglio nel verso allude e spesso non completa ma devia in modo da oltrepassare l’atteso per ampliare l’osservazione verso un ulteriore riquadro, esprimendo l’esigibile accorato procedere delle irregolarità temporali. La presa d’atto allontana ogni funzione consolatoria e vuole trattarci duramente in una accentuazione della visibilità drammatica quando implica proiezione: “Full. Pieno qui di/ storpi che convergono – a trovare il morto/ sul celeste, alle righe orizzontali”. Le pluralità linguistiche, gli spazi, i corsivi coordinano la mappatura di ciò che, anche se proiettato all’esterno, si fa solido e inamovibile. In un’epoca dove si moltiplicano come in fotocopia scritture poetiche prevedibili e scontate, qui incontriamo un raro esempio di effettiva ricerca testuale capace di costruire passi talmente robusti da meritare l’indicazione dell’intera strofa : “Fontane, tritoni manierati, photoshop:/ nel parco vuoto è fitto di panchine/ vuote, a segmenti triti, di vento – logico,/ mezzo offeso, fronte strada./ La virgo stacca/salda insieme i file/ brevi dei porno, morso morso,/ il lavorato, delle ore al buio/ nella casamatta. E’ del custode.”; un vero e proprio cimento quasi cinematografico a sequenze interrotte e riassorbite nella procedura inusuale delle diverse elaborazioni dello stesso dato grafico. Il tutto non esclude minima provocazione e solida ironia, cambi di paradigma, echi di una critica alla cifra anche sociale delle pluralità viste, a volte, attraverso un processo non tanto indirizzato verso una “prosa in prosa” tautologica ma affine ad una scomposizione fotografica. Intarsi di segnali appuntati ridisegnano le corrosive effusioni ad intreccio e intervallo, quasi Marco Giovenale si ponesse nella possibilità di accentuare la persistente occasione di segnalare il punto trascurato che riaffiora dalla volontà interpretante della presa d’atto di ciò che apparentemente si dichiara oggettivo, mentre “a un getto del sottosole/ che scrosta gli smerigli e fa l’avaro” sembra detergere l’attinenza come ciò che riesce a dislocare le parti previste in una interpunzione fissata a ruolo diffusivo. Gli spazi della guerra come le ritirate conduzioni ad una domestica intrusione, “ha fatto molto freddo sul lato/ esposto a nord, dall’usciolo nel porticato/ inglese”, emergono indicanti. La completa appropriazione  della fornita capacità strutturale porta l’autore ad una versificazione di solidità diveniente, compatta nel compimento anche fonetico: “Reso e perso tempo, il tempo/ del sangue nelle commessure e ore/ cobalto, cianotipo singolare/ di giara e ringhiera parigina...”. Le tubolari infittite e sotterranee esplicazioni si confrontano anche con i lutti, le visite oscillanti, le debolezze termiche, le attenzioni parziali, le possibili ammissioni di un parlare che, forse, conta. “Cose chiuse fuori” di Marco Giovenale è davvero esito poetico tra i più originali e riusciti di questi anni.

                                                                                          Andrea Rompianesi

 

martedì 25 giugno 2024

Andrea Rompianesi, Riviere, Puntoacapo Editrice, Pasturana (Al), € 12,00


 

