lunedì 27 maggio 2024

Mauro Germani “Prima del sempre” (Puntoacapo Editrice, 2024)


 

E’ un aprirsi in natura di poemetti in prosa o, come nell’accezione meno da ossimoro, una serie di brani in prosa poetica che esalta l’opportunità della ricezione dell’ascolto contratto in un testimoniare la presenza quando si assesta grafia in piano. Scriviamo di “Prima del sempre”, opera antologica di Mauro Germani, sviluppata su un lungo arco temporale che va dal 1995 al 2022. Ombre e parole, sedimenti filtrati nell’accorto condurre ad un passo dalla voce emersa da spalti in fiamme dove si salva “la cera che è stata infanzia e perdono”, ponendosi nella prospettiva che coglie “e sa il desiderio delle vette, dei nomi dispersi”. Il poeta sviluppa elencazione in ciò che promette riparo ma non ostacola la presa d’atto, tra parole inaudite, luci bagnate, cieli riconoscibili prima dell’evento albale. Sembra di percepire sussurri di voci, rintocchi, alla luce di rugiade invernali. Strade e macchie, veglie e partenze, sogni e rovine. Ma l’elemento decisivo che forse Germani esprime o tenta di interpretare è quell’indicibile che costituisce il mistero della nostra stessa condizione e che ci conduce alla consapevolezza di una poesia che è domanda. Nell’autore il senso della condivisione e compassione è integro, maturo, coerente con le tracce dei riattati strumenti necessariamente riprodotti e temprati dalla determinazione sintattica, calibrata su di un equilibrio contenuto. “Sono i poveri, le parole saltate. Piangono la stessa agonia, il grido strappato agli ulivi”; un dire che si veste d’intuizione civile, di prospettiva sensibile alle urgenze etiche. Così è l’attenzione rivolta agli affetti più forti, alcuni perduti in senso fisico ma trattenuti nella relazione spirituale che emerge oltre le cose, in attimi vissuti nei loro mutamenti, in una vocalità di metafisica concreta, pensando a Florenskij. “E una pace sembra scendere di lato, spiare dalle chiome invisibili...”, attirare le possibili alternative che si vestono di nostalgie ma anche di attese, scenari incisi là dove il pensiero rimanda alla consistenza dei quesiti irrisolti, alla caratterizzazione dell’esteso tratto insorto dopo riti e diluvi, nella espressiva capacità di rivederci “come saremo ancora bambini nella luce alta di giugno, insieme per sempre, nell’attimo preciso del vento”. Per Mauro Germani è determinante cogliere l’afflato spirituale in un confronto serrato con le cadute, le depresse scomposizioni dei pulviscoli attinenti alle maree, incalzati dalla brevità dell’asserto prosastico inciso nella gravità della pagina, in un tendere quasi ad esito escatologico. Dalla sezione “Livorno”, città d’origine della madre, la poesia assume l’impianto proprio della versificazione attraverso uno spezzare i tempi su modalità contratte, dicibile in una comparsa di lessico limato in sequenza...”ma d’improvviso/ un vento si alza/ ed è sogno, terra/ appena di luce/ appena di vita// prima dell’onda”. Scorrono poi, nella ricerca dell’autore, bellezze e frantumi, lumi e volti, schegge quasi frequentatrici di mastabe (per citare Sereni), lontananze e confini. Altra voce interrotta nelle dimenticanze urbane, nella compostezza delle strofe brevi a riecheggiare umori d’infanzia, segnature rivedibili alla luce della riflessione mite che allunga in verticale, ad un certo punto, il passo; dilata le strofe stesse producendo una continuità di richiami. “Dimmi cos’è la vita/ adesso che non c’è più/ Livorno e nemmeno/ Milano, solo/ una pianura di luci/ basse nella nebbia”. L’ultima parte del testo si fa preghiera, sentimento del dolore e della pietà, nella vocazione al riscatto in un dono che, davvero, si pone eucaristico “...quel suo/ pane straziato,/ quel calice/ d’ogni ferita”.

                                       Andrea Rompianesi

mercoledì 22 maggio 2024

“L’UNICITA’ DELLA LUCANIA” AL SALONE DEL LIBRO DI TORINO.


