Scrittura Nomade - Viaggio polidiomatico di Arte e Cultura - Variazioni sul tema scrittura
lunedì 27 maggio 2019
giovedì 16 maggio 2019
Emilio Rentocchini “44 Ottave” (Book Editore, 2019)
Un pigro pomeriggio della primavera 1988. La rilettura frenetica dell’Orlando Furioso conquista definitivamente Emilio Rentocchini all’uso dell’ottava. L’endecasillabo ariostesco cattura attenzione e passione verso una forma metrica che conferma poi l’uso del vernacolo sassolese quale rifugio atemporale e mitico. Una riprova è “44 Ottave”, proposto nella collana curata da Nina Nasilli. Testo originale, quindi, nella lingua di Sassuolo e corrispondente variante, come detto in passato da Giovanni Giudici, in una più libera forma d’italiano. L’esito è una rigorosa e preziosa tessitura stilistica di magistrale sapore, seducente e fluttuante in una originaria naturalezza orale che abita la struttura corposa di una fonetica echeggiante e ammaliante, espansa nella temporalità suggerente la significatività inalienabile del contrasto indotto dall’istante. Tra le due lingue, fecondazioni e sviluppi imprevisti generano conduzioni di monadi in partitura a segni sfociante nell’ottava doppia. Allitterazioni assorbono echi su approfondimenti dinamici e ribattuti rimandi attraverso suggestioni di viatico costituente implicazioni materiche e significanti sonorità. Si liberano così pensieri che ricalibrano i suggerimenti di una percezione scampata allo smarrimento, ritrovando i punti di contatto con l’essenzialità degli enti che non eludono quell’apparente “nulla inesprimibile” contaminato dal segreto di ungarettiana memoria. Gli abissi della solitudine sanno diventare cenacoli di preghiera e inducono alla percezione più acuta delle delicate premesse che accompagnano l’osservazione e l’ascolto, la minima convergenza della cerniera. I dissidi sembrano placati dalla paziente opera dell’artigiano trasformato in fine dicitore di una profondità essenziale e incisa nella composizione del sensibile. In una società volutamente privata di effettivi valori umanistici, Emilio Rentocchini recupera e ricrea un linguaggio poetico che pone i cardini di una autenticità quasi rivelata ed immediatamente solidificata nel dettato stilistico. E allora il tempo è fuori dal tempo e coniuga una scansione intrecciata alla ricerca; così “an a tor sò na léngua a la deriva” (“anni a raccattare una lingua alla deriva”), come fosse una forma esplicitata di emozione acustica, di veleggiata saggezza.
Andrea Rompianesi
martedì 14 maggio 2019
FABIO DAINOTTI (a cura di) IL PENSIERO POETANTE – IL MITO – GENESI EDITRICE, TORINO, 2017, € 14,00
Il pensiero poetante è un’antologia tematica di poesia e teoria il cui ideatore e direttore è Fabio Dainotti, il codirettore Emanuele Occhipinti e i curatori del settore letterario e filosofico rispettivamente Carlo Di Lieto e Enzo Raga. I temi degli anni passati furono “Gli angeli”, “Il viaggio”, “L’enigma”. Quello attuale è “Il mito”.
Si tratta di un exursus che, attraverso la poesia, il disegno, la saggistica, mette in evidenza il valore del mito come momento fondante della nostra cultura: trait d’union fra il passato e il presente che illumina e accompagna buona parte della letteratura occidentale.
L’esergo ci riconduce a “Il mito dell’eterno ritorno” di Mircea Eliade del 1949 che giustifica lo studio del mito considerato “una vera metafisica” perché, una volta svelati, i miti rivelano, nelle civiltà arcaiche, il desiderio di scoprire la propria identità e la propria ubicazione all’interno dell’universo, mentre nelle civiltà moderne ed occidentali offrono uno spaccato del rapporto uomo-storia. Su posizioni diverse si pone Edgar Morin che comunque ribadisce in un saggio intitolato “Autocritica” l’importanza del mito, intrinseco elemento della “struttura umana”. Si viene in questo caso a giustificare, prendendo a pretesto sponde diverse, la scelta del tema e l’ineludibilità del confronto con il mito.
L’introduzione segna quindi il percorso dell’antologia che ci conduce, rigorosamente in ordine alfabetico, agli autori, poeti, saggisti, disegnatori, presenti con le loro opere significativamente improntate al mito, visto tramite scritti poetici o saggi filosofico letterari. Si tratta di una sintesi che didascalicamente incuriosisce il lettore e lo induce a confrontarsi con i vari testi riscoprendo o la bellezza attrattiva del verso poetico o la riflessione critica letteraria e filosofica approfondita e sistemicamente strutturata.
