sabato 25 gennaio 2025

Laura Caccia “Le voci insorte” (Book Editore, 2024)


Parla di voci la citazione da Paul Celan che caratterizza l’esito poetico di Laura Caccia, “Le voci insorte”. Qui siamo posti di fronte, innanzitutto, al complesso e ricco rigore formale che determina sempre tutta la qualità stilistica dell’opera poetica dell’autrice. Laura Caccia si adopera per abitare lo spazio della pagina in formule attinenti ad un approfondimento non solo fonetico ma anche specificamente visivo nell’architettura testuale. E’ un procedere davvero “a corda di vento”, oltre indefinibile nulla, attraverso sussurri che divengono ombre a confronto con l’insinuarsi lucido di stati d’animo in attesa, nello scavo continuo verso la presa d’atto minata dai percepiti residui di una partitura composita e in bilico tra caduta e salvezza. La sezione iniziale confida in una strutturale compattezza di poesie in forma di poemetto prosastico a decrittare l’evolversi lento dei possibili esoneri; come l’evidenza solcante il terreno accidentato delle ancorate condivisioni. Non c’è arpeggio disadorno ma confronto esprimente il farsi non ladra di sabbia, per citare Margherita Sergardi, ma “farsi ladra di suoni tutta la notte a fuoco d’inferi spifferi/ non darsi pace e niente la schiena attorno al suo orizzonte””. Le voci sono tutte e nessuna; ritornano trasformate in venti, in stirpi canore, in azzurri e varchi, sbavature inerti, sillabe e appunti, soccorsi che rievocano accostamenti imprevisti, frammenti nominali paratattici, riporti di episodicità minimale ma svelante. La scrittura di Laura Caccia, magistrale per tenuta, concede già nella seconda sezione, l’aprirsi di una tessitura che si dilata graficamente sulla pagina a voce esplicita in versi asimmetrici e spazialità divaricanti le tracciature stesse nella più attenta estensione. C’è allora un tentativo di sintattico diradamento che comporta e include la possibilità di movimento nel testo, quasi un’applicata opzione di concretizzare l’uso della pausa grafica in accezione sospensiva. Così “cresce sui rami la voce che era/ nostra sfiora marzo e mani i loro suoni // mortali a dissipare a ogni angolo di strada” quali sviluppi restii a mostrarsi senza prima tentare di colmare almeno nella parola esatta le distanze e le notti che Laura Caccia definisce “contromano”. Una sintassi del travaglio procede e delimita il perimetro dell’esprimibile, là dove ogni confine è indicazione di ciò che a quel confine sta oltre, tanto che l’estrema varietà di forme strutturali fa sì che il testo possa assemblare trabeazioni felicemente efficaci, disegnate sempre in una misura complessa e articolata. Forse una sintassi avvolta dall’insidia di uno scavato immanentismo che si concentra sull’opzione filtrante il reale; un reale pensato non nel dato stesso ma nella sua interpretazione come “ogni etimo muto” od “ogni pausa sfollata”, a porre l’attento distinguere le peculiarità materiche alla foce degli enigmi e delle forre, tra crepe e figure, corpi e tracce, bordi e archi, l’assiduo e compreso desiderare quale passaggio “nel tempo debole/ quotidiano neppure il vizio a fondale una parola/ potrebbe e ciascun brandello”. A’ rebours, davvero, rivisitando i passi in sezioni strutturate secondo schemi testuali sempre diversi, inseriti in una prospettiva che compie il tracciato conoscitivo attraverso la composizione strofica ad estensione e contrazione, come possibili eventi capaci di scandire osservazioni, ipotesi, ritorni “tra le periferie degli occhi/ sonnambuli nei/ turni delle notti al guado”, anche “nel sangue tra cronache di oppressi”. Ci sono strofe a forma di terzina o quartina irregolari poste a specchio asimmetrico con accenni di distici, quasi uno scalare e porsi nella successione di nomi di natura in una composizione panica: “tutti i mattini i pensieri/ screpolati non è/ il primo nome che si fa parola” quando poi “ogni crepa d’alba/ in contumacia pone un freno/ al suo esondare// nel farsi chiaroscuro che/ slabbra l’approssimare della luce/ agli orli delle cose”, con inoltre ritorni di parole chiave. Aspetti che riguardano una particolare qualità di equilibrio; “perché un corpo sia stabile è necessario che abbia almeno tre punti d’appoggio che non si trovano in linea retta” scrive Thomas Bernhard nel suo “Correzione”, e allora gli appoggi saranno in una base testuale che diviene ogni volta esito composito di progetto, determinazioni che la parola traccia in una formula espressiva che continuamente insorge. L’esperienza assidua si dimensiona anche nella conduzione dei segni grafici: “/ ospita a rovescio il suo migrare mondano /” e lo slash interviene a comporre ulteriori confini che aprono al dopo. O ancora la sorte, l’inquieto destarsi del dire “come è potuto accadere che ci siano cose/ a cui non abbiamo dato voce”; oppure le ceneri che si strutturano in compatti blocchi linguistici quali possono essere i brani in prosa poetica o poemetti in prosa che mantengono sempre una consistenza ritmica. Il lavoro di Laura Caccia si chiude poi come una fioritura di mappe inesauste, similari a teorie di note in partitura evocanti il nostro esserci contemplato e combattuto, “dove insiste è poco dire/ un tale irriparo che a farne nido niente è metafora”, attraverso quella “musicalità” che non ha nulla da spartire, per citare ancora Celan, con quella “melodiosità” più o meno imperturbata.