Il 10 maggio, a partire dalle ore 13,30, a seguire per il dì successivo, presso la Sala Basilicata, al Salone del libro di Torino è approdata l’opera: “L’unicità della Lucania: un approccio fotografico e poetico”, un libro di poesie e fotografie dei cugini Prospero e Valerio Cascini, edito da Salvatore Monetti, di Battipaglia, nel 2023. La pubblicazione contiene una raccolta di liriche in italiano e in vernacolo, arricchita da intense immagini, prodotte a cura de grandioso intellettuale, nonché editore Salvatore Monetti. A coordinare i lavori si è prestata la giornalista Maria Brigida Langellotti, capo dell’ufficio stampa del Consiglio Regionale della Basilicata. I cugini Cascini, compagni di scuola alle elementari, in particolare compagni della ‘primina’ del Cinquantasei, fatidico anno della nevicata sul cupolone, hanno coltivato la poesia nel tempo. Valerio, da giovane, si è trasferito a Torino, mentre Prospero è rimasto in Basilicata. Valerio scrive in vernacolo, Prospero in italiano: “Una testimonianza dell'amore per la Lucania e un omaggio al proprio paese di origine, Castelsaraceno, in provincia di Potenza”. Dal tempo della poesia si è passati così alla poesia nel tempo: il tempo della poesia è l’infanzia, l’adolescenza, poi si passa alla prosa, come diceva Croce. Ma quello spirito poetico resta sempre, quel “fanciullino”. Pascoli aveva insegnato anche a Matera, dove quei “Sassi”, piccole casette, naif, avevano ispirato senz’altro i temi della piccolezza, del nido.





“L’unicità della Lucania” riprende senz’altro la “Lucanità saracena”, edita sempre da Monetti nel 2022. Continua quel percorso che accomuna l’”antico testamento”, cioè la vecchia lingua, il vernacolo, col “nuovo testamento”: “Un libro di ricordi e di nostalgia”, - si legge tra le News del Consiglio Regionale di Basilicata - “in cui emerge il connubio tra poesia e fotografia e i veri protagonisti sono i versi in vernacolo e in italiano”. “È un volume - ha sottolineato Valerio Cascini - che mette insieme la parola in italiano e in dialetto e anche un altro linguaggio, che è quello fotografico. In questo lavoro c’è l’intento di dare della Basilicata una visione compiuta e di unicità attraverso le varie forme espressive”. “Le fotografie sono opere dello scrittore-editore Salvatore Monetti: “Il connubio tra poesie e fotografie - ha spiegato - nasce dal legame dell’editore Monetti per la Lucania, terra che ha saputo accoglierlo”. Lo scrittore ed editore Salvatore Monetti è legato a questa terra ancestrale, che un tempo giungeva fino al Sele, quindi inglobava tutto il Cilento. Il “Ciliento” e il “Saliento” erano i confini del mondo. La “Lucanità” serafica” come la definisce Prospero, ha trovato la sua massima espressione in ogni forma d’arte: nasce, infatti, una felice associazione (le menti associate di Cattaneo) tra poesia, fotografia, musica e pittura. Alcune poesie dei nostri autori sono state musicate dal Maestro Giulio Dammiano di San Chirico Raparo. Ed altre hanno trovato riscontro in delle meravigliose pitture dell’artista piemontese Gianni Bergamini: in particolare, una pittura del pino loricato esprime un elogio della poesia di Valerio Cascini. Il pino loricato, detto così perché ha una corteccia spessa, quasi un’armatura naturale, è una specie rarissima di conifere, che cresce solo sull’appennino lucano, sul monte Alpi e sul Pollino, e cresce ad altezze elevatissime, su profondi balzi. Certamente indica l’attaccamento tenace alla nostra terra. Il pittore, presente al salone con una sua opera, ha raccontato che “il quadro si intitola Matera”. Matera è una città antichissima, semenza di civiltà. Nel corso della presentazione sono state declamate da Valerio e Rosa Cascini. delle poesie del volume, in vernacolo e in italiano. “L’unicità della Lucania” è un cammino che si esprime attraverso la dedizione della parola e l’espressività dell’immagine, è un cammino che per così dire, parte dagli antichi tratturi per finire sulle autostrade del mondo, fin dove questa lucanità si è spinta, anche con l’emigrazione storica. Lo spirito di un popolo non si perde mai. “Cché ni sapése vùie, cché ni sapése, / di quanne m’arrampichèje/ a quillu mure facce-front’ ’a porte/ d’ ’a chèsa mméje?” - recitava Albino Pierro. E così noi rimaniamo estasiati dinanzi a quelle espressioni vive, genuine, forti, della nostra lingua, che tenta di esprimersi, di uscire al giorno, dal fiume della dimenticanza, il Lete, che tenta di svelarsi nel tempo (l’ἀλήθεια, la verità dei Greci).


