venerdì 8 dicembre 2023

Sfulcìtt: Inganni, Lupieditore, 2022

 


Immergetevi nelle profonde riflessioni di “Sfulcìtt: Inganni”, un viaggio tra dubbi, sogni e asserzioni, tessuto nella trama della vita quotidiana e dei ricordi. Lasciatevi avvolgere dalla costante presenza della Natura, che accompagna ogni pagina con la sua bellezza e saggezza intramontabili.

Jacopo Lupi

giovedì 30 novembre 2023

Fabio Dainotti, L’albergo dei morti, Manni, San Cesario di Lecce, 2023, € 18,00


 “L’albergo dei morti” è una silloge-diario-poetico che spazia tra gli affetti del poeta e ne traduce le emozioni, i dubbi, le incertezze, i rimorsi. Il percorso è quello del quotidiano vissuto in uno spirito che raccoglie le più svariate sfumature dell’essere: uomo, amico, amante. Il tutto dosato e bilanciato attraverso una lente che ne esalta la specificità e inquadra le liriche in un attento gioco di contrappunti sonori volti ad accendere l’attenzione del lettore e a distribuire musicalità e potenza ai versi che si dispiegano come appartenessero ad un album fotografico di ricordi.   “Amaramente soffia e spinge il vento /  le onde sul litorale abbandonato; /  pare il suono di un corno desolato. /  Quanto tempo è passato, un anno, cento.”  Testimoniano l’aspetto diaristico le dediche che l’Autore pone a numerose poesie qui inserite. Dediche che danno il “la” e vivacizzano volti, situazioni, luoghi. Ecco allora che tutto si anima in una specie di esame di coscienza seralsolitario per un confronto con la propria esistenza: la memoria di ciò che è stato fatto e di ciò che si sarebbe potuto fare. Ma non c’è rimpianto. Il poeta non vuole consolazione né commiserazione. A volte rimane un sorriso, a volte subentra il dolore, a volte appaiono desideri inesprimibili o inespressi. Il tutto, però, senza inutili e fastidiose lamentazioni. Lo spazio della vita, sembra voler sottolineare l’autore, è talmente breve che non ci si può soffermare sui reclami. “Mi sento sollevato: / non voglio essere interrato /  da solo, senza tutti i miei parenti; /  da solo, come sono sempre stato.”  Si entra allora in questo grande “albergo dei morti” e si fotografa il vissuto, lo si studia nei suoi meandri più profondi e occulti, ci si interroga su occasioni perse o sprecate, si firma il registro posto sul banco della reception che è poi, come dicevo all’inizio, un diario poetico. “Ci sono ancora rose nei rosai, /  le rose che profumano (e non colsi), /  nel giardino incantato della villa (…) /  E tu, fuggita via, forse per sempre. /   Ingiustamente. /  Forse./  Amaramente.”  Da sottolineare il fatto che pur nella componente diaristica le poesie non sono presentate in forma cronologica, se cronologia esiste questa ha la caratteristica dell’interiorità o del fluire della coscienza. Il poeta, dapprima, ci introduce nel suo mondo con una lirica dedicata al fratello (Al fratellino già vecchio) per poi passare alle sue prime amicizie in cui fa capolino la sua sensibilità, il suo disagio, la sua solitudine che sconfina con un quasi isolamento sociale.   “nei viaggi ho perduto il mio cuore /       dover andar dove /  non ti aspetta nessuno / quanti fiori ho calpestato / quanti amori ho rifiutato / Torino Genova Roma /  per l’altro mondo si cambia.” Il sentimento comunque che prevale è l’amore in tutti i suoi aspetti, familiari, autorevoli, evocativi, in tutti i suoi momenti di gioia, di speranza, di attesa, in tutti i suoi anfratti di malinconia, ironia, compiacimento. E come nel più classico schema tradizionale ecco che l’amore viene accostato alla morte, rievocata tra l’altro nel titolo stesso della silloge. Il tutto ancora una volta stemperato in una serie di composizioni che tendono ad abolire il tragico sostituendolo con l’oggettiva realtà del normale. “Se sfiori i tasti bianchi e neri, come /  i tuoi pensieri, rondini volate / oltre mare per sempre, / forse è per caso, forse in sogno, infatti /  si muove la tua chioma al ralenti.” E ancora:  Scene di vita, stanza interno tre, / del popolare vecchio casamento, /  dove la vita scorre sempre uguale /  e moriamo ogni giorno, ogni momento: /   ma il faut tenter de vivre, sì, tentare /  di vivere sapendo di vivere.”  Tuttavia, la poesia di Fabio Dainotti trascende spesso il suo io e lo amplifica fino a consegnarlo al lettore, il quale, consapevolmente o no, lo traduce nella sua vita, nelle sue abitudini, nei suoi comportamenti, passati ed attuali, rivestendolo, se così si può dire, con il proprio quotidiano. Non si tratta infatti solo della “sua” Milano, della “sua” Vigevano, della “sua” Agropoli. Città, paesaggi, viaggi, così come ci vengono presentati dal poeta, appartengono a tutti, sono di tutti. Come di tutti sono i sogni, le delusioni, gli amori. L’io dell’autore diventa l’io del lettore che si vede coinvolto e trascinato in esperienze simili alle sue.   "Uomini di dolore, disperati, /          affondando tra le ondate/  con gli occhi dilatati dall’orrore /  alzavano al cielo /  le braccia che reggevano bambini /  per dargli ancora un attimo di vita.”   In definitiva ne sorte un viaggio, a tutto tondo, entro l’anima del poeta, che ripercorre luoghi, persone, accadimenti che lo hanno formato, ai quali Dainotti offre pagine di autentica consapevolezza e amorevole acquiescenza. È un ricercare il senso della vita, spesso oscurato da inganni e mistificazioni, con le sue piacevolezze, le sue virtù, le sue cadute. Attraverso una specie di flashback interiore l’autore si guarda allo specchio e disvela al lettore l’importanza di essere se stessi in ogni momento ed in ogni luogo, sia esso Agropoli o Milano, perché non è tanto l’apparire agli occhi dell’altro che plasma l’uomo ma il suo atteggiamento di fronte alla vita: una corporeità richiamata in continuazione dalla propria caducità e dalla presenza della morte.

