venerdì 20 dicembre 2024

Enzo Campi “Fate attenzione a non calpestare il testo!” (Puntoacapo Editrice, 2024)


                               

Dalle animalìe e dai bestiari di una origine nietzscheana erompe o, meglio, trapela la voce insistente e reiterante di una poesia che oppone la determinazione assertiva ad una sottostante dolenza. Dire “e/ pure/ procede/ dilagandosi a raggera, non rivendica piccoli padri/ né magnifiche madri...” equivale, forse, all’appostarsi intorno all’esigente dicibile, attutito ma immite, quale rimozione dell’ingiusto. Scriviamo del libro di poesie “Fate attenzione a non calpestare il testo!” di Enzo Campi. Esito evocante uno spirito drammaturgico sulle orme di Zarathustra, sui confini levigati dalla domanda che è ferita, oltre le disamine di cori e corsi, di ciò che non basta a sfiancare il riproporsi delle ingiurie e delle cadute. Il sacrificio è termine di una proposta assidua che scolpisce sulla pagina dell’autore una impalcatura stabile nella natura compiuta, in sé dialogica, tra il profilo del poeta e quello del filosofo. Enzo Campi sembra tracciare un solco che equivale a trattare il testo nella sua esigenza contenitiva, affiorante dalla presunta ipotesi di sollievo, estinta poi nella perdurante complessità dei referti. Il segno è talvolta potenziale, come quesito accolto e temprato nella chiave atemporale e ossimorica dei suggeriti passi a misura di corpi vegetali, animali, umani. Il verso interroga nella forma più contratta, in altre fasi si allunga alla consistenza del frasario. Il fronte quasi leggendario comporta florilegio di giudizi; azzarda la sosta nella proiezione teatrale che dimensiona uno slittamento verso l’epicentro della chiamata. “Tutto scorre, certo/ tutto fluisce e rifluisce docilmente/ nello stallo in cui si consegna il derma/ all’attacco del chiodo di turno”; come reagire al dramma diuturno che lambisce la vicenda del giorno, nel fluttuare incostante dei destini e delle ombre, là dove il sacrificio rinnova la sua peculiare natura fra traumi e dettati. S’impone il bestiario in forma che inquieta e devasta nella percezione di un riprodursi di perdite eviscerate nell’integrato consumo come algida osservazione che l’autore impone in una ipotesi di sconfitta: “in questo falso tripudio di vita/ che tanto somiglia alla morte”. Ci sarà dissoluzione in danza tra i versi del poeta che ritrova l’occasione di un richiamo quasi profetico verso constatazioni di avvenuta incomprensione o piuttosto isolata e appartata mestizia. Il canto indecifrabile della sirena si stempera nei dettagli inquisiti e posti alla luce fioca della comparazione esegetica. E allora il profondo è “crogiolo di scaglie e di squame”, nella proliferazione di umidi cunicoli impervi e retaggi di gabbie, ma anche simulazioni di stadi, di avvenute metamorfosi, quelle scandite da Nietzsche verso l’oltreuomo da cammello, leone, fanciullo. Dal troppo umano emerge il germe dell’ingiustizia che cavalca la storia, in quel tono tendente al sapienziale per rendersi prossimo alla forse illusoria portata inerente all’idea  “che il pianto/ non venga versato a caso/ su questo o quel rudere”. La prigione della libertà, allora, quasi ci preserva dall’infido oltraggio del reiterato, dalla ciclicità simbolicamente espressa dal serpente, ma solo nella sua forma relativa in quanto immanente. L’eterno ritorno sostanziale drappeggia il fronte delle righe condotte da Enzo Campi all’esito di un continuo interrogarsi: “e fu così che cominciai/ a comprendere il suo idioma enigmatico” perché “ci sono tavole./ Alcune recano i segni e i segnali/ del linguaggio/ che ha generato i nostri avi”.

                                             Andrea Rompianesi


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Enzo Campi “Fate attenzione a non calpestare il testo!” (Puntoacapo Editrice, 2024)

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