martedì 14 febbraio 2023

Claudio Bossi, Il picasass sopravvissuto al Titanic: la storia di Emilio Portaluppi, Margaretha Frölicher-Stehli: Germignaga e il Titanic, Macchione Editore, Varese, 2021

   

Ho insegnato Storia per una trentina d’anni. So cosa significa, sia come docente che come studente, la noiosa ripetizione di date ed avvenimenti. Possedere, invece, tra le mani documenti e testimonianze reali porta sia l’allievo che l’insegnante a recuperare passione e interesse, soprattutto quando questi attestati repertano situazioni significative e di rilievo.  È il caso di questi due preziosi volumetti di Claudio Bossi dedicati all’approfondimento di vicende e personaggi legati all’affondamento del Titanic.

Non si tratta, come ben specifica l’autore, di romanzo e pura invenzione. Ma di ricerche sul campo, in archivi, in colloqui coi superstiti o con i loro parenti, in registri, talvolta nascosti talvolta apparentemente insignificanti, e tuttavia fonti di inequivocabile valore. In tal modo il lavoro risultante è un preciso identikit di persone, avvenimenti, oggetti ruotanti attorno a ciò che fu nell’immaginario collettivo del tempo la grande e inimitabile operazione Titanic.

L’autore ci confessa di essersi interessato ed innamorato fin da ragazzo al mistero di questo mastodontico, impressionante e, per i contemporanei, inaffondabile macchinario. Da qui la sua curiosità confluita nella ricerca storica che ha contribuito a fare di Claudio Bossi il massimo esperto in materia. Non per nulla lo stesso autore è consulente presso Raistoria, il che ci induce a valorizzare il suo impegno e la sua credibilità, nonché la sua esperienza nella ricerca al contributo di verità su ciò che esiste a proposito del Titanic.

Ma non è tutto.

Infatti, attorno alle vicende del Titanic, Claudio Bossi costruisce la storia di quegli anni (la nave colpì l’iceberg che l’affondò nella notte tra il 14 e 15 aprile del 1912). Anni in cui tutto appariva proiettato verso un futuro di felicità e di benessere, anni cosiddetti della belle époque, fulgida stagione di divertimenti e di scoperte inaudite, ricca di nuovi monumenti eretti per il benessere della società (uno di questi, appunti, fu il Titanic), anni in cui l’orrore della guerra era lontano, inesistente, sebbene gli egoismi nazionalistici e il costante riarmo ne facessero prevedere l’incipit imminente. Allo stesso modo il racconto di quegli avvenimenti non si ferma ad esaminare solo le circostanze esterne, bensì analizza la società del tempo, la rigida divisione in classi sociali, ad esempio (prima, seconda, terza classe), la consapevolezza di una svolta e di un procedere tecnico capace di rivoluzionare il futuro.

In questo lavoro di ricognizione e di autenticazione, l’autore è ben consapevole che non può giudicare con gli occhi del terzo millennio. E ce lo fa sapere. Ecco un altro pregio dello storico. La capacità di sottrarsi all’oggi per immergersi completamente nell’ieri, e nei preziosi documenti che ha sotto mano, perché è solo nell’ieri, e nelle pagine del tempo ritrovate, che può scaturire un giudizio neutrale e una visione obiettiva.

Inoltre, insieme con la grande storia l’autore ci racconta la micro storia: quella locale, quella di uomini e donne che per fortunata coincidenza riuscirono a salvarsi dal naufragio per poi narrare, da testimoni vivi, l’accaduto di quelle tragiche ore. Ecco allora che nascono i racconti del picasass, Emilio Portaluppi, di Arcisate, miracolosamente scampato al disastro e di Margaretha Frölicher-Stehli, la cui descrizione si amplia in una visione storica sociale di un mondo da una parte povero, poco considerato e desideroso di ascesa sociale, dall’altra ricco, industriale e all’apice.

Quello che qui mi preme mettere in luce non sono tanto gli eventi che hanno caratterizzato i due personaggi quanto la circostanzialità delle notizie che Claudio Bossi ci fornisce intorno a loro. Del picasass ci fa sapere il travaglio degli scalpellini della Valceresio, il loro desiderio di emigrare, la loro volontà di cambiamento; della signora Margaretha l’autore ricostruisce la genealogia sia individuale sia industriale. Conoscenze, queste, che si aggiungono a quelle già riportate sulla grande storia.

Pagina dopo pagina, quindi, noi veniamo informati di un mondo lontano un secolo, ma che sopravvive grazie al lavoro di storico, alla ricerca documentale, all’analisi e alla sintesi di incontri personali e di interviste mirate.

Per chi volesse saperne di più consiglio il sito web www.titanicdiclaudiobossi.com, in cui si possono trovare ulteriori informazioni riguardanti quel fenomeno di ingegneria (ma fu davvero così?) che rappresentò il Titanic alla soglia del novecento.