Vincenzo Capodiferro

lunedì 20 maggio 2024

Enea Biumi "Visighéri da vùus - Confusioni di voci", Genesi Editrice, Torino, 2024

 




“Magia del linguaggio attraverso le visioni surreali e astratte della lingua dei poeti” di Enea Biumi

“Visighéri da vùus. Confusioni di voci” è una raccolta di poesie di Enea Biumi, pseudonimo di Giuliano Mangano, edita da Genesi, Torino 2024, risultata vincitrice al premio “I Murazzi per l’inedito 2024 (Primo premio assoluto di Poesia)”. La motivazione di giuria parla di un viaggio: il primo nella memoria, il secondo «… è un viaggio in differenti luoghi, in direzione d’Oriente, culla della civiltà mediterranea, ma contaminato con il presente di Agatha Christie sull’Orient-Express, per arrivare fino ad Istanbul, poi Cipro e Nicosia, mezza turca e mezza greca, in uno sfavillio di percorsi immaginari e di annotazioni da turista fai da te». La poesia è viaggio: il viaggio di Ulisse, il viaggio di Enea, il viaggio di Dante. Come annota Sandro Gros-Pietro nella prefazione: «La confusione delle voci è sempre considerata come La Voce per antonomasia, perché già per i Latini valeva il proverbio vox populi, vox Dei». Le leibniziane petits perceptions ci permettono di cogliere il Sublime, cioè l’Assoluto: esse est percipi. E poi soprattutto il vernacolo, il dialetto nasconde una sapienza arcana, orale che si traduce sempre in termini poetici o, meglio, “poematici”. Lì s’asconde quella “antiquissima Italorum sapientia”, lì quello Omero collettivo: il cieco è colui che vede l’altro mondo, ha accesso al mondo divino. Il poeta è, come diceva Turoldo, profeta. Enea mi fa ricordare il mio conterraneo Albino Pierro: «Mò penze ca si spìccete stu chiante/ rumagne schitte iè e lu campisante». Se finisce il canto (della poesia), non ci resta che la morte. Il canto dei poeti era equiparato da Albino al pianto delle prefiche. Io ho assistito da bambino ai loro canti, simili a nenie per far dormire i “pargoletti infanti” di Ariosto. La poesia canta la vita, la poesia canta la morte. Poesia è la ninna nanna. Poesie snodavano i cantastorie. C’era una correlazione felicissima tra vita e morte, tra vecchi e bambini, una “corrispondenza d’amorosi sensi”. In “Sfulcitt” (2022), Enea parla della poesia/vita: «La vàrdi vugà via/ tutt a un bòtt/ senza paròll,». «La guardo volar via/ improvvisamente/ senza parole». Il “carpe diem”: «Chi vuole esser lieto, sia, / di doman non c’è certezza».

Visighéri da vùus
Ma crüzian ul cò
‘me barabitt dra Madòna du Munt

(Confusioni di voci/ mi tormentano la testa/ come briganti della Madonna del Monte).

Non sapevo che anche al Nord ci fossero i briganti: vedete come si somigliano Sud e Nord! Le voci dei briganti spaventavano i pastori nei boschi, le vergini che si recavano al fiume a lavare i panni ed a lavarsi, con ceste di robe sui capi. Il brigante, nell’iconografia dell’inconscio collettivo, rappresenta una figura ancestrale avversa. Sono le voci demoniache dell’Es di Groddeck e di Freud: voci dall’inferno.

Me végnan giò vùus senza rasùn
Dumà a vardà föra dul scür
Cul mund ca’l va sòtt sùra

(Mi raggiungono voci senza ragione/ solo a guardar fuori della finestra/ con il mondo che va sotto sopra).