 Enea Biumi                                                                             

lunedì 20 novembre 2023

Antologia, Il pensiero poetante, 42 poeti, a cura di Fabio Dainotti, Genesi 2023 pagg. 168

 



DOVE VA LA POESIA?
di Giorgio Linguaglossa

Il problema metodologico insito nella stesura di una antologia della poesia contemporanea è molto serio, non si può fare a meno di una idea-guida o di una tematizzazione, generazionale o di poetica o di un gruppo specifico, o di una tematizzazione stilistica. Bene ha fatto il curatore, Fabio Dainotti, ad includere nella sua antologia poeti  di tutte le generazioni a prescindere dalla datazione delle opere di esordio e a prescindere dai recinti generazionali. Possiamo dire che l’antologia abbraccia un arco temporale che va dalla fine degli anni settanta ad oggi.  L’età della rivoluzione operata dai Novissimi il 1961 e della susseguente neoavanguardia fornisce la linea di demarcazione ante-quem che si dà per scontata, dopo la quale la poesia italiana subisce il fenomeno della dilatazione a dismisura dei numero degli addetti ai lavori e delle opere di poesia. Dagli anni settanta si verifica in Italia e in Europa il fenomeno della caduta del tasso tendenziale di problematicità e dell’inflazione delle proposte poetiche che tendono sempre più a collimare con posizioni di poetica personalistiche, con posiziocentrismi e rivalità  tra i piccoli e piccolissimi gruppi di poesia. Accade così che le personalità più influenti, traggono vantaggio da questa gran confusione per consolidare la propria minuscola egemonia. Affiora nella poesia degli ultimi cinquanta anni una de-ideologizzazione delle proposte di poesia derubricate alle esigenze di auto promozione di gruppi o di singole autorialità; la storicizzazione delle proposte di poesia viene così a coincidere con l’auto storicizzazione di singoli autori.

