Dalle animalìe e
dai bestiari di una origine nietzscheana erompe o, meglio, trapela la voce
insistente e reiterante di una poesia che oppone la determinazione assertiva ad
una sottostante dolenza. Dire “e/ pure/ procede/ dilagandosi a raggera, non
rivendica piccoli padri/ né magnifiche madri...” equivale, forse,
all’appostarsi intorno all’esigente dicibile, attutito ma immite, quale
rimozione dell’ingiusto. Scriviamo del libro di poesie “Fate attenzione a non
calpestare il testo!” di Enzo Campi. Esito evocante uno spirito drammaturgico
sulle orme di Zarathustra, sui confini levigati dalla domanda che è ferita,
oltre le disamine di cori e corsi, di ciò che non basta a sfiancare il
riproporsi delle ingiurie e delle cadute. Il sacrificio è termine di una
proposta assidua che scolpisce sulla pagina dell’autore una impalcatura stabile
nella natura compiuta, in sé dialogica, tra il profilo del poeta e quello del
filosofo. Enzo Campi sembra tracciare un solco che equivale a trattare il testo
nella sua esigenza contenitiva, affiorante dalla presunta ipotesi di sollievo,
estinta poi nella perdurante complessità dei referti. Il segno è talvolta
potenziale, come quesito accolto e temprato nella chiave atemporale e
ossimorica dei suggeriti passi a misura di corpi vegetali, animali, umani. Il
verso interroga nella forma più contratta, in altre fasi si allunga alla
consistenza del frasario. Il fronte quasi leggendario comporta florilegio di
giudizi; azzarda la sosta nella proiezione teatrale che dimensiona uno
slittamento verso l’epicentro della chiamata. “Tutto scorre, certo/ tutto
fluisce e rifluisce docilmente/ nello stallo in cui si consegna il derma/
all’attacco del chiodo di turno”; come reagire al dramma diuturno che lambisce
la vicenda del giorno, nel fluttuare incostante dei destini e delle ombre, là
dove il sacrificio rinnova la sua peculiare natura fra traumi e dettati.
S’impone il bestiario in forma che inquieta e devasta nella percezione di un
riprodursi di perdite eviscerate nell’integrato consumo come algida
osservazione che l’autore impone in una ipotesi di sconfitta: “in questo falso
tripudio di vita/ che tanto somiglia alla morte”. Ci sarà dissoluzione in danza
tra i versi del poeta che ritrova l’occasione di un richiamo quasi profetico
verso constatazioni di avvenuta incomprensione o piuttosto isolata e appartata
mestizia. Il canto indecifrabile della sirena si stempera nei dettagli
inquisiti e posti alla luce fioca della comparazione esegetica. E allora il
profondo è “crogiolo di scaglie e di squame”, nella proliferazione di umidi
cunicoli impervi e retaggi di gabbie, ma anche simulazioni di stadi, di
avvenute metamorfosi, quelle scandite da Nietzsche verso l’oltreuomo da
cammello, leone, fanciullo. Dal troppo umano emerge il germe dell’ingiustizia
che cavalca la storia, in quel tono tendente al sapienziale per rendersi
prossimo alla forse illusoria portata inerente all’idea “che il pianto/ non venga versato a caso/ su
questo o quel rudere”. La prigione della libertà, allora, quasi ci preserva
dall’infido oltraggio del reiterato, dalla ciclicità simbolicamente espressa
dal serpente, ma solo nella sua forma relativa in quanto immanente. L’eterno
ritorno sostanziale drappeggia il fronte delle righe condotte da Enzo Campi
all’esito di un continuo interrogarsi: “e fu così che cominciai/ a comprendere
il suo idioma enigmatico” perché “ci sono tavole./ Alcune recano i segni e i
segnali/ del linguaggio/ che ha generato i nostri avi”.
Andrea Rompianesi
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