                                                                  Andrea Rompianesi


 

venerdì 10 gennaio 2025

Adelio Fusé “Di chi sono queste insonnie” (Piero Manni, 2025)


 “Conobbi Aldous Canti nel buio di una grande stanza. Il casolare verso cui eravamo diretti si serviva della campagna per fare il vuoto intorno o avveniva invece il contrario?” inizia così l’opera di narrativa “Di chi sono queste insonnie” di Adelio Fusé. Già emerge il quesito che l’autore pone alle coabitazioni delle differenze, delle incompiute alternative, salvezze e perdizioni, percorsi attraverso ammissibili opzioni. Fusé esprime la sua capacità letteraria, la sua potenzialità creativa verso il linguaggio qui domato in un rigore narrativo, nella costruzione di un passo rafforzato dalla persistente attenzione alle solidità evidenti, ai particolari da cogliere nella strategia in bilico tra luce e ombra, orma e assenza, profili che abitano le nostre più intime domande. Quella di Fusé è una partitura che ogni volta ci interroga, stimolando il nostro porci di fronte alle cose, la nostra inesauribile ansia di recupero di passioni per lo più perdute o mai compiute. “Ciò che è definitivo si lascia maneggiare facilmente ma nello stesso tempo si propaga come un’eco”; come la scrittura, quella che sospende, avverte, fluisce, avvolge, inquieta, lenisce attraverso un cammino che analizza il movimento, il realizzarsi in atto. L’approccio contempla una ossessione che si determina nella figura di Aldous Canti, scrittore dalla personalità potente, nello stesso tempo carismatico e assente, appartato e invasivo, quasi distrattamente impegnato nella realizzazione di un nuovo romanzo che possa, in qualche modo, ripetere il suo unico precedente successo. Una sorta forse di alter ego è poi Manlio Roveda, agente letterario che lo insegue nel suo vagare verso un approdo costituito dalle terre di Galizia a ridosso dell’Atlantico. “La strada, intanto, si allontana dall’oceano, si contorce, si raddrizza, ritorna sulla costa, sconfina di nuovo all’interno, sale, scende, risale, si avviluppa, si srotola, ora viziosa ora pigra”, proprio ancora come la scrittura stessa nel suo farsi. Così avviene, nella considerazione di Fusé, quella peculiare lotta con le parole nella specificità di osservazioni e distinzioni qui rappresentate da percorsi espressi in margine, quali assorti e planati su emissioni esprimibili, il saper distinguere le acque dell’oceano da quelle di un fiume o saper percepire il senso della dilatazione sull’orizzonte. La scommessa scritturale è ancora nel margine della pagina dove tutto compie l’esegesi del particolare che s’insinua tra i retaggi delle ancorate maniere in ragione di dubbio e domanda. Ricerca, allora, nel suono visivo e nell’immagine sonora, nelle insonnie, appunto, attribuibili all’io molteplice, quello voluto e quello subìto, attivo e passivo insieme, diacronico prospetto di una partitura interpretante, di una molteplicità di anime a confronto con il mistero degli eventi. Il fatto e la parola in un connubio autoriale opposto all’incuria della dimenticanza, auspicio invece del recupero di una specificità responsabile. I luoghi ospitano passaggi evolventi in riflessioni, attenzioni, negli spazi galiziani, con il percepire le vibrazioni, le sonorità che ricordano alcune atmosfere della baia di nessuno modulate da Handke, o certe messe a fuoco reinterpretanti gli elementi oggettivi che richiamano la visione del Palomar di Calvino. I vocaboli possono costituirsi in una vera e propria inondazione, interminabile e patologica, galleggiante, inoltre, tra le colorazioni ibride di albe decifrate da progetti che non escludono tutta la complessità delle interrogazioni civili. La combinazione di ciò che è vissuto e di ciò che è pensato comporta una formula che completa individualità e personalità tra ciò che è stanziale e ciò che è nomade. Fusé concentra sulla pagina uno statuto a monologo serrato dove, ad un certo punto, la figura di Aldous Canti si confronta con la malattia e con le sue implicazioni, attraverso una grata di successioni espressive che si trasformano in flusso linguistico in sé stesso riflessivo, così come evocante snodi esistenziali. Estenuato passo accumulante scorci di visuale introspettiva nominante il genere intimistico condotto alle soglie di una determinazione etica. Il testo stesso diviene, infine, quel romanzo auspicato che necessitava di una sintesi comunque parziale che raccogliesse però le interpretazioni; sapendo, ci dice Adelio Fusé, che “i sogni sono una forma d’insonnia. E alcuni sogni più di altri”. Così come il compatto senso della ricerca si distribuisce nei praticati sentieri della costruzione letteraria.