 

Enea Biumi


 

lunedì 13 febbraio 2023

Stefano Bandera – Adelfo Maurizio Forni, Il Rebus di Gallarate, Macchione Editore, Varese, 2022

 



       Rebus
è il soprannome che gli amici del Caffè avevano affibbiato a Vito Donato, un sarto di Gallarate, dopo che questi aveva preconizzato che l’Italia nel 1911 avrebbe dichiarato guerra alla Turchia. Ma rebus è anche la vicenda, complicata da districare, e che mano a mano va chiarendosi e finalmente risolvendosi, attorno ad una finanziera abbandonata nel retrobottega della sartoria dello stesso Rebus. E naturalmente è il medesimo Rebus che assolve il compito di detective accorto e minuzioso, per nulla intimorito da protagonisti politicanti ed economicamente facoltosi: insomma la crème gallaratese dei primi del novecento, affiancata e infiltrata da ambienti malavitosi. Ma da dove nasce la curiosità e per dir così il desiderio di investigare di Vito? Gli autori ci fanno sapere fin dalle prime pagine che Rebus è figlio di un carabiniere, da cui si intuisce che la sua predisposizione ad inquisire è innata e le sue abilità di zerozerosette sono dovute alla vicinanza con la militanza del padre, di origini messinesi, costretto a girovagare per un po’ di tempo da una parte all’altra dell’Italia e stabilitosi alla fine a Gallarate, quasi in Svizzera. Quel quasi in Svizzera lo sottolineano gli autori stessi dimostrandosi abili narratori in quanto trasmettono ai lettori, con nonchalance, direi, la mentalità di un povero carabiniere meridionale che dopo varie peripezie si ritrova a posizionarsi in una Stazione periferica d’Italia vicinissima al confine. Una prova di erlebte rede quasi in sordina che testimonia già da subito capacità e affinità letterarie.

La trama è quella tipica di un giallo che si gioca attorno al ritrovamento di una finanziera e che incuriosisce da subito il protagonista indiscusso, Rebus, fino a condurlo alla soluzione del caso in un intrìco di situazioni e personaggi che determinano i contorni della storia e la arricchiscono indubbiamente di sottolineature e sfumature che vanno al di là del racconto in sé e per sé, la cosiddetta fabula, per dilatarsi nell’esame psicologico, storico e sociale della narrazione. Bandera e Forni, allora, ci trasportano in un milieu, sicuramente lontano dal nostro quotidiano, ma ben delineato ed evidenziato da una geografia e da una ricostruzione storico ambientale tale da condurre il lettore attraverso atmosfere dimenticate e tuttavia presenti in documenti, documentari, relazioni, musiche e qualche filmato d’epoca. E, per chi è più anziano, il ricordo di qualche racconto dei propri nonni rivivrà, sicuramente, in queste pagine che non danno vita solo alla curiosità di conoscere come va a finire, bensì a individui realisticamente registrati e colti nelle loro attività. Va da sé che quei modi d’essere e di proporsi caratterizzano un mondo specificatamente provinciale, periferico, in una cittadina, ai tempi, relativamente campagnola, sebbene dotata di servizi che oggi chiameremmo d’avanguardia, in cui la lingua principale era ancora il dialetto, le abitudini si dimostravano ancora collettive, così come ancora vigevano al di sopra di tutti le principali autorità: sindaco, prete, maestra, carabiniere. Assai interessante è la coralità che ne sorte con la descrizione degli avventori del Caffè, del cortile che immaginiamo al centro di case di ringhiera e teatro di vari pettegolezzi, il ballo di fine settimana il ritrovo sistematico degli uomini al Caffè. L’atmosfera ed il colore di quel periodo viene offerta anche da particolari come il calessino, il baciamano, l’auto velocissima che sfiora i cento all’ora (e qui viene alla mente Marinetti ed il suo futurismo esaltante il movimento e la modernità), gli abiti fin de siècle, femminili e maschili, come la finanziera. Ma non è tutto. Perché in questo clima di belle époque vengono rimarcate pure le contraddizioni. Infatti alcuni protagonisti sono costretti a subire le umiliazioni di una indigenza che li porta ai margini della società (oggi si direbbe borderline) che pure li sfrutta, li umilia e quasi li dimentica o addirittura li condanna solo per la loro povertà.

