La valenza culturale è saggiamente determinata nel momento in cui sa dirsi prossima. Rinviene eccelsa e sedimentata nel vagito della sensibilità più acuta e divora con occhi dell’intelligenza. Le epigrafi di apertura avranno allora cenni biblici e classici. Qualcosa di vicino, nell’espressione del Deuteronomio, così come ciò che si separa e nuovamente si aggrega, secondo la voce di Eraclito di Efeso. Si avvia con un tono davvero alto la poesia del libro “Prossimità” di Nina Nasilli. E’ una corrente poematica in verticale che evoca assunzioni e svolte a contatto con un’ontologia imprevista...”si principia sempre da un caso/ come le cose che appartennero, il pensiero/ che le tocca”. La percezione deterge una pluralità di stimoli naturali e riferimenti intertestuali, quasi che il vigore della nitidezza filtrata possa annunciare imminenze e svelamenti, fremiti e passaggi, ferite e rifioriture, per citare un titolo che fu di Giuseppe Conte. Si sviluppa un flusso che accompagna nelle veglie di deserto, nelle radici profonde, tra memorie che irrompono e tenerezze che disarmano. L’umano contende al ritmo delle sillabe la potenzialità della scolta e l’attardarsi di un ritorno. Molti i riferimenti letterari e pittorici, da Arthur Rimbaud e Amelia Rosselli a Giacomo Balla e Umberto Boccioni, attraverso un intrecciarsi di stimoli e rimandi veicolati dall’intervento di strofe, successioni, timbri anaforici. La sezione “Mente cordis sui” si apre con una citazione da Pessoa e deterge con particolare grazia la prossimità di un sentimento amoroso, per merito della domanda di “un poco di immortalità/ soltanto un petalo/ dorato/ dal sole di un tramonto/rosa”, poiché si evidenzia che “né sempre né mai il presente è adesso”, nel porsi sospensioni che coinvolgono Bellezza e Spirito, accolgono le compostezze della conciliazione, filtrano e interpretano le ferite primaverili, coinvolgono accenni ad Eliot e Whitman, e su tutto cala poi una passionale intenzione di purificare la colpa da noi partorita, comprendere come potrebbe essere chiamare non più profano ciò che è stato reso sacro, separato dal limite. Ma allora davvero, a differenza di quanto viene sostenuto dai vari percorsi intrisi di materialismo,nessun evento solo umano può dirsi assoluto; così come non c’è esito di salvezza nel solo alveo immanente. Anche ogni traccia di prossimità implica comunque la conoscenza dell’ente che s’incontra, e ciò attualizza la stringente necessità di una rinascita metafisica già attuatasi, tra l’altro, nei primi anni Duemila e più specificamente e sorprendentemente in ambito analitico (ma non solo, se pensiamo ad un’opera come “Il frammento e l’Intero” di Carmelo Vigna). Gli enti prossimi rimandano al senso più profondo di un essere che sa dirsi Essere e può nominare, chiamare a sé le cose, rivelarne la partecipazione. Nina Nasilli si muove con acutezza e perizia “tra una certezza/ di finalmente esistere/ e un’altra”, dove sia infine un’acqua di valenza intima e nello stesso tempo emblematica, a lavare dai lutti; a rigenerare le vicinanze patite o desiderate, nella sensazione tutta interiore ma resa visibile dalla scrittura, di un’anima capace di vedere la notte con occhi non corporali, come rappresentò nel brano di un suo testo John Williams. La sezione “Appunti di viaggio in Amore” coinvolge la potente forza evocativa de “Il libro dell’inquietudine”. Ancora Pessoa, dunque, per inseguire le tracce di prossimità nella coscienza (o incoscienza), scrive Nasilli nelle note, di chi ci ha preceduto. Dimora delle attese possibili, riferirsi all’altro, “prestando l’attenzione dovuta, però/ a questo giocato tra-passare/ che non sia come l’incertezza scoperta/ del bianco d’azzardo/ su una tela grezza d’indugi”; l’autrice si spinge oltre, verso un’acquisizione in tonalità allitterante: “non avverte vertigine/ chi non sfida il vertice:/ fondato così un nuovo Regesto”, un raccogliere quindi, citando l’opera antologica del poeta Massimo Scrignòli. Il percorso strofico in asimmetriche tramature inerpica il dissidio a contrastare passività improprie, volendo determinare invece un’ermeneutica panica, simbolica, evocante il destino maieutico della poesia più duttile e più fertile, quando diviene autentico strumento di conoscenza, nostro scopo antropologico, come affermava Brodskij. La sezione “Domenicali bianchi” è pervasa da ulteriori riferimenti biblici, in particolare dal Libro dei Salmi, in richiesta d’attesa e di sacro avviamento verso auspicio di domanda e confessione...”e dopo i corvi i crocali/ le cornacchie cumane/ i rovi i campi/ dopo i bivacchi i falchi/ le cattedrali”; poi la pagina si fa doppia, intesse un controcanto riflesso che indaga la separatezza rilasciata dalla dialogante ripercussione estensiva apparente quasi come finalità corale, attraverso il pudore, che non è timore, di concedere spazio ad una inquietudine che pungola caparbia e si rinnova, si rispecchia. Il desiderio è oltre, è grato, chiede “che tutto duri/ che tutto sia/ stare a guardarsi/ e-non mancarsi”. Assistiamo, dunque, ad un vero teatro di personaggi che veicolano stimoli culturali innestati nella passione dei sentimenti, nella prerogativa poetica di richiamare alla testimonianza l’accortezza più vigile assorbita dalla pagina nella nudità intima del testo che rinnova riferimenti al “cuore travestito” di Paul Celan e all’amore impossibile espresso da Marina Cvetaeva. Affiora forse, tra le righe, una liminare disillusione? Una traccia di tremore al rischio d’incomprensione? Se l’assenza è, per Nina Nasilli, di noi la più certa prossimità, un passo inatteso potrà forse condurci verso la visibilità di una poesia filologicamente creativa perché liberata dai lacci del solo dicibile, attraverso un ulteriore, sofferto, estremo confronto col Tempo: “ma se tu sei notte/ io, l’ultimo baluginio del giorno/ prima che sia sera”.
Andrea Rompianesi