                                                                                   Andrea Rompianesi

venerdì 20 dicembre 2024

Enzo Campi “Fate attenzione a non calpestare il testo!” (Puntoacapo Editrice, 2024)


                               

Dalle animalìe e dai bestiari di una origine nietzscheana erompe o, meglio, trapela la voce insistente e reiterante di una poesia che oppone la determinazione assertiva ad una sottostante dolenza. Dire “e/ pure/ procede/ dilagandosi a raggera, non rivendica piccoli padri/ né magnifiche madri...” equivale, forse, all’appostarsi intorno all’esigente dicibile, attutito ma immite, quale rimozione dell’ingiusto. Scriviamo del libro di poesie “Fate attenzione a non calpestare il testo!” di Enzo Campi. Esito evocante uno spirito drammaturgico sulle orme di Zarathustra, sui confini levigati dalla domanda che è ferita, oltre le disamine di cori e corsi, di ciò che non basta a sfiancare il riproporsi delle ingiurie e delle cadute. Il sacrificio è termine di una proposta assidua che scolpisce sulla pagina dell’autore una impalcatura stabile nella natura compiuta, in sé dialogica, tra il profilo del poeta e quello del filosofo. Enzo Campi sembra tracciare un solco che equivale a trattare il testo nella sua esigenza contenitiva, affiorante dalla presunta ipotesi di sollievo, estinta poi nella perdurante complessità dei referti. Il segno è talvolta potenziale, come quesito accolto e temprato nella chiave atemporale e ossimorica dei suggeriti passi a misura di corpi vegetali, animali, umani. Il verso interroga nella forma più contratta, in altre fasi si allunga alla consistenza del frasario. Il fronte quasi leggendario comporta florilegio di giudizi; azzarda la sosta nella proiezione teatrale che dimensiona uno slittamento verso l’epicentro della chiamata. “Tutto scorre, certo/ tutto fluisce e rifluisce docilmente/ nello stallo in cui si consegna il derma/ all’attacco del chiodo di turno”; come reagire al dramma diuturno che lambisce la vicenda del giorno, nel fluttuare incostante dei destini e delle ombre, là dove il sacrificio rinnova la sua peculiare natura fra traumi e dettati. S’impone il bestiario in forma che inquieta e devasta nella percezione di un riprodursi di perdite eviscerate nell’integrato consumo come algida osservazione che l’autore impone in una ipotesi di sconfitta: “in questo falso tripudio di vita/ che tanto somiglia alla morte”. Ci sarà dissoluzione in danza tra i versi del poeta che ritrova l’occasione di un richiamo quasi profetico verso constatazioni di avvenuta incomprensione o piuttosto isolata e appartata mestizia. Il canto indecifrabile della sirena si stempera nei dettagli inquisiti e posti alla luce fioca della comparazione esegetica. E allora il profondo è “crogiolo di scaglie e di squame”, nella proliferazione di umidi cunicoli impervi e retaggi di gabbie, ma anche simulazioni di stadi, di avvenute metamorfosi, quelle scandite da Nietzsche verso l’oltreuomo da cammello, leone, fanciullo. Dal troppo umano emerge il germe dell’ingiustizia che cavalca la storia, in quel tono tendente al sapienziale per rendersi prossimo alla forse illusoria portata inerente all’idea  “che il pianto/ non venga versato a caso/ su questo o quel rudere”. La prigione della libertà, allora, quasi ci preserva dall’infido oltraggio del reiterato, dalla ciclicità simbolicamente espressa dal serpente, ma solo nella sua forma relativa in quanto immanente. L’eterno ritorno sostanziale drappeggia il fronte delle righe condotte da Enzo Campi all’esito di un continuo interrogarsi: “e fu così che cominciai/ a comprendere il suo idioma enigmatico” perché “ci sono tavole./ Alcune recano i segni e i segnali/ del linguaggio/ che ha generato i nostri avi”.