Accanto a questo riquadro storico-sociale i personaggi vengono rappresentati in una ipotiposi che li rende reali come se uscissero dalle pagine del romanzo per presentarsi a noi vivaci e veritieri, pronti a colloquiare e a discutere col lettore. A determinare questa suggestiva percezione è il dialetto che aleggia qua e là, attraverso dialoghi e interrogativi, e che apporta colore e realismo. Il fascino di questo giallo, oltre all’intreccio che non dà un attimo di respiro al lettore, sta appunto nella rappresentazione plastica e iconica dei protagonisti immersi in una Gallarate che nasconde segreti di prepotenza, di prevaricazione, enigmi non sempre di facile estricazione, truffe, strozzinaggi, nonché omicidi mascherati da suicidio. È la Gallarate noir, celata ai più, ma individuata dall’abile Rebus che, coadiuvato dall’apporto dell’amico maresciallo Rosario Cartabellotta e dagli altrettanto amici Pierin Bell, Peppino Colombo, Cesare Lovati, Giacomo Rovetta, fra gli altri, riesce a portare a termine le sue indagini e a far arrestare i colpevoli. Ed è naturalmente il lato più oscuro della cittadina che, per il resto, ha una sua peculiarità di sapore periferico e tranquillo. Il tutto immerso in una nota circostanziata di colore rosa: l’amore per Angela che, nonostante le indagini, Vito non trascurerà mai di seguire ed amare, e che gli autori, conseguentemente, accompagneranno fino all’ultima pagina dove lo sublimeranno definitivamente. “[Angela] gli mise una mano dietro la nuca, lo avvicinò a sé e lo baciò sulla bocca. Pochi secondi, poi si staccò e lo guardò ridendo. «Ecco… adesso puoi parlare.»”

 Enea Biumi

 

venerdì 3 febbraio 2023

Gianfranco Galante, Il nobile ricco e il povero nobile, Macchione editore, Varese, 2022


 

La nuova fatica di Galante disvela le sue attitudini narrative e le intenzioni etiche cui sottopone i suoi testi. La sua capacità di raccontare storie viene infatti in soccorso al desiderio di sottolineare una coscienza critica atta a far riflettere il lettore su ciò che è bene e ciò che è male. All’interno di questo messaggio abbiamo la trasposizione iconica dell’attrazione musicale come forma sublime di arte e soprattutto di ascolto. Che significa trasmissione di valori concreti in un mondo che spesso dimentica il rispetto dell’altro racchiudendosi in prospettive meramente egoistiche che allontanano e segregano il diverso.

Nonostante il titolo che potrebbe far riferimento, ad un primo e superficiale approccio, ad una fiaba per adulti (Il nobile ricco e il povero nobile), il nucleo centrale del romanzo si concentra su fatti e personaggi immersi in una realtà storica, sociale ed economica che si sviluppa al termine della seconda guerra mondiale. Ed è proprio il conflitto appena concluso che innesca una serie di interrogativi attorno agli attori del romanzo che appaiono in toto nella loro scarna, ma motivata, esistenza in cui si intravedono contraddizioni, ripensamenti, salti nel vuoto, sogni e desideri, nonché soluzioni a volte felici e a volte incomplete, comunque sempre inerenti al proprio sentire ora sincero, ora menzognero.

La vicenda si colloca nella Baviera, ancor oggi locomotiva tedesca se non europea, ai tempi principalmente agricola e immersa in tradizioni ancestrali che stratificavano i rapporti sociali in cui le barriere erano ben definite e immobili. In tale immobilità ecco che si innestano ladrocini culminanti in un delitto. Ed allora la scrittura di Galante prende le redini dell’investigazione, si dipana in tanti rivoli indagatori: di fatti e di animi. Così il quadro che ne scaturisce è una visione a trecentosessanta gradi che incuriosisce il lettore e lo trascina in luoghi e avvenimenti come fosse seduto in una sala cinematografica a goderne le varie riprese. E si tratta di pellicole scandite in un sottofondo musicale che ne accentua il fascino e l’interesse.

Eccone un esempio.

“L’alba della fine di maggio fu foriera di tepore d’aria. La rugiada dei campi del sud della Germania irrorava, certo, ma altresì evaporava rapidamente formando una nebbiolina leggera. Tra i boschi, le colline e i castelli della Baviera un’aura di mistero avvolgeva tutto. E man mano che diradava il fumello nebbioso, splendente appariva la terra tutta avvolta d’un verde imperante. Bella, rigogliosa, vitale. E dopo le prime luci i raggi lunghi del sole poggiarono anche sulle guglie della Hellen Landhaus. La sua piccola popolazione cominciava ad essere operosa, tanto dentro la villa quanto fuori; nei campi, nei fienili e tra i cavalli. Anche il barone, quindi, e tutti gli altri si prepararono ad affrontare il nuovo giorno.”

Si noti, en passant, come, di primo acchito, dopo una descrizione oggettiva dell’alba, l’aver posto, a metà del capoverso, il predicato (appariva) prima del soggetto (la terra), dona alla frase un non so che di poetico che sottolinea l’atmosfera del mattino e scandisce, con un periodo nominale e con tre aggettivi delucidativi, il clima ed il paesaggio bavarese.

Allo stesso modo l’aver inserito, non solo nei dialoghi bensì nel racconto, alcune frasi o vocaboli tedeschi avvicina il lettore ai personaggi del romanzo e aiuta a convalidare, se ce ne fosse bisogno, l’attenzione di Galante per il particolare, nonché il suo studio teso a rendere nel miglior modo possibile il ritratto di un’ambientazione lontana da noi, certo, nel tempo e nei caratteri. Il tutto, comunque, in quella bilancia straordinaria che sa soppesare e ordinare il bene e il male, il corretto e lo scorretto, la bellezza e la mediocrità.