Sono voci irrazionali che esprimono il forte disaccordo tra il “fanciullino”, il Peter Pan che è sempre in noi e l’adulto. Il poeta, affacciato alla finestra, vede un mondo sconvolto. Già l’affacciarsi alla finestra oggi è diventato uno stare ore e ore al cellulare. Eppure, i proverbi antichi dei nostri paesi sperduti dicevano: «La vita è un’affacciata di balcone». Io ricordo quando nei vicinati la gente si parlava dai balconi. Che bello! E ricordo che raccontavano di una vecchietta la quale, recatasi a votare alle elezioni, diceva: «U munnu s’è vutatu cap cha sotta e he votu pù cappera che vi fotta». In dialetto è un’altra cosa. Il vernacolo conserva sempre un’espressività ed una genuinità che il linguaggio corrente ha perso, con espressioni neo-futuristiche (+ x). Questa raccolta di Enea è bellissima: il poeta non si smentisce. La prima parte è un viaggio nei “topoi” dell’anima, la seconda è un viaggio verso oriente, con le sue tappe. L’oriente è la culla del Sole, della luce, della civiltà. L’occidente fin dall’antichità, rappresentava il paese dei morti: «… l’occaso… pien di voli». L’occidente è il luogo del “tramonto”. In questa “psicografia”, in questa topica poetica dell’anima, cogliamo finemente l’interiore e l’esteriore che s’abbracciano.

Vincenzo Capodiferro

martedì 14 maggio 2024

Gianfranco Lauretano “Questo spentoevo” (Graphe.it Edizioni, 2024)

“Sono partiti tutti./ Hanno spento la luce,/ chiuso la porta, e tutti/ (tutti) se ne sono andati/ uno dopo l’altro”. Sono versi di Giorgio Caproni, autore di riferimento nell’opera “Questo spentoevo”, titolo caratterizzato da un efficace neologismo di Gianfranco Lauretano. Il dialogo con i maestri detiene la possibilità feconda, giustamente incisa in controcanto, di accordare tematiche e sviluppi, fonetiche e ritmi ad una rielaborazione condensata nella scommessa sull’attuabile osservazione dei passi contemporanei; in una riflessione che vede l’autore indicare la nostra comune epoca come innegabilmente spenta e depressa. Lauretano analizza con versi innescati dalla pratica del dicibile l’occasione rilevata nel quotidiano muoversi, nella partecipata attenzione: “tra le membra e l’anima/ la carne si fa pensieri/ parole, opere e omissioni/ e tribunali e colpe/ e poche assoluzioni”. Secchi rimandi di assonanze e rime intendono asserire propositi dichiarativi, in pratiche di amara ironia, quest’ultima specificamente indirizzata, ad esempio, alla critica nei confronti dei media, alla loro natura strumentale e manipolatrice. C’è un bisogno intimo di alternative, nella poetica dell’autore, di quel senso di sacralità viandante, nomade, però percepibile nella prossimità: “tante volte nel giorno devastato/ avanzavo per strade polverose/ e inabitate, ma quando comparivi/ cercavo di toccare il tuo mantello”, in un riferimento evangelico. L’insidia è nel subire la forza e l’energia contenute nella bellezza che diviene una prospettiva spesso inagibile, sfuggente o illusoria, tale da farci sperimentare i fallimenti, quell’amare solo le rose che non colsi, citando Guido Gozzano, altro poeta di preciso orientamento per l’autore. In “Questo spentoevo” si percepiscono anche filigrane naturali che portano a vibrare segnali non dichiarati di quella terra di Romagna che ha nutrito, fra i molti,  poeti come Ferruccio Benzoni e Stefano Simoncelli. Sembra allora che il giallo luminoso e settembrino di Lauretano si vada quasi a confrontare con il diverso giallo asfissiante dei crisantemi di Benzoni. L’intimità poi si aggrada sulle note di una rapidità lessicale intonata al battito sonoro verso l’accostarsi alle cose, agli oggetti, trattenuti in una corresponsabilità attuata e vigile, tale da farci comprendere come la parola poetica coinvolga gli elementi più profondi del sentire, una pratica stilistica rivelatrice e, nello stesso tempo, capace di procedere verso un dato sempre ulteriore. Approccio devoluto in sensibilità ricettive e propriamente selettive in linea con il temperamento fruibile dei versi, della loro proposta estesa alla decifrazione di un contesto sensibilmente visivo, come ritratto invernale: “La città azzera la sua storia/ lottiamo con la lastra livida/ dei selciati, interni ed esterni/ si rifiutano a vicenda, dopo due/ minuti la bellezza s’è ibernata”. Ecco, la poesia di Gianfranco Lauretano qui lotta con i tempismi contingenti per trasformarli nella danza espressa dal suono delle parole perché, comunque, è bene rendersi conto che, nonostante tutto, “dietro le nubi persiste un sole/ ma ama andarsene e tornare/ seminare la storia un’altra volta”.