                                             Andrea Rompianesi


giovedì 28 novembre 2024

Paolo Ruffilli “Fuochi di Lisbona” (Passigli Editori, 2024)

 



“Al posteggio dei tassì c’era il blu di prima che iniziasse il giorno. Dopo il blu velluto della notte e prima dell’azzurro del mattino, quando alla fine il buio inciampa a un tratto nella luce”. E’ un brano dell’opera narrativa di Paolo Ruffilli, “Fuochi di Lisbona”. L’impresa ardua esprime tutta l’attenzione e il coinvolgimento dell’autore nel suo empatico percorso, volendo rapportarsi alla scrittura del grande poeta portoghese Fernando Pessoa e, in particolar modo, al carteggio che testimonia del suo amore per la giovane Ophélia Soares Queiroz; relazione poi interrotta. Testi stessi di Pessoa riprodotti in corsivo si alternano alla prosa di Ruffilli che pone sulla pagina un contemporaneo io narrante, recatosi a Lisbona per un convegno, e che vive una parallela storia di passione con una donna, Vita, che lo attrae in un magma di sensualità e fascinazione. Il procedere testuale si pone in una veste commisurata al sentire la complessità dei sentimenti, dei sensi, il dialettico arpeggio delle domande, il dibattuto accogliere la seduzione, la ricerca fondamentale di un significato sempre nascosto nei misteri del vissuto. E’ una prosa, quella di Ruffilli, che qui sviluppa rimandi, nelle frasi, di vere e proprie rime e assonanze, quasi a evocare la più autentica natura poetica dell’autore. La tonalità efficace appare nella esposizione cromatica delle sfumature che caratterizzano la città sulle rive del Tago, così le sensuali infiltrazioni della fisicità, la potenza interiore del canto di Amalia Rodrigues.  Da sempre e più di tutto, i colori nella incandescenza del riflesso sull’anima; “beige e sabbia, ormai, il cielo e il fiume. Ocra, terra di Siena, ruggine, cacao, avana, prugna: le case e la città erano prese in una gamma mescolata di marroni. Nella polvere d’oro della sera che moriva”. Il senso arcano della vita e il continuo inseguimento di quella figura che nel libro dell’inquietudine e nei tanti eteronimi ha interpretato l’approccio più autentico a quelle giornate che sono filosofie. Paolo Ruffilli esprime qui una visione peculiare di ciò che il sentimento d’amore, nelle sue diverse connotazioni e sfumature, comporta come vicissitudine attraverso aneliti, paure, delusioni, moti, contraddizioni che, comunque, giustificano il nostro inesausto cercare. Accompagna il testo una nota di Antonio Tabucchi scritta nel 2012 sulla versione inedita dell’opera.

 

                                                         Andrea Rompianesi

 


giovedì 14 novembre 2024

L'ANIMA nella Poesia di Prospero Cascini fotografata attraverso la PROPRIA, a cura di Salvatore Monetti

 


La poesia, in molte delle sue forme, è molto più di un semplice esercizio linguistico o di un passatempo estetico. Essa è da meditazione. Un atto che induce la mente al silenzio, alla quiete, permettendo al lettore di abbandonarsi alla contemplazione. È attraverso il distacco dalla frenesia del pensiero razionale che la poesia apre le porte a un'esperienza più intima e profonda, fatta di percezioni, sensazioni e visioni che trascendono il quotidiano. In questo viaggio, l'opera poetica diventa una chiave per l'autoscoperta, una via che si apre alla coscienza del lettore come una meraviglia da esplorare. Prospero Cascini, con la sua maestria poetica, ci guida lungo questa via, dove il flusso di pensieri razionali cede il passo all'ascolto profondo di sé e dell'inconscio. Le sue sillogi poetiche non si limitano a raccontare storie o emozioni, ma ci invitano a un'esperienza meditativa, in cui la mente è libera di vagare oltre i confini del razionale e del conosciuto. I suoi versi, pur nella loro apparente semplicità, svelano l'intima complessità della vita umana e del suo continuo divenire.                  


La poesia di Cascini ha il potere di trasportare il lettore in un regno di "non-senso", dove le convenzioni logiche vengono messe in discussione. È in questo spazio che la mente trova quiete, nel senso che l'interpretazione si ritira per lasciare posto alla pura esperienza, quella che è più vicina all'essenza delle cose. Le immagini evocate nei suoi versi non sono meri simboli da decodificare, ma finestre aperte su mondi interiori inaccessibili alla logica e alla razionalità. La poesia si fa strumento per scoprire quel "non-detto" che è più vero di qualsiasi affermazione razionale. Leggere le poesie di Prospero Cascini è un invito a percorrere una via che non segue la logica della quotidianità, ma quella della memoria e del pensiero profondo. I suoi componenti sono un viaggio nell'inconscio, dove le voci delle associazioni e delle analogie ci accompagnano a scoprire noi stessi, a riflettere sulla nostra esistenza in modo nuovo. Ogni poesia diventa una porta aperta verso luoghi dell'anima che non avevamo ancora esplorato. Cascini ci invita ad abbracciare l'indefinibile, a riconoscere l'impossibilità di definire tutto, ma anche la bellezza di questo indefinito che ci circonda.