Così la narrazione finale raggiunge lo scopo prefissato. Ed ecco che, come in una sinfonia viene racchiusa nelle battute finali l’intera opera, Galante conclude a coronamento del romanzo il suo apporto etico nel termine più sublime – ed attuale – che possa esserci: pace.

“La Baviera fu culla di questa storia (…) Grazie ai nuovi cambiamenti geopolitici del dopoguerra, il barone abbracciò parte delle politiche nazionali come, ad esempio, incoraggiare lavoratori immigrati e volonterosi (soprattutto italiani e turchi) offrendo loro stipendio onorevole, aiuto per trovare alloggi, aiuti per la crescita dei figli, per la scolarizzazione e in qualunque cosa fosse possibile. (…) Rivolse le sue attenzioni anche al mercato estero e conquistò grandi parti di commercio in tutta Europa, ridonando così fiato alle casse della bella Hellen Landhaus, all’economia della stupenda Baviera e della Germania tutta; coltivando tempi di pace”.

 

Enea Biumi

sabato 28 gennaio 2023

POETI BOSINI DEL 2022


 

Superata, almeno si spera, la fase pandemica, il Premio Poeta Bosino dell'anno è ritornato in presenza. Durante la tradizionale cena della Giöbia, rallegrata dalla presenza del gruppo folk bosino, è stata proclamata poetessa bosina 2022 Carlotta Fidanza Cavallasca, la maestrina della Valceresio, con la lirica ‘Un dì da pü’. Al secondo posto un’altra donna, Lidia Munaretti, con la poesia ‘Pensèer’. Infine una new entry, il giornalista e scrittore Federico Bianchessi Taccioli, con ‘Amùur d’un furestèe’. 

Enea Biumi


 

LE POESIE VINCITRICI

UN DI’ DA PÜ

di Carlotta Fidanza Cavallasca

 

Dopu ‘na nott scüra

là in fund

dadrè du la culina,

al sa s’ciariss ul ciel

cun penelaa leger da lüüs…

 

Gh’è tanta paas…

dorman i fracass dul dì…

 

Sü la porta di ur

‘na giurnava növa

l’è lì ca la specia…

 

Adasi adasi

turnan a cumparì

sagum e culur

e sa sent l’incant

ca ta dà quaicoss

ca sa ripet,

ma ca l’è sempar növ.

 

L’è ‘l dì ch’al riva

tra vugh e cantà da  üsei,

cul so cavagn da pensà,

da rop bei, da dispiasee.

 

Un dì da pü da viv

da matina a sira,

bun da fa rinass chi speranz

ca parevan mort

giò in fund al cöör.

 

UN GIORNO IN PIU’

 

Dopo una notte buia

là in fondo,

dietro la collina,

si schiarisce il cielo

con pennellate leggere di luce…

 

C’è tanta pace…

dormono i rumori del giorno…

 

Sulla porta delle ore

una giornata nuova

è lì che aspetta…

 

Pian piano

tornano a comparire

sagome e colori

e si sente l’incanto

che ti dà qualcosa

che si ripete,

ma che è sempre nuovo.

 

E’ il giorno che arriva,

tra voli e canti di uccelli,

col suo cesto di pensieri,

di cose belle, di dispiaceri.

 

Un giorno in più da vivere

da mattina a sera,

capace di far rinascere le speranze

che sembravano morte,

giù in fondo al cuore.


PENSÉER

di Lidia Munaretti

 

‘Mè ‘na góta d’àqua in sü ‘na föia,

scarlìgan i mè penséer cunt la vöia

da turnà indré e pö vugà luntàn

quand la sperànza la gh’éva nómm “dumàn”.

 

Quanti “dumàn” trasàa, par ingenüità,

ciapàa sótt sèla sénza nànca pensà,

parchè ‘l dì dòpu, già, sa po mai savé,

al portarà, ‘l füss véra, ’n quai belée!

 

Ma ‘l témp, par disprées, al cùrr ‘mè ‘na spìa,

‘l sàlta, ‘l pìrla, ma pö ‘l sa ferma mìa.

Quèll ca gh’hémm da fa, ‘l va fai ai nòstar dì,

prìma da truvàss vöi, stràcch e invegìi.

 

Però in fùnd al cöör gh’ho anmò ’n quaicóss

ca ‘l rüga,  ca’l dà la mösta a ricugnóss

dabun, che ‘l mè santée, fin chì, l’ho buzzàa:

mò podi ‘na innànz, dasìn cun dignitàa.

 

PENSIERI 

 

Come una goccia d’acqua su di una foglia,

scivolano i miei pensieri, con la voglia

di tornare indietro e poi volare lontano

quando la speranza aveva una nome “domani”.