 

             Andrea Rompianesi

 

lunedì 13 maggio 2024

PRESENTATO AL SALONE DEL LIBRO DI TORINO,PRESSO LO STAND DELLA REGIONE BASILICATA, LA SILLOGE “L’UNICITA’ DELLA LUCANIA:un approccio fotografico e poetico” di P. e V. CASCINI

 



Come previsto dal calendario degli incontri diffuso dalla REGIONE BASILICATA, e come  ricordato anche dall’agenzia nazionale di stampa 9COLONNE,il 10 maggio alle ore 13,30 è stato presentato il libro L’UNICITA’ DELLA LUCANIA: un approccio fotografico e poetico di PROSPERO E VALERIO CASCINI presso lo stand della BASILICATA. I lavori sono stati coordinati dalla giornalista MARIA BRIGIDA LANGELLOTTI, capo dell’ufficio stampa del consiglio regionale di Basilicata, che ha ripercorso la” storia della silloge “che ,ormai, con la sua diffusione, con il coinvolgimento della SCUOLA, dei SINDACI  e dell’associazioni dei LUCANI in ITALIA e ALL’ESTERO è riuscita a ricordare a tutti come, ormai, la VITA IMMAGINARIA, tema del SALONE, tocca anche la BASILICATA. La COMUNITA’ LUCANA, attraverso pubblicazioni, lo studio e il” SUO STARCI DENTRO”  e il suo elevarsi dalla lucanità in formazione, dalla lucanità degli affetti e di quelli levigati e universali  si e ‘ spinta -la comunità lucana - alla ricerca delle proprie radici, del proprio radicamento, del sogno e del mistero e quindi dello SVELAMENTO, che avviene attraverso la fotografia, la poesia, la pittura e perché no! il teatro. Le poesie A STA TERRA letta  dall’autore VALERIO CASCINI e il PAESE,IL MIO PAESE, letta da ROSA CASCINI, esprimono tali sentimenti così teneri, così leggeri, talvolta fatui ma sicuramenti RADICATI NELLA PROPRIA TERRA. Tutti gli interventi  degli autori, dell’editore,  e del PITTORE piemontese BERGAMI, che ha trasformato in opere d’arte tante poesie della silloge, si sono soffermati sullo svelamento di taluni aspetti  della LUCANITA’ proprio attraverso questa silloge con le poesie :LA PRIMINA- prima comune esperienza SCOLASTICA degli autori- ,ABSO,COMPAGNO DI CLASSE,LAGONEGRO…NOSTRA CITTA’ STUDI,LA LUCANITA’ SERAFICA,BIFANA PIRMITIVA..Nel concludere  i lavori, la dottoressa LANGELLOTTI, ringraziava i presenti e gli intervenuti, ringraziava, altresì, il  presidente CICALA perché aveva espresso, nella prefazione al testo, lusinghiere valutazioni assicurando, altresì, il patrocinio all’opera e il contributo per la pubblicazione. Dichiarava- la giornalista-  anche la sua disponibilità a programmare altre Presentazioni del Testo che mettano ancora più in evidenza il coinvolgimento delle attività musicali ( due poesie sono stati musicate dal maestro DAMMIANO) e  delle attività pittoriche ( come si diceva prima  il maestro Bergamini ha trasferito su tela il senso di tante poesie).

 











 

 

 

 

 


sabato 11 maggio 2024

Enea Biumi “Visighéri da vùus – Confusioni di voci” (Genesi Editrice, 2024)