Un’antologia da leggere con la lente euristica che vuole apprendere, avanzare, inoltrarsi nella
consapevolezza che la conoscenza acquisita non offre mai nulla di scontato.
ANTONIO MARCELLO VILLUCCI – PER PRODIGIO D’AMORE- GENESI EDITRICE, TORINO, 2017, € 8,50
La civiltà romana, ai suoi primordi, aveva espresso fra le
sue più alte forme di religione e di cultura la venerazione per i propri
famigliari: i cosiddetti “Penati”,
che, affiancati ai tradizionali “Lari”,
vegliavano sull’andamento domestico unendo in una sorta di “amorosi sensi” il passato, il presente
ed il futuro. Sulla stessa linea gli Incas adoravano “Pachamama”, la Grande Madre, che vigilava sul buon andamento del
desco permettendone lo sviluppo e la continuità attraverso i prodotti della
terra. Era la dea che nel ciclo delle stagioni acconsentiva e dirigeva la vita.
“Per Prodigio d’amore” richiama sotto
un certo aspetto, e comunque in una visione del tutto contemporanea, entrambe
le concezioni religiose appena sottolineate. Da una parte propone quella
particolare devozione per la famiglia sotto le ali protettive di Dio (“Tu sei il Signore/ che segue i miei passi
sulle strade”) e dall’altra presenta il ritmo del tempo imbrancato nel
lavoro febbrile ma propizio e vitale dei campi (“Nei solchi tracciati dalla marra/ spuntano i primi frutti della terra”).
Si può affermare che ogni pagina della silloge poetica di Antonio Marcello
Villucci ripercorre un rapporto intimo, intenso e religioso fra l’autore e la
propria famiglia, condotto nell’armonia generale del tempo e della natura. Il
richiamo al passato offre lo spunto per una riflessione sul presente nella
convinzione che sia quasi d’obbligo lasciare una traccia di sé, così come gli
avi avevano dimostrato e proposto. Non è però un’eredità materiale quella che
il poeta ha ricevuto e che a sua volta affiderà ai posteri, bensì spirituale e
letteraria “per nuovi orizzonti/ lungo la
sequenza degli anni”. E in un simile percorso “di libri nell’età/ che tende all’infinito” si distende e si amplia
lo sguardo di Antonio Marcello Villucci tra “una
capanna di paglia”, una “casa di
povera gente”, “un dagherrotipo ingiallito”, alcune “dimore signorili” esaltate dalla “policromia dei marmi”, nella stessa Amatrice ferita “dalle faglie della Terra”, mentre
ricalca le orme che il viaggio della sua vita gli ha concesso e che ora tende
ad esaurirsi (“Ora erompe la vecchiaia/
spenta e dolente/ nell’opaco cielo invernale”). E non sono solo i ricordi che
si affacciano serenamente con dolcezza e delicatezza amorevoli, ma anche le
cose, gli oggetti (del quotidiano e non), la natura stessa che si ripete a
distanza di anni (“Nelle sere fredde
d’inverno/ m’era compagno mio padre”; “mentre la mamma sullo sporto della
panca/ arredava di scarpe, corpetto e gonnella/ l’ultima nata in uscita per la
festa”; “Il nonno in riposo sulla panca/ sogna le fatiche che l’attendono
l’indomani”). Tutto ciò regola e regala i versi in un andante continuo,
armonioso e ben strutturato, offrendo al lettore il ristorno di una convivenza
a dir poco perfetta, sebbene spesso intrisa di dolore e nel dolore redenta,
perché a supporto rimane la fede, la consapevolezza di un arrivederci al
domani, nella dimenticanza della tristezza dell’oggi (“Incappai nel turbine del Nulla/ quasi a pelo d’acqua,/ quando un
angelo o un dio/ mi fecero d’àncora soccorso”; “Due lastre in marmo
sovrapposte/ avranno i nostri volti”). La natura, in questo quadro, fa da
sfondo e supporta, in una visione che alcuni potrebbero definire panica, il
poeta, invitandolo al raccoglimento e alla riflessione (“Sulle mie tracce s’adunano/ ninfe ed Oreadi in ascolto”; “Mi porto
dentro il profumo dei fiori”; “Con l’alba l’anima lascia i tremori notturni”).