Il poeta Andrea Rompianesi continua, anche in questa sua ultima opera, a scandagliare in una ricerca costante e minuziosa il rapporto esistente tra realtà e metarealtà. Sembra non accontentarsi del hinc et nunc, non gli è sufficiente uno sguardo semplicemente indagatore. Vuole penetrare l’apparenza per comprenderne la sostanza. Come suggerisce nel risvolto di quarta copertina: “l’essenza sta alla potenza come l’esistenza all’atto”, o nella citazione di Novalis che introduce la quarta sezione: “La poesia è il reale, veramente assoluto. Quanto più poetico, tanto più vero.” Le liriche suddivise in quattro sezioni, pur avendo avuto una datazione differente (le prime tre appartengono al 2007, l’ultima è del 2023) hanno un medesimo indirizzo ed una medesima intonazione: la ricerca dell’unicum esistenziale, che si traduce in una indagine materia-spirito delle cose, della natura, degli oggetti riflettenti l’umano nel suo percorso affluente di domande irrisolte. In effetti, le prime tre sezioni, lontane sì circa un ventennio, ma nel concreto riposte in un’atmosfera atemporale, hanno l’appiglio veloce ed istintivo che segnano il desiderio giovanile del sapere, mentre l’ultima parte svolge il compito del riassunto sinottico in un clima di meditativo sentire. Tuttavia, se non ce lo avesse suggerito il poeta stesso, forse non ci saremmo avveduti di questa pur minima differenza, perché alla fine i versi rimangono sempre dettati da pennellate fulminee, a volte accecanti, del tutto intrinseche a ciò che è il fine della poetica di Rompianesi. Ritorna anche in questa silloge quello che avevo chiamato in altre occasioni l’elemento filosofico che intende disvelare attraverso gli oggetti la natura costitutiva della realtà. Lo dimostrano, se ce ne fosse bisogno, le citazioni che appaiono nelle varie sezioni e che non sono messe lì a caso, ma con uno scopo ben preciso: come fossero tante intonazioni per dare il “la” alla sinfonia che sta per iniziare. Così per quanto riguarda la prima sezione l’aver messo in rilievo i versi di Sereni che sottolineano la presenza-assenza delle stagioni, in particolare dell’estate, contribuisce a crea il climax che evidenzia una presa diretta sull’evolversi della natura in rapporto ai manufatti dell’uomo. Risulta allora sincronico il passaggio tra “sedie garitte operose fameliche” e il “connubio su cieli estivi simposi”, dove si intravede un rimando, quasi un colloquio, gestito in termini sintattici nominali, atto a suscitare una visione frammentata della realtà, che nel frammento tuttavia ricerca l’unità. La citazione di Fortini che anticipa il secondo riquadro aggiunge all’elemento stagione l’elemento del mese. Il lettore viene indirizzato a cogliere il senso di ciò che è la caratteristica di questo periodo attraverso inquadrature precise, colte nel momento di maggiore intensità (“insenature o golfi / saliscendi vegetali / anemoni segugi”; “aspro limone acefalo / buccia contorta ibrida / gialla mutata sfida / lucida rotonda danza”). Proseguendo nella lettura la terza sezione ci offre una particolarità stilistica esaltando un differente modello di scrittura poetica. I versi hanno infatti una sola linea orizzontale, quasi a dettarci visivamente l’orizzonte ampio del mare (nonché del tempo) e quindi del nostro stesso esistere in rapporto all’oggi, finito e contingente. I versi sono introdotti da una quartina di Mario Novaro (fratello del più famoso Angiolo Silvio) che affronta, in maniera non certo semplicistica, il libeccio dando in tal modo il via a una serie di immagini che si avvitano attorno a emozioni e sensazioni di una realtà circostante che si avvale di citazioni in metacromotipia restituendo al lettore la visibilità propria della natura (“per aranceti in polpe e scorze morigerate implose o di  palmeti”; “el culto a la vida esorbitante ammanco o dicerie silvestri”). Siamo così giunti all’ultima sezione che, come anticipato, ha la peculiarità di evidenziare il lato riflessivo (meglio filosofico) della poetica di Rompianesi. In un gioco di specchi la maggiore descrittività presente in queste pagine ci racconta che la realtà poetica supera il contingente. L’ontico non può raggiungere, se non in poesia, l’ontologico, cioè l’essenza dell’esistenza. In “Riviere” Andrea Rompianesi ha voluto scalare questa vetta, scavando il più possibile nella realtà per carpirne il nascosto, l’assoluto, l’ulteriore.

 

Enea Biumi

martedì 18 giugno 2024

NUCCIO PROVENZANO: ALTOMONTE E DINTORNI

 




NUCCIO PROVENZANO: UN LUCANO CHE AMA ANCHE I POSTI IN CUI VIVE……

ALTOMONTE E DINTORNI è un reportage non solo fotografico, ma storico-artistitico di NUCCIO PROVENZANO, mio compagno di collegio negli anni 60 del secolo scorso a Lagonegro nostra città studi.

Ho letto “cose” della Calabria, di cui non avevo conoscenza specifica ed ho molto apprezzato lo stile essenziale di NUCCIO, attento ai vari aspetti delle comunità osservate. Ho apprezzato l’impostazione del lavoro: di storico, di cultore della bellezza e di valorizzatore ulteriore ….. di ALTOMONTE, il paese dei suoi affetti, dove TOMMASO CAMPANELLA ideò la CITTA’ DEL SOLE. Di Altomonte, ho apprezzato lo scorcio del borgo, nato BALBIA poi BRAHAILLA, la descrizione della CHIESA DELLA CONSOLAZIONE e la descrizione del CONVENTO DEI MINIMI (obbligo di immediata visita). 

Dell’itinerario I sono stato colpito dal paesaggio di FIRMO E dal PORTALE DEL CONVENTO DOMENICANO.

torre normanna XI sec.

Dell’itinerario II porto con me – così ben descritto - il paesaggio montano di SAN DONATO di I NINEA e la chiesa di SANTA CATERINA VERGINE di SAN SOSTI. 

Del terzo itinerario ho apprezzato la descrizione della CHIESA di SAN MICHELE ARCANGELO di MALVITO e la valle dei MULINI.

Del quarto itinerario mi porto dentro la chiesa di SANTA MARIA DEL SEGGIO di TARSIA ed anche la pitta cu i iuri i maiu, una focaccia con i fiori di sambuco che fioriscono a Maggio ed anche la DECRIZIONE delle terme di SPEZZANO ALBANESE.