 La confusione può essere davvero anche fusione di elementi che, pur mantenendo la loro identità, si fondono, si alleano, si contendono chiarezza e ibridazione di lingua, spunti, retaggi, profili, figure. “Visighéri da vùus – Confusioni di voci” è l’opera di Enea Biumi dove ritroviamo uno stile caratteristico dell’autore nel suo procedere in doppio linguaggio. Poesie curate in due vere e proprie versioni: varesino e italiano. La prima parte si determina in una condizione che evidenzia il recupero partecipe della memoria, in una sensibilità acuita dalla rielaborazione visiva e sonora: “Viuzza dai ricordi accesa/ con a fianco un muro d’ortiche/ in tanti dispetti impelagata// Mi soffoca la mente/ come rimasuglio di meridiana/ sbirciata nel niente”. Biumi segna passi che risuonano nelle strade periferiche, le più adatte a cogliere le minime sfumature di luce a disegnare esitazioni; le attese condivise negli attimi fugaci salvati dai ricordi. I versi brevi, immediati, si nutrono di una loro grazia lieve, di un respiro mite erede della terra. “Scamàgia ul sentimènt/ la fàna da cubià/ in la scarsèla dul vènt/ l’iér e’l dumàn” – “Fa sfigurare il sentimento/ l’ansia di accoppiare/ nella tasca del vento/ l’ieri e il domani”. Le domande si sviluppano nel confronto con gli stimoli del sacro visto attraverso le testimonianze storiche e artistiche di un territorio. Emerge intenso il profumo della notte, si intrecciano sentenze gentili e speranze lievi, la percezione del dubbio e della domanda inesausta. E’ davvero un passacuore, quello che si coglie alle origini dell’alba, che determina l’essenziale sentire di Biumi nel contatto intimo con le cose, la possibilità che l’ignoto si trasformi in dono. Un suono allora, quello del frinire nelle notti di luna, che acuisce la percezione capace ancora di elaborare una panica empatia. L’autore è osservatore attento delle diaspore umane, delle miserie come degli attimi di riscatto, talvolta umili ma preziosi; sa, inoltre, porre in vibrazione quella percezione di comune destino che caratterizza la poesia in quanto esito linguistico in grado di esprimere l’anima quando questa può dirsi la forma degli essenti. “Pace è questa falce di luna allo spuntar del giorno/ che nasconde meretrici di uomini ubriachi” scrive il poeta. La seconda parte si apre a suggerire percorsi verso un altrove geografico, ma non solo, che si rivela intriso di aspetti a volte opposti, comunque da decifrare nella osservazione reiterata...”Nànca ul su l’è bun de tramm fora/ da ‘stà bòza dul tèmp/ ca ma impòn de scapà” – “Nemmeno il sole riesce a liberarci/ da questa palude del tempo/ che ci obbliga a fuggire”. Qui si accennano note che parlano di aromi d’oriente; da Venezia a Istanbul, fino all’isola di Cipro, frequentata da Biumi in più occasioni, e che lo sospinge verso annotazioni rese in delicati passaggi e quasi trasparenti tramature: “Fuori c’è un vento che confonde/ il blu del cielo con un rimasuglio d’alito/ per pulire viuzze e parole di sconforto/ biascicate sotto voce come rosari per i morti”. E’ un tendere antico e contemporaneo che procede binario circa la contrapposizione di delusioni e afflati, attraverso una parola coltivata anche alla suggestione della musica di Vivaldi. C’è costante, nella poetica di Enea Biumi, il senso partecipe dell’osservazione discreta resa maieutica nella sua attenzione ai contenuti etici, dove l’umano è tale quando assume e svela la radice di una consapevolezza.

                                                                         Andrea Rompianesi

domenica 5 maggio 2024

Tommaso Giartosio “Autobiogrammatica” (Edizioni Minimum Fax, 2024)