Tra i temi ricorrenti nelle sue sillogi, l'amore occupa un posto centrale. Un amore che cresce e si sviluppa, che passa dalle prime sensazioni di dolcezza e desiderio, fino alla bramosia di identificazione. Le sue poesie d'amore sono un susseguirsi di emozioni contrastanti, spesso enfatizzate da assonanze e antitesi che si intrecciano in un gioco sonoro raffinato. La musicalità dei suoi versi, la scelta dei suoni e delle immagini, ci immergono in un flusso che non solo racconta l'amore, ma ne rivela la sua natura complessa e sfaccettata. In questo modo, l'amore diventa un'esperienza sensoriale e riflessiva, che ci invita a riflettere sul nostro stesso desiderio di amare. 


Nelle sue poesie, Cascini esplora le sfumature di questo amore, che può essere dolce e tenero, ma anche complesso e difficile. È un amore che ha il volto della madre, del padre e che si intreccia con il ricordo e la memoria. In alcune delle sue sillogi, l'amore familiare diventa anche uno spazio di crescita interiore. Cascini sa bene che l'amore familiare non è solo ciò che viviamo nel presente, ma è anche la somma delle esperienze vissute dai nostri genitori, dai nostri nonni, da chi ci ha preceduto. Ogni generazione è il testimone di un amore che non finisce mai, ma si trasforma, si evolve e ci accompagna come un filo invisibile che ci unisce a chi amiamo e abbiamo amato. La poesia dedicata alla nipote affonda lo sguardo nelle delicate e potenti dinamiche dell'affetto che lega un nonno alla propria nipote. Questo legame, è descritto come un amore che porta con sé un senso di dolcezza protettiva e di trasmissione, assume nella poesia di Cascini una valenza ancora più profonda, come un incontro tra generazioni che si rinnovano e si rinforza. L'amore che un nonno nutre per la propria nipote è un amore che possiede una dimensione unica, un misto di dolcezza, saggezza e speranza. 

             


Il poeta non è solo un testimone del passato, ma diventa una guida, un punto di riferimento silenzioso, ma costante. La relazione con la nipote è un atto di generosità, di protezione, ma anche di educazione. Ogni momento passato insieme è l'occasione per condividere un sapere, una saggezza che non si impone, ma si dona con naturalezza. In ultima analisi, la poesia di Prospero Cascini non è solo un piacere estetico, ma un cammino meditativo. È una forma di resistenza alla velocità e al consumismo della nostra epoca, un richiamo alla lentezza e all'ascolto, un invito a fermarsi ea guardare dentro di sé. In un mondo che corre, la poesia diventa un rifugio per l'anima, uno spazio di libertà interiore dove ogni lettore può incontrare la propria essenza e scoprire, attraverso il "non-senso", il significato più profondo della propria esistenza.

 

                              Salvatore Monetti

                      


giovedì 10 ottobre 2024

UNICITÀ DELLA LUCANIA Recensione del Filosofo Vincenzo Capodiferro, 2 ottobre 2024

 


Contravvenendo all’estetica crociana per cui l’autore si dissolve nell’opera d’arte, noi vogliamo valorizzare le persone che stanno dietro l’arte. L’arte è fatta di mani e piedi non è qualcosa di disincantato e disincarnato. 

PROSPERO ANTONIO CASCINI


Prospero Antonio Cascini, dirigente scolastico in pensione da settembre 2016, dopo sessant’anni dalla sua primina (1956), laureato in psicologia, inizia la sua carriera come preside a Oppido Mamertina (RC), successivamente in Basilicata matura esperienze di direzione in vari ordini di scuole. La primina del 1956, anno della nevicata straordinaria. Tutto iniziò tra botole, scale, bauli zollette di zucchero come viatico e tanto affetto. Si rammenta l’amore che tutto accoglie, abbinato alla dolcezza dello zucchero e al sacramentum. Operatore ed animatore culturale, ha organizzato varie iniziative, tra cui “La giornata del trekking”, le “Saraceniadi”, “Il concerto di Natale”. Tra l’altro in collaborazione con la Scuola Media “Ciro Fontana”, ha curato la mostra e l’annesso opuscolo su “Giovanni Iacovino. Tra pittura e fotografia”, ed. della Cometa, Roma 1996. Ha pubblicato con Monetti, di Battipaglia, “Il Girotondo. Tra primina e buona scuola in Basilicata”; “Lucanità saracena tra poesia e fotografia” nel 2022. Ha ricevuto vari riconoscimenti in Premi e Concorsi culturali.

IL PRESIDE PIU’ GIOVANE D’ITALIA.