E, attraverso la sublimazione della natura, soffuso nei versi si libra l’amore,
che propone d’altra parte - e giustamente - il titolo dell’opera. E’ l’amore
che l’autore devotamente rivolge al padre e alla madre in momenti che ne
esaltano l’autorità e l’influenza per l’impegno terreno e per la consacrazione
del “dopo-vita”; è l’amore per i
nonni che ne rammenta i sacrifici e la lealtà, nonché la pervicacia educativa (“Giuseppa aveva tirato su i figli/ timorati
di Dio ma anche cresciuti/ tra abbondanza e doveri/ mentre il suo sposo era su
nave oltreoceano”); è l’amore per la moglie (“Sfioro in sogno il tuo volto”; “Ascoltavo la tua voce di fanciulla/
resa varia da un refolo di vento/ che mi rendeva la gioia/ d’altri chiari
mattini”); è l’amore “Per la mia
ultima nata” o per il nipote Lorenzo: in una parola è il prodigio. D’amore, appunto.
LUCIA MONTAURO – L’ENIGMA DEI PENSIERI NASCOSTI – GENESI EDITRICE, TORINO, 2018, € 10,00
I termini “tempo” e “vita” sono forse i vocaboli che
maggiormente ricorrono nella silloge poetica di Lucia Montauro “L’enigma dei
pensieri nascosti”. E sembrano quasi essere un filo rosso sopra il quale la
poetessa approda in punta di piedi, senza rumore od urla inconsulte, e che
percorre con apparente leggerezza (leggerezza ritmico formale, non certo di
contenuto), sorvolando quell’immenso e periglioso abisso che sta tra la vita che
spazia nel tempo e la morte. Il titolo stesso dell’opera parrebbe indicare un
mistero o qualcosa di indefinito ed indecifrabile cui però è necessario
aggrapparsi per poter andare oltre: dove non si sa. Così l’enigma è tutto nei
pensieri che la poetessa incorpora e traduce osservando il mondo circostante.
La sua decifrazione sarà la presa d’atto dell’imponderabilità dell’esistenza la
cui complessa e difficile imperscrutabilità rimanda ai classici della
letteratura. In tal guisa i pensieri nascosti sembrano disvelarsi al lettore
con un pudore e una delicatezza del tutto femminile, sebbene ad una più
significativa lettura ciò si traduce in una voce formidabilmente forte e
stentorea. I suoi versi richiamano ciò che noi siamo o che vorremmo essere,
subiscono il fascino di una meditata epifania volta a scandagliare animi e
volti, natura e metanatura. Così facendo la poetessa ci indirizza verso
l’essenza stessa della sua scrittura che è raffinatezza del dire e del sentire,
come giustamente annota Maria Luisa Spaziani.
Si apprende, purtroppo, dalla nota introduttiva di Giorgio
Seropian che questa silloge è l’ultima fatica di Lucia Montauro, pubblicata
postuma, ma da lei stessa preparata e raffinata poco prima del “compimento del
suo destino terreno”. Grazie a questa precisazione iniziale alcune liriche assumono
un significato epigrammaticamente tragico, sebbene la levità della scrittura
trascenda e, per dir così, oltrepassi l’immanente drammaticità. In quei versi riecheggia,
infatti, il respiro di un’anima che guarda oltre le cose perché ha in sé il
senso dell’infinito: “un segnale profetico/ urlato dalla bocca di Eolo/ dio
vanitoso del vento/ pianto di morte/ che la notte sovrasta e respinge.” Ecco
allora che la realtà si frantuma in rivoli di memoria, in ricerca paziente di
rimandi, di metafore nascoste, come i pensieri, che riemergono dal silenzio
dove “l’attesa fa rifiorire più volte/ la vita”, dove “il giorno e la notte/
tingono il nostro cammino/ con chiaroscuri tappeti/ d’erba selvatica e nebbia”.
Sta in questa sfida tra il possibile e il fattibile, tra la carnalità del
vissuto e la spiritualità della preghiera che Lucia Montauro offre momenti di
intensa liricità scoprendo e rincorrendo
“fantasmi felici”, “scenari aperti alla vita/ con distillati di succhi/
appaganti per l’anima”, perché il procedere si fa più responsabile, fra
paesaggi idilliaci e passaggi “senza risposte ideali”, in cui i responsi
appaiono inafferrabili e sembrano inseguire interrogativi ancestrali perché
“viviamo paure incontrollate/ come conchiglie svuotate/ per mancanza di mare/ o
alghe sinuose/ che accarezzano il corpo/ per non farci perdere/ nell’infinita
nullità”.
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