 Le parole a noi care. Parole leggere e pesanti. Parole che possiamo amare o temere. Tommaso Giartosio, in questo suo titolo “Autobiogrammatica” si rivela già ai primi passi del testo un innamorato sedotto dalla forza vitale del linguaggio. “Mi chiamerò a parlare un esempio: il nome Luca. Luca, luminoso anche nella sua tonica buia, nome bruno con una vocale azzurra; Luca maschile, ma a sorpresa congiunto dalla a finale al femminile”, poi Giartosio evoca il verso dantesco “E vegno in parte ove non è che luca” nel senso di luogo dove non c’è nulla che risplenda. Attento così ad un sussurro materioso di una vita fatta di parole in una scrittura che Michele Toniolo direbbe dolomitica, ricca di tagli, di forre, ipogei e spazi scolpiti dalla levigatura delle acque. Forse, davvero, un immortale non scriverebbe, perché il muoversi tra le incisioni della penna è un tentativo di salvare il passato dalla prospettiva di un senso di risposta alle attese di quel finire che anticipa la morte nel suo precederci. Attraverso l’articolarsi dei segmenti di un lessico che si fa corpo, Giartosio imposta una vera e propria autobiografia che rivisita gli accenti e i ruoli del padre innanzitutto, poi delle sequenze nelle quali la stessa dimensione non solo sonora ma tattile dei vocaboli costruisce l’impalcatura vigile delle condizioni appropriate ad un nominare fruttuoso, policromo, effettuato nel rigore dei tasselli normativi di una filologia narrante. Perché l’autobiogrammatica dell’autore è comunque un vero percorso narrativo che vede nella prosa anche l’innesto di riquadri con sviluppi grafici capaci di porsi quali schermi adibiti a luoghi abitabili dalla visibilità linguistica, nella cornucopia feconda di enti nominali a vocarsi per segnaletiche semantiche. Lettura per palati esigenti ma anche ricettivi verso una sensibilità idonea ad esporre nella sinestesia l’apparato descrittivo nel suo proliferare creativo, dove lo sguardo analitico supera il suo schema rigoroso per farsi suggestione alchemica, supporto intimo, fascinazione corsiva. Poi la madre, la madre solare. “Lingua madre: foresta di mangrovie. Acqua, terra, cielo, nubi, acqua. Rami come braccia a radere l’acqua, nuvole rade, bracci di palude, radure di cielo”. Assonanze, intese, rimandi, allitterazioni. Espressioni che assumono il connotato del lessico familiare nei segnali che innestano espressioni, modi di dire di un certo plurilinguismo ancorato a rivelazioni di passaggi privati o epocali, in un risvolto anche sociologico che pone l’aspettativa della riflessione e della domanda; il confronto generazionale e la responsabilità adulta, l’esordio adolescenziale e il ripiegamento senile. Le parole che abitiamo e che ci abitano nella cadenza rumorosa, quelle che abbiamo attraversato, magari nella penombra indicata da un’autrice come Lalla Romano. Ad un certo punto Tommaso Giartosio coglie il senso delle cose che finiscono, l’episodio della morte a cui si assiste, e scrive di una notte nella quale uno strano brusio di giungla notturna lo conduce alla salita verso una soffitta. E la stanza sembra abitata da nomi volatili; la grande seduzione esercitata dal mondo animale e dai suoi suoni, quelli più originali e inusuali. Forse un’avventura panica in slanci onomatopeici. L’autore vive le parole come fossero terreni fecondi, confini sensuali, agglomerati fruibili nella costruzione di una identità. Infanzia e adolescenza, pulsioni fisiche e sofferte acquisizioni di ruoli imposti da chi esercita forme di ostile o complice violenza, dicitura di lettere che tracciano segni componenti figure e disegni riprodotti tra le stesse pagine. Tommaso Giartosio esplicita anche un dolore, quello intimo e riposto della sensibilità più tenace; qualcosa che il tempo porta alla cura attraverso una sublimazione lirica, una rivisitazione delle dipendenze nei loro tratti visivi che la lingua multiforme dell’esperienza scritturale ripropone e interpreta. Allora i colori, come nelle vocali di Rimbaud, saranno le voglie inattese o le apprensioni corpose, le accensioni che condizionano la nostra ibrida natura epidermica. La lingua altra, inoltre, divaricata, diventa solido ancoraggio per una rivisitazione che assurge ad una rinascita capace di riportarci, di nuovo, lungo quel tracciato dell’origine a cui inevitabilmente sappiamo, prima o poi, di ritornare. Nel libro di Tommaso Giartosio la penna diviene strumento del lavoro artistico, artigianale, immerso nelle scaglie, nei frammenti della composizione alfabetica. In un vedere che sa rendere le forme non si può non pensare all’affermazione di Heidegger secondo la quale se la paura oscura lo sguardo, lo stupore lo illumina; quando un timbro originario indica il procedere del pensiero all’interno della svelatezza di ciò che è presente. Tutto, nel testo di Giartosio, implica il privato e il pubblico, l’intimo e il sociale, la natura sessuale e giovanile dei richiami e l’esortazione peculiare del politico; così come il passare dal concetto di forma delle parole alla figurazione dell’ideogramma, sapendone esprimere esempio complesso nella poesia di Pound. La stessa esperienza sensuale del linguaggio dovrebbe però anche saperci viaggiatori liberi, quindi ben oltre i condizionamenti oppressivi della pervasiva natura ideologica, e di ogni ideologia che giunga ad esercitare un potere.

                            Andrea Rompianesi 


Marco Giovenale “Cose chiuse fuori” (Nino Aragno Editore, 2023)

Il flusso allitterante del titolo espone quelle cose prima racchiuse e ora esternate, irradiate nella prospettiva di una lacerazione che res...