 

Quanti “domani” sprecati, per ingenuità,

sottovalutati senza neanche pensare,

perché il giorno dopo, già, non si può mai sapere,

potrà portare, fosse vero, qualcosa di grazioso!

 

Ma il tempo, per dispetto, corre velocemente,

salta, piroetta, ma non si ferma. Quello che dobbiamo fare,

deve essere fatto senza perdere tempo,

prima di trovarsi vuoti, stanchi, invecchiati.

 

Però in fondo al cuore ho ancora qualcosa 

che rimescola, che sprona a riconoscere, 

davvero che il mio sentiero, fin qui, l’ho trovato,

adesso posso andare avanti, piano, con dignità


AMUR D'UN FURESTEE

di Federico Bianchessi Taccioli

 

Mi sunt mia nassù propri chi, bel Varés                               

vegnù da ben fora, ‘n àsen furestee;                        

Bubià, Masnagh, Casluncio, Camairagh                

ghe sto apena da ‘na brencava d’ann,                   

sa sent, sa ved, che in sto mè parlà busin             

scarlighi anmò e và, intend, scusèm un bott,       

se te vorat cureg mi saress cuntent,                      

semm semper a temp par indurà la ment,           

st’asen g’ha voja da cantà en tà lengua                

ol tò dialett ch’al sona inscì alègher                                       

ch’in pee sott’al bongbong del Bernascùun        

well, Varés, ma senti finalment a cà.                    

 

E quand ch’el miri al gran cedar secular,             

in dul giardin cunt ul Rosa sul fundal,                   

senti l’immens, e ‘l nient, e ‘l temp brusàa          

menter se dislengua al su in dul lagh durà           

insiema a tucc i sogn d’un fiò cal spera,             

ma al po piov o tirà vent, al po fiucà,                  

quand dervi la finestra e me riva su                    

ul ciciarà di tusann dal prestinè                           

e ‘l meccanich ch’al discur de l’Emmevì             

cunt ul gommista centaur de la Vespa,              

e al café l’avucàtt arringa al dutur,                     

bien, Varés, ma senti finalment a cà. 

 

L’alter dì dal pugiò dra Maria dul Munt,            

la man pugiada sura ul cartel da brunz                

dul Papa sant ca l’è vegnù su a pè,                       

l’istess che ‘n dì a basà giò ul me paes,               

te vardavi là, burgh en pas, ul cor vert,              

e ma vegnuu da ringraziàtt, sunt sincer,            

va’, che se m’ariva su anca ‘l magùn,                  

l’è assee un cicinin al Burducan,                          

subit ma senti ul Re dul Carneval,                       

ciapi la sbilenca e sota a pedalà,                                                 

e vuli cont la grenta d’Ivan Basso,                       

bueno, Varés, ma senti finalment a cà.                 .

    

 AMORE DI UN FORESTIERO

 

 Non sono proprio nato qui, bella Varese             

 venuto da molto lontano, un asino forestiero;

 Bobbiate, Masnago, Casluncio, Camairago

 ci sto soltanto da qualche anno,

 si sente, si vede, che in questo mio parlare bosino

 scivolo ancora e via, capisci, scusami tanto,

 se vorrai correggermi, sarò contento,

 siamo sempre in tempo ad arricchire la mente,

 quest’asino ha voglia di cantare nella tua lingua

 il tuo dialetto che suona così allegro                 

 che in piedi sotto allo scampanio del Bernasconi,

 well, Varese, mi sento finalmente a casa.

 

 E quando ammiro il gran cedro secolare

 nel giardino con il Rosa sullo sfondo

 sento l’immenso, e il niente, e il tempo bruciato

 mentre il sole si scioglie nel lago dorato

 insieme a tutti i sogni di un ragazzo che spera,

 ma che piova o tiri vento, o nevichi,

 quando apro la finestra e mi arriva

 il chiacchierare delle ragazze dal panettiere

 e il meccanico che discute della MV

 con il gommista centauro della Vespa

 e al caffè l’avvocato arringa il dottore,

 bien, Varese, mi sento finalmente a casa.

 

 L’altro giorno dal balcone del Sacro Monte

 con la mano posata sulla targa di bronzo

 del santo Papa salito qui a piedi,

 lo stesso che un giorno baciò il mio paese,

 ti guardavo là, borgo in pace, il cuore verde,

 e m’è venuto di ringraziarti, dico davvero,

 guarda, che se mi sale anche il magone,

 mi basta un goccio del Borducan

 subito mi sento il Re del Carnevale,

 prendo la ‘sbilenca’ e giù a pedalare,                        

 e volo con la grinta d’Ivan Basso,

 bueno, Varese, mi sento finalmente a casa.