Oggi è Maria Luisa D’Onofrio, campana, di trent’anni. Allora eri tu, ma io intendevo che sei giovane nell’anima. Quant’è bella la giovinezza… Lorenzo. Ada Negri. Mia giovinezza. Non t’ho perduta. Sei rimasta, in fondo all’essere. Sei tu, ma un’altra sei: senza fronda nè fior, senza il lucente riso che avevi al tempo che non torna, senza quel canto. Un’altra sei, più bella.

VALERIO CASCINI

Valerio Cascini, avvocato, ha lasciato il suo paese d’origine, Castelsaraceno, per trasferirsi a Torino per motivi di lavoro. È autore di diverse sillogi poetiche. Ha ricevuto vari riconoscimenti in Premi e Concorsi culturali, anche in vernacolo, linguaggio che di solito l’autore utilizza nella sua versificazione. Opere: “ U’ pruf’ssore” (2009); “Ereva curaggio” (2010); “Mangiaparole” (2012); “Ti racconterò. Filastrocche per una crescita felice” (2023). U prufssore, Amedeo Megale, un grande docente, insieme alla signorina Angelina che avevo io, il prof. Leandro, Senatro, la Signora Giuseppa, la Signora Corrado, la signora Lardo, don Gaetano Pittella. Fino a Teresa, Ida e tutti gli altri. Albino Pierro. ‘A terra d’u ricorde S’i campéne di Paske su’ paròue di Criste ca hé fatte nghiùre ‘a morte, mò sta parlèta frisca di paìse jèttete u bbànne e dìcete: “Vinèse a qué, v’àgghie grapute i porte.”
Questo senso della poesia lo ritroviamo in Valerio: Fammila na puhisia e ch’ t’ costa?/ Parole mbastate cu parole a bella posta./ Ca nu sbendano a l’aria pi fa sputa,/ ch’arrivano d’rett’addun’ so’binut’. Fare poesia rimanda al “poiein” originario, alla creazione divina. Ogni poeta, come diceva Turoldo è profeta. L’homo faber umanistico è colui che fa arte. Fare poesia è impastare: rimanda all’evangelico lievito del Verbum. SALVATORE MONETTI Editore-scrittore- fotografo (sue le foto che accompagnano il testo). Salvatore Monetti è nato nel 1960. È un Uomo del Sud. Vive nel Sud dell’Italia, in provincia di Salerno. Ha iniziato a scrivere quando gli amici, i confratelli, i teologi, le persone a lui care, lo hanno coscientemente circondato con una terra di nessuno fatta di silenzio. Essa gli ha consentito di pensare, studiare, scrivere, lavorare in pace e di dialogare con tanti, sicché spera di continuare a godere di un tale trattamento, senza dover perdere il poco tempo che gli resta a rispondere al mordi e fuggi che in genere caratterizza le critiche e i sorrisi dei maîtres à penser. Autore e editore: Parla se hai parole più forti del silenzio, o conserva il silenzio. (Euripide). Vox clamatis in daeserto.