Nel V itinerario ho colto con interesse e affetto FRASCINETO (mio nonno NICOLA , un RAGAZZO del 1899 negli anni 50 dello scorso secolo faceva il “MASSARO” in quella zona) e porto con me la descrizione della chiesa di SANTA LUCIA.

Nell’ultimo itinerario proposto, terrò nel mio cuore il MUSEO di STORIA DELL’AGRICOLTURA e Pastorizia di MORANO CALABRO, il MUSEO delle ICONE E DELLE TRADIZIONI BIZANTINE di SAN BASILE e IL MUSEO PARROCCHIALE di SANTA MARIA DEL GAMIO a SARACENA- 

opera di Luigi Amato di Spezzano Albanese

Nuccio - in questo lavoro - non ha mai dimenticato di essere lucano dentro, sensibile all’approccio poetico con la realtà circostante SEMPRE!

 

CASTELSARACENO 18/6/2024 PROSPERO CASCINI

poeta lucano

già dirigente scolastico


Daniela Pericone “Corpo contro” (Passigli Editori, 2024)



Ci sono portici (forse quelli di Mark Strand, ad esempio) che favoriscono moti, mutamenti ma anche nascondimenti, accalorati percorsi dove rivisitare con grazia le abitudini del presente, così come le suggestioni che provengono dal passato. “Questo è il tempo che non mente” dice un verso riportato nella copertina di “Corpo contro” esito poetico di Daniela Pericone. La gioia è forse inutile? E poi quale sentimento nel dissidio vissuto tra natura e ragione? L’autrice sembra volersi identificare con la pratica di versi in equilibrio espressivo tra nitore e quesito, levigature che intervengono attraverso l’inesorabile contatto e impatto dei corpi, corpi contro appunto, dove le frazioni interpretate sulla distanza si pongono come oggetto d’osservazione riprodotta in forma evocante qualcosa non dichiarabile se non attraverso l’allusiva flessione sonora del verso. E’ un clima svelato nel quale “l’aria si muove appena/ anche le statue cadendo/ non fanno rumore”; emerge un incalzante gioco di ombre e di luci, una figurazione urbana che disegna le sorti dell’attesa, trattiene l’esultanza, avverte circa la compatibile ansietà indistinta. E’ qualcosa che induce a rivedere le possibili diramazioni di una espressività contenuta nella prossimità delle percezioni che Daniela Pericone stende sulla pagina in una volontà di decifrazione affidata all’immediato sentire le sfumature cromatiche così veicolate alla vulnerabilità stagionale e umbratile, nella conformazione che permette allo sguardo l’attinenza controvento, lo sfilarsi accadente e condiviso, tracciato nell’ipotesi plausibile. Riemergono allora recuperi d’infanzia, reperti di stagioni intrisi di segnali riconoscibili; “socchiusi gli occhi/ lame d’acqua e altitudini/ dal centro nessuna distanza”. Certo l’autrice evoca falcate di vuoto ma anche fiori e piante, giardini d’inverno, le fatiche dei ritorni. In una poesia particolarmente significativa si snoda la natura tersa dei notturni attraverso la solidità paziente delle radici, quelle che permettono l’intimità con la terra, una fisicità sofferta, quando “qualcuno dispensa consigli/ e biscotti della fortuna/ un vaticinio in ogni biglietto/ rimbalza dalla sapienza dei secoli”. La compattezza lineare e allo stesso tempo lieve della tessitura linguistica permette di realizzare l’equilibrio testuale nella determinazione dicibile del procedere attraverso la suggestione solo quando essa è in grazia di accenno, nella costante e pervasiva mobilità dell’accadente, cauta percezione rielaborata in quesito, indocile acquisizione di una imponibile difesa alla caduta che è ferita (difesa dei sensibili direbbe Riccardo Olivieri), tenendo presente che “...sei su un vetro/ sempre sul punto di rompersi”. Ed è ancora e sempre una contorsione di luci e fiati, respiri e paure; materia in gioco, così come frequentazioni solitarie, derive vorticose. “Dopo il crollo ascolta i segnali/ il buio è meno buio, il dolore/ non più acuto, o forse meno ostile./ Anche lo spreco delle nostre vite/ non sembra così grave...”; ci sono panneggi nei versi che trattengono uno stupore maieutico, un auspicio di comprensione segnato tra le apparenze di una dissoluzione. “La notte si tiene in disparte/ un varco al tepore/ una distensione del respiro-/ la tregua nei fuochi della battaglia”, come un bagliore di contrasto che giunge qui dalla visione delle opere di Caravaggio, l’attenzione che allontana la perdita, il continuo assorbito dalle ombre, l’ibridazione e quello che Daniela Pericone intende come l’incessante rumorio dei pensieri.

Andrea Rompianesi

 

Danila Di Croce “Dove ancora non siamo nati” (Puntoacapo Editrice, 2024)

Elevazione e, nello stesso tempo, rarefazione. Un divenire che s’infinita... sono parole di Ivan Fedeli, prefatore dell’opera “Dove ancora n...