 

lunedì 9 gennaio 2023

Michele Toniolo “Gli affetti del giovane Berg” (Amos Edizioni, 2022)



In questo esito, dove l’intelaiatura testuale si esprime in brevi capitoli, passi di una prosa volutamente calibrata, essenziale, tenuta quasi al rigore della poesia, Michele Toniolo, autore ed editore, ci affida una testimonianza matura bilanciata su due poli, due riferimenti acquisiti che si collegano: la radicalità della lingua madre, il congedo della madre dal figlio. “Gli affetti del giovane Berg”, titolo evocante atmosfere alla Goethe, afferma la limpidezza del dettato dicibile capace di ammettere la stessa inevitabilità del mistero. Ma nella radicalità del nostro essere voce, il segno della scrittura che esalta il ruolo della seconda persona singolare determina l’ascolto richiesto e il concentrato intuibile; oltre potremmo assecondare la linearità e l’espressione nel piano applicato, pensando quasi alla tesi di Hjelmslev che distingue in quella una forma e una sostanza. L’origine stessa è fermentazione linguistica concessa alla lotta contro l’assenza, l’inesorabile catena delle perdite, il netto contorno delle mancanze. “La tua scrittura trattiene ciò che scrivi dai fatti, dai ricordi. Non diventerà ciò che è stato, non andrà incontro a nessuno...” scrive Toniolo “Né ti sarà possibile un racconto disteso, un orizzonte nel quale vagare, ma solo la verticalità, solo lacune e spazi vuoti”. Verticalità e spazi che sono per lo più caratteri della poesia quando attende l’insidia sulla pagina bianca. Così come giunge l’occasione salvata dalla traccia del nostro procedere sulla resistenza delle sillabe. Il figlio, poi, celebra la madre, l’estremo congedarsi, e qui affiorano note di uno struggente sentire la relazione specifica in un coinvolgimento che ricorda alcuni timbri pasoliniani, dove il dato rievocato allude alle origini, ai materici tratti delle memorie, al contrasto con le stagioni felici. Michele Toniolo applica quindi l’esordio del dolore dicibile, l’evenienza rarefatta che testimonia la lucidità della solitudine. “Questi paragrafi brevi sono di un tempo di tosse”, ed ecco che “nell’assenza hai bisogno di parole di vita eterna”, anche sapendo che la peculiare fattezza dell’ascrivibile determina quel pensiero nel quale il nuovo inizio è precisamente il ritorno all’origine. Il principio emotivo ed intimo di una madre, di una lingua.

Andrea Rompianesi

venerdì 30 dicembre 2022

Umberto Belardinelli, L'albero del tempo, ed. Scriptores, 2022


Il percorso poetico di Umberto Belardinelli viaggia sui binari di una sobrietà lessicale, elegante e sicura, che dona alla sua scrittura un non so che di nobiltà virtuosa e appagante. Nell’ultima silloge da lui proposta “L’albero del tempo” si legge una architettura ricca di rimandi personali che sanno cogliere ciò che è essenziale non solo per se stesso ma per l’uomo in generale. La sua poesia esce dall’io, pur esistente, per incontrarsi con un noi/voi/loro, nel richiamo assolutamente gentile e genuino della verità, attraverso alcune osservazioni, quasi una personale confessione, di carattere filosofico.

La lirica iniziale, che dà il titolo della raccolta, sembra un esergo e fa da simbolo dando il la alle pagine che si susseguono e che trasportano il lettore a riflessioni per nulla scontate. Non c’è ridondanza nei suoi versi ma semplicità (non semplicismo) che accoglie e aiuta, trasferendoci al di là del semplice dato materico nella amplificazione dei dettagli, per altro esistenti, divenendo ipso facto momento altamente spirituale e spiritualizzante.

Non v’è dubbio che la poesia di Belardinelli è poesia religiosa. In ossequio all’espressione dei Vangeli vedo questa silloge come una fiaccola sotto il moggio (mi perdoni D’Annunzio se l’ho posticipato alle scritture), ma una fiaccola che non deve nascondersi bensì illuminare nonché valorizzare. Del resto, a ben leggere, tutta la sua produzione, anche quando parla d’altro – di amore, di luoghi, di accadimenti – è una produzione religiosa. Si veda l’altra raccolta poetica dedicata a Santa Faustina Kowalska (Stella del mare). C’è in effetti in lui un cristianesimo integrale, di sostanza, che è il contrario di integralismo concentrato solo su simboli esteriori.  Del resto è Belardinelli stesso che ci rivela in una nota questa sua spiritualità quasi assoluta. “Molte volte la fede mi ha aiutato a superare momenti difficili, la fede ha sempre esercitato su di me il suo fascino misterioso e spesso mi ha condotto verso lunghe ed inquiete riflessioni”

Il cristianesimo è la religione dell’antifrasi perché ha fatto della suprema delle sconfitte, dell’ignominia della morte in croce, quella riservata ai condannati senza scampo, il simbolo stesso della vittoria. Vittoria sul tempo. Vittoria sulla morte. Anche il dolore allora diventa solo un passaggio – spiacevole, drammatico passaggio – ma necessario. Tuttavia la speranza non viene meno. Tra difficoltà, cadute, risalite, ecco di nuovo avanzare il dialogo col tempo valorizzato dalla fede che si fa quasi visibile nel sogno del domani.