GIANNI BERGAMIN PITTORE ha trasferito su tela ………………, le emozioni della LU C A N IA! Nato ad Adria (Ro) nel 1958 Vive e lavora a Torino. Ha esposto in varie rassegne artistiche. Attualmente è artista nel Museo a cielo aperto di Camo (CN). Fa parte della collezione della biblioteca civica “A. Arduino” di Moncalieri (To) L’artista, amico di Valerio da tanti anni, ha preso spunto dalla civiltà contadina di Carlo Levi. “Io sono veneto, ma ho avuto molte relazioni in Lucania”. Ci accomuna la “Terra”. I Veneti erano i terroni del Nord. Levi: “Nel mondo dei contadini non si entra se non con una chiave di magia”. Sempre nuova è l’alba di Rocco Scotellaro. Non gridatemi più dentro, non soffiatemi in cuore i vostri fiati caldi, contadini. Beviamoci insieme una tazza colma di vino! che all’ilare tempo della sera s’acquieti il nostro vento disperato. UNICITA’ DELLA LUCANIA “L’unicità della Lucania: un approccio fotografico e poetico”. Come la precedente “Lucanità Saracena”, questa silloge ci offre un condensato di forti momenti emotivi, che si intrecciano in immagini che colgono attimi inattuali, ma eterni, intensi versi in vernacolo, che sgorgano dalla sublime penna di Valerio e in italiano, locus in cui il Preside riporta ai nostri giorni i vivi sentimenti che ci legano a questa terra ancestrale, la Lucania. Come sottolinea il Presidente Carmine Cicala: «Gli autori hanno il merito di identificare il territorio col suo linguaggio, alternando, non a caso, italiano e vernacolo… una identità che può essere espressa sulla base del patrimonio culturale che come istituzioni, siamo tenuti a custodire e a valorizzare». Il percorso della Lucanità è stato scandito, anche nell’impaginazione del testo, in quattro momenti di Lucanità: Lucanità in formazione, Lucanità intimista, Lucanità levigata e Lucanità radicale. Ferdinand De Saussure: La parola è sempre un’esecuzione linguistica individuale: è un effettivo proferimento di un insieme di fonemi che costituisce una parola. La langue, invece, non è mai individuale, ma è della collettività, è sociale, è astratta. Solo le parole sono dotate di significato, ma lo assumono solo nel contesto di una langue. Fonema e fenomeno hanno molto in comune. Luce e suono sono i due pilastri del reale. Così la fotografia si intreccia con il linguaggio. Photos e Phonos sono legati come lampo e suono. La langue, cioè, è espressione di ciò che Gustav Jung definiva l’Inconscio collettivo, coi suoi archetipi. L’inconscio collettivo, secondo Jung, rappresenta un
contenitore psichico universale, vale a dire quella parte dell’inconscio umano che è comune a quello di tutti gli altri esseri umani. Esso contiene gli archetipi, cioè le forme o i simboli che si manifestano in tutti i popoli di tutte le culture. Ai primi tramonti le parole sono pietre. Nella quotidianità assolata i cuori sono pietra. Il profeta Ezechiele annunzia: “Vi darò un cuore nuovo e metterò dentro di voi uno spirito nuovo; toglierò dal vostro corpo il cuore di pietra, e vi darò un cuore di carne”. La poesia è in filo diretto col cuore, oltre che con la mente. Il cuore è il luogo del pascoliano fanciullino. La poesia diviene luogo dell’infanzia. Infanzia deriva da infans, che significa muto, che non può parlare. Ha un significato negativo: cioè, ciò che non si può dire intorno all’essere e si può esprimere solo in altri termini, artistici. L’arte, la poesia è dimora entis (Heidegger). Aletheia, la verità è ciò che si svela nell’intuizione. C’è un’intuizione nella poesia che si chiama ispirazione. I cugini Cascini ci riportano sempre in un tuffo nella loro infanzia, nella Basilicata degli anni Cinquanta. Ogni poeta reca in sé invariabilmente quello che Giovanni Pascoli chiamava il “fanciullino”. È il fanciullino, l’Es di Freud, che parla nella poesia, nell’arte, col suo linguaggio speciale, unico. La tipicità della Lucania si ravvisa soprattutto nelle tradizioni popolari, nelle tracce indelebili dei costumi, della religiosità, ma in maniera sublime e raffinata nel linguaggio, quel linguaggio ricco di cultura orale, che oggi purtroppo si sta man mano perdendo. Ogni paese ha un dialetto diverso, tradizioni diverse. Che ricchezza! Nei paesi del Nord, ove tutto è omologato, non esiste più il dialetto, lo parlano solo gli anziani, che noia! Che tristezza! E poi ogni paese era un teatro a cielo aperto, come la Napoli dei De Filippo e di Totò. C’erano personaggi unici, speciali, anche se analfabeti, genuini, che solo nel dialetto potevano esprimere tutta una ricchezza di espressioni, di risus festaiolo collettivo. Ricordiamo il “De Risu” di Aristotele, cui Eco fa eco in “Il nome della rosa”. Vico designa con l’espressione logica poetica il modo con cui gli uomini dell’età eroica interpretarono il mondo, perché la loro conoscenza (logica) non fu razionale, compiuta cioè con l’intelletto, bensì fantastica perché attuata con l’immaginazione (poetica). Dice Enea Biumi: La terra in cui si nasce è come una madre. Ce lo insegna il Foscolo in quel prezioso sonetto che inizia con “né più mai toccherò le sacre sponde”. Ed oltre ad essere madre è anche sacra. Questi due termini di maternità e sacralità ben si addicono al volume “l’unicità della Lucania: un approccio fotografico e poetico” Heidegger: La terra è il luogo da cui ha origine l’esistenza umana, la materia nella quale siamo radicati e che spesso ci sfugge perché distratti dai problemi quotidiani. La terra è la radice e la fondazione, mentre il mondo è il contesto e il luogo dell’esistenza umana. Come se fosse possibile, all’Alba Lucana non annunciare il nuovo giorno. È come “Sempre nuova è l’alba” di Rocco Scotellaro. In Lucanità serafica: Svegliarsi senza chiedersi … del dì transumante. C’è il ricordo della transumanza: il tempo ultra-essente, trascendente per eccellenza. La Basilicata è una regione ancestrale e sconosciuta, che affascinò Levi, antropologi, come De Martino, scrittori, poeti e registi, da Pasolini a Gibson, viaggiatori di ogni tempo. Come ha sottolineato Monetti: “è stato un susseguirsi di emozioni, un intensificarsi di rapporti umani, affettivi e di studio”. I poeti hanno evidenziato che questo è stato un sogno, ma soprattutto un omaggio alla loro terra, con le sue tradizioni popolari, i riti arborei, il dialetto, le espressioni linguistiche e fotografiche.
Il “familismo amorale” di Edward Banfield non rende merito dell’immensa ricchezza spirituale legata al valore della famiglia nella nostra Lucania. In tempi in cui si considerava il nostro mondo arretrato, dovuto anche alla visione leviana (“Cristo si è fermato ad Eboli”), qui si sperimentava già la famiglia “liquida”, come la società liquida baumaniana, una famiglia allargata, che inglobava vecchi e giovani, cugini, parenti. La famiglia è tutto. Eppure, Levi è voluto tornare ad Aliano. Come mai? A Potenza ancora so usa l’espressione “mi fra”, per indicare i parenti. Basti ricordare “Il mito della Lucania sconosciuta” di Tanino Fierro; Giovanni Caserta, in “Viaggiatori stranieri in terra di Basilicata” (Strutt, Lear, Du Camp, Lenormand) scrive: «è noto che non pochi viaggiatori, prima di addentrarsi nelle terre pericolose della Lucania e della Basilicata, usavano fare testamento… si fornivano di lettere di raccomandazione, con cui si presentavano a personaggi e autorità delle terre visitate, quale forma di accreditamento. Del resto, essendo quelle terre prive, come si direbbe oggi, di strutture ricettive, un viaggiatore, per lo più, faceva affidamento sulla ospitalità, che diventava così una necessità ed un dovere. Di qui la tradizione e forse anche il mito, di una ospitalità lucana, e meridionale in genere, che si faceva risalire la mondo greco… si parlava di sacralità dell’ospite». L’hospes è un termina ambivalente: è nemico e amico, è ospite e il cospiratore. Vorrei ricordare a proposito anche “La Basilicata di Luchino Visconti” di Teresa Megale. L’unicità della Lucania è una poetica “Basilicata coast tou coast” come quella di Papaleo.