E ritorniamo alla valorizzazione del tempo, spesso scritto con l’iniziale maiuscola per darne rilievo e importanza come fosse un assoluto (non certo Dio) di cui tener conto e pregio. Così il tempo nella mente dell’uomo ha la facoltà di superare le barriere dell’hinc et nunc. Diventa spirito. Si dilata nell’ieri e prosegue nel domani per riapparire nell’oggi. È impercettibile, intoccabile, sfuggente. Appunto come quell’albero che dà il titolo alla raccolta e al quale il poeta parla, si può dire senza esagerare, dall’inizio alla fine. Sempre presente, sempre invocante, sempre autorevolmente giudicante, sia quando si parla d’amore, sia quando si ricordano siti, situazioni, dubbi, speranze, sogni.

L’amore poi è il primo elemento che il poeta mette in evidenza, amore sentimentale per l’altra metà, amore affettivo verso i propri figli, amore spirituale verso Dio. L’amore diventa così un canto rivelando tutto lo stupore per la fragile bellezza della vita, fragile perché il tempo vola e spesso è un ricordo o un’attesa prolungata che si protende nel futuro. “Vivrai il mio tempo spento ed altri accesi / io mi dissolverò nel tuo ricordo / tu incontrerai altre stagioni / corre nelle parole e nel silenzio / la dissonanza delle nostre ore”

I suoi versi, ovvero la sua poiesi, allora, sembrano danzare in una elaborazione creativa, propositiva, esprimendo una consapevolezza equilibrata e razionale di un pensiero alto e maturo, atto al coinvolgimento spirituale del lettore, come un anacoreta che nel silenzio e nella solitudine della propria cella dialoga paradossalmente col mondo intero. Infatti i valori intrinsechi al pensiero di Belardinelli appartengono ad aspetti esistenziali che ci dettano le ore del tempo. Le sue poesie colmano l’animo del lettore per gli aspetti che in esse si rivelano verità e sembrano quasi un miracolo venuto sulla terra e in un mondo che ai miracoli più non crede. “Temo che il vento dell’inganno / trascini i suoi alfabeti frantumati / sulle pareti di un sinedrio / eclissato dal tempo”.

 È necessaria allora la presenza del poeta per ridare dignità all’esistenza. Una dignità che Belardinelli va ad esaminare in un’indagine introspettiva del proprio stato d’animo in rapporto al variare del tempo, al suo andare nel tempo, ai suoi affetti nel tempo – persone a lui vicine, care, luoghi visitati ed amati, momenti di serenità e di dolore, di presunta spensieratezza o di amara costatazione. “Non vi ho dimenticati luoghi del tempo / non vi ho lasciati mai senza memoria / e vivo e respiro dentro gli orizzonti / cercando di seguire la vostra traccia”

E alla fine ancora il tempo. Riordinato, scandito, evocato come un mantra. Il tutto introiettato in momenti di religioso pensamento. Il tempo dell’ultimo respiro. Atteso.  Temuto. Profetizzato. Tanto è vero che “Un giorno ci ritroveremo albero amico / nella stagione in cui la fiamma spegne / imprigionati nella cenere del dopo”.

 

Enea Biumi


sabato 26 novembre 2022

Sergio Cicalò, Passionis – Passioni, Edizioni Cofine, Roma, 2022 PREMIO CITTÀ DI ISCHITELLA-PIETRO GIANNONE 2022


 

La silloge inizia con un’interrogazione che va ad approfondire il significato del linguaggio in un contesto di suoni consonantici e onomatopeici, tra allitterazioni e rimandi fonici, sottoponendo il lettore a soffermarsi per riflettere il valore del messaggio, di ogni messaggio, poetico: Ita ingùrti’ de sa bòxi su siléntziu” (Che cosa inghiotte della voce il silenzio). In questo passaggio lo scrittore traccia una linea di lettura che rimarca autorevolmente e sapientemente il pensiero di una comunità che ascolta e agisce di conseguenza, sottolineando che “su bùidu chi s’obèridi” (il vuoto che si apre) si colma attraverso “sa mandàda” (il dono), vale a dire, secondo la stessa spiegazione che ne offre l’autore, “il dono reciproco della tradizione sarda. Quando una fa­miglia avesse avuto di una derrata alimentare una quantità superiore al possibile consumo del momento (tipicamente carne di maiale, dopo aver ucciso l’animale allevato in casa, ma anche frutta o verdura), faceva dono del surplus ad altre famiglie legate ad essa dal vincolo de sa man­dàda, attendendosi di venire ricambiata in futuro.” L’annotazione è importante perché svela la base e le fondamenta dell’impianto dell’opera. Siamo di fronte ad una poesia che incarna la cultura di un popolo e di quella cultura si fa portavoce. Ne è testimonianza, senza dubbio, la seconda lirica della raccolta “Su nènniri” che mette subito a disposizione del lettore gli strumenti per una opportuna conoscenza e analisi. Si tratta, con il nènniri, di un rituale dalle radici molto antiche che trae la sua origine dal culto millenario di Adone (come annota l’autore). Secondo la tradizione sarda nel mercoledì delle ceneri, le donne devono preparare un vaso con dei semi di grano da far germogliare al buio. I semi vengono depositati su di un piatto con del cotone e vengono conservati al buio per cui i germogli nasceranno di un colore pallido. Questa pratica non è nient’altro che un simbolo che sta ad indicare, in ambito cristiano, la resurrezione di Cristo avvenuta dopo tante sofferenze. In ambito pagano, invece, il collegamento è dato dai rituali legati al dio Adone che celebravano la rinascita della natura in primavera. D’altra parte se il seme non muore sotto terra, non ci sarà nessuna fioritura, come sta scritto nel Vangelo di Giovanni. La morte in questo caso è solo temporanea. Ma ci sarà un’altra morte, quella definitiva, che non lascia spazio a ulteriori speranze, ma porterà lutto e lacrime: is ògus nòstusu funti dua’ làgrimas // chi èus arrennèsci a prangi.” (i nostri occhi sono due lacrime // che riusciremo a piangere). Per questo “sa fentàna” (la finestra) diventa luogo privilegiato per meditare oppure per farsene una ragione: “de cussu’ lògus innùi pàri’ / ca sa vida e’ suspéndia” (di quei posti in cui sembra / che la vita è sospesa) Dato questo contesto si fa più chiaro il titolo della silloge “Passionis (passioni)” in cui l’autore si propone di tracciare un iter di sentimenti e aspetti poliedrici che vanno dalle sofferenze di Cristo al travaglio di donne e uomini alla ricerca di un bene e di una serenità per se stessi o per i propri cari. In effetti il rapporto tra la passione di Cristo e la passione dell’umanità è strettamente legato e conserva una valenza universale. Il sangue di Cristo è quello dell’uomo, il piede di Maria che schiaccia il serpente è il piede di ogni donna che sconfigge il dolore. “Su pèi biancu de Maria asùb’ ’e sa cònca / de su calóru” (Il piede bianco di Maria sopra la testa / del serpente.) Così Gesù assume l’identità di un uomo qualsiasi perché su chi no bòlis biri / e’ su córpus de Gésus prèn’ ’e brèmis” (Quel che non vuoi vedere / è il corpo di Gesù pieno di vermi.) e la sua voce che grida dalla croce è quella di un uomo chi nèmus intèndidi” (che nessuno sente). Ma tra la morte e la vita la demarcazione è sottile, quasi invisibile. Così come è sottile l’ieri con l’oggi. Tanto che è necessario abbassarsi (cioè farsi piccoli, dimenticando se stessi) per ascoltare i vecchi, per sentire la loro voce e le loro storie. Non saremmo nulla ora se non ci fossero stati “is antìgus” (gli antichi). Ed ecco che il passato si salda al presente. Diventa testimone di ciò che siamo e che facciamo. Allora “Tòcat a si scarèsci / su chi sciéusu, // castiài bèni, ascutài.” (Bisogna dimenticare / quello che sappiamo, // guardare bene, ascoltare.) perché solo ascoltando riusciamo a capire, forse, ciò che siamo veramente. L’incontro con la tradizione diventa un incontro con la poesia che si fa, ipso facto, garante del sapere. Infatti:Su fuéddu chi circas dd’a’ cuàu / pòdit essi in su còru  // su pipìu ch’ìa’ domandàu / a nonnu sùu: poìta // no mi cantas a mèi puru / su chi cantas a sólu?” (La parola che cerchi l’ha nascosta / forse nel cuore // il bambino che aveva domandato / a suo nonno: perché // non canti anche a me / quel che canti da solo?) Come in un’orchestrazione sapiente l’ultima lirica si ricollega alla prima. La poesia è linguaggio, è lo strumento che fa vibrare l’animo riempiendo il silenzio, o il vuoto, di immagini e di sensazioni. La poesia travalica il tempo mettendo in corrispondenza episodi e persone lontane, miti e leggende, tradizioni e culture. Sebbene, alla fine, non ci sia risposta certa al dolore e alla morte, la poesia si ostina ad esserci, a seguirci, a renderci consapevoli e a porci pertanto continue interrogazioni che rimarranno senza riscontro: it’e’ custu bisóngiu / de iscrìri?” (che cos’è questo bisogno / di scrivere?)

 Enea Biumi

L'ANIMA nella Poesia di Prospero Cascini fotografata attraverso la PROPRIA, a cura di Salvatore Monetti

  La poesia, in molte delle sue forme, è molto più di un semplice esercizio linguistico o di un passatempo estetico. Essa è da meditazione. ...