  Vincenzo Capodiferro






martedì 10 settembre 2024

Anna Maria Scocozza - Floriana Porta, SIAMO FATTE DI CARTA, (Arte, Poesia e rinascita al femminile), Ventura Edizioni

 


Davvero interessante e, oserei dire, originale questa raccolta che accomuna parole a oggetti fatti di carta, dando vita ad una ecfrasi che non ha necessità di ulteriori spiegazioni se non l’accompagnamento dell’occhio e della voce recitante. Spesso parola e figura si intrecciano dialogando spontaneamente e amalgamandosi in modo naturale e semplice. Attenzione: semplice, non semplicistico. Il richiamo iniziale all’arte giapponese del kintsugi suggerisce che le rotture si possono riparare con abilità e intelligenza. Ma dove sono le rotture? Sicuramente nella vita quotidiana fatta di successi e insuccessi, di promesse e delusioni, di sogni e di cocente realtà. Come ben sottolinea Floriana Porta nell’introduzione la sua ispirazione, che segue parallelamente quella iconografica  di Anna Maria Scocozza, è dettata dal “tempo, dalla metamorfosi, dalla forza, dalla debolezza, dal kintsugi, dall’acqua, dalle radici e dalla luce. Se la missione di Anna Maria è dare forma e corpo alla carta, la mia è di darle voce e respiro.” Sotto questo aspetto allora si tratta di allontanare la superficialità delle cose per procedere alla ricerca dell’intensità dei rapporti umani. Il fiume eracliteo che passa e scorre sempre nuovo e fresco non dà tregua, ma se ci si ferma a riflettere riusciamo a scorgere in questo suo incessante andare gli aspetti più interessanti e “nostri”, tali da farcene una ragione consapevole di ciò che la vita comporta.

Cucio e riparo tutti gli echi  / che orbitano dentro me. // Piaghe, ferite, / cicatrici e lacerazioni / nel loro concatenarsi, / si faranno portatrici di luce / nell’orizzonte della poesia.

Come un elemento  apotropaico la poesia diventa di per sé vivificante, rigenerante e tutto  sommato anestetizzante. La metamorfosi è appunto dettata dalla poesia e in essa si fa corpo e anima, ispiratrice di gesta, nemesi del male, palingenesi finale.

Nella sinuosità del verso  / appari tu, donna // come un roseto di gemme / ti frammenti e ti sveli  /ad ogni sua carezza / Infuocata d’amore // ma lui non si fa scrupoli / ti deride, ti schiaffeggia / e poi ti uccide (…)

“Siamo fatte di carta” diventa così un progetto ambizioso di riscatto e di denuncia. Tutto comunque nel nome e per conto della poesia e dell’arte costruita su pezzi di carta che parlano  essi stessi di poesia.

 

Enea Biumi


Danila Di Croce “Dove ancora non siamo nati” (Puntoacapo Editrice, 2024)

Elevazione e, nello stesso tempo, rarefazione. Un divenire che s’infinita... sono parole di Ivan Fedeli, prefatore dell’opera “Dove ancora n...