Il criterio guida della antologia sembra essere la individuazione di una frattura radicale avvenuta nella lirica italiana verificatasi intorno agli anni ottanta e novanta del novecento. Verissimo e condivisibile. Una «frattura» dovuta a cambiamenti epocali e alle ripercussioni  nella struttura del testo poetico e delle sue stilizzazioni, con conseguente esaurimento del genere lirico e della sovrapposizione e ibridazione tra la lingua letteraria e la lingua di relazione, fenomeno che si è riflesso nella indistinzione tra la prosa e la poesia. Tutti gli autori sembrano scrivere in un linguaggio etero generico. Tutto ciò è verissimo ma ancora troppo generosamente generico. Vengono sì messi nel salvagente dell’oblio gli autori della generazione post-ermetica (Luzi, Caproni, Zanzotto, Giudici, Sereni) e viene fornita una ampia ricognizione tra i poeti non inclusi nelle alti attici della poesia ufficiale, tra i quali è incluso anche chi scrive, Edith Dzieduszycka, Luigi Fontanella, Paolo Ruffilli, Eugenio Lucrezi, Vincenzo Guarracino e altri e sarebbe improprio nominarli tutti. Possiamo però apprezzare il lavoro svolto dal curatore il quale si è trovato a dover rendere conto dell’esplosione di un genere indifferenziato e inflazionato come la poesia «post-lirica» degli ultimi cinque decenni con conseguente difficoltà a tracciare un quadro attendibile della situazione storica. Fabio Dainotti non mette le mani avanti con l’argomento posticcio secondo cui tutta la poesia contemporanea è «postuma», come ha scritto in tempi non recenti Giulio Ferroni, ma tenta di tracciare una cartografia, per quanto imperfetta, della situazione storica attuale, che è sempre preferibile piuttosto che lasciare il tentativo inevaso. Merito non secondario del curatore è aver scelto di non includere gli autori «ufficiali», vuoi per disaffezione, vuoi per discredito verso la poesia maggioritaria, e di essersi sporcato le mani, per così dire, pescando nel mare magnum dei poeti che hanno goduto in questi anni di minore visibilità.

A quasi cinquanta anni dalla apparizione della antologia Il pubblico della poesia del 1975 a cura di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, risulta ancora un mistero che cosa sia avvenuto nella poesia italiana degli ultimi cinque lustri; Dainotti si limita a prendere atto che le categorie del post-moderno, della «postumità» della poesia, della poesia «post-montaliana» e della poesia di matrice neosperimentale, sono questioni concluse e sembrano oggi argomenti su cui si potrebbe anche trovare un accordo, ma è che al quadro manca sempre qualcosa di essenziale, mancano i perimetri, le delimitazioni, le ragioni di fondo degli accadimenti; l’unico concetto chiaro e distinto è l’aver individuato il discrimine tra il genere lirico ormai esaurito e il sorgere di una poesia post-lirica. L’ipotesi che guida lo studioso è valida, ma ancora, purtroppo, ondivaga, non perseguita con la determinazione che sarebbe stata necessaria, però, a scriminante delle responsabilità del curatore dobbiamo confessare che ormai è già un miracolo aver delimitato la mappa dei poeti italiani a solo 42 nomi, per completare il quadro sarebbe occorso una gigantesca campionatura della poesia contemporanea e uno studio molto più articolato sugli attori della militanza poetica che nel lavoro di Dainotti non c’è e non ci poteva neanche essere a causa dell’enorme congerie di autori e di testi poetici che galleggiano nel mare esotico del villaggio poetico italiano. Ma Dainotti ci ha provato, a 360 gradi, come dice il nostro Presidente del Consiglio, e a lui va dato atto dell’impegno e delle forze profuse.

Il concetto di poesia che è stata scritta nel novecento come momento lineare ha promosso una forma-poesia nella quale lo spazio e il tempo erano il contenitore dell’io e delle sue vicende private. Oggi è lecito sollevare dubbi e eccezioni a questo concetto e a questa pratica della poiesis. La poesia italiana ha seguito il modello unilineare e cronologico della vita quotidiana, ed è finita dritta nella falsariga del «riconoscibile», nella «rappresentazione» mimetica. Il romanzo ha fruito di una uscita di sicurezza data dai suoi svariati generi e sotto generi: il giallo, il noir, il fantastico, il fantasy, il semi giallo, il quasi fantasy, il gotico, il gotico-fantasy, il giallo-fantasy, il fantasy e basta etc.; la poesia non ha avuto, per ragioni storiche, una altrettanta versatilità di forme e di generi, quindi era più vulnerabile, più esposta, e ne ha pagato le conseguenze.

La poesia del novecento si è trovata di fronte il problema di una «forma-poesia» «riconoscibile» con un linguaggio sempre meno «riconoscibile», con l’«io» posto in un luogo, immobile, e l’«oggetto» posto in un altro luogo, immobile anch’esso; di conseguenza, il discorso lirico si è ridotto ad uno schema, un confronto tra il qui e il là, tra l’io e il suo oggetto, tra l’io e il suo doppio, e il discorso lirico ha assunto una struttura cronologica e lineare. Senza considerare una possibilità che se l’oggetto si sposta, l’io vedrà un altro oggetto che non sarà più l’oggetto dell’attimo precedente; di più, se anche l’io si sposta di un centimetro, vedrà un oggetto nuovo. E così, il discorso lirico o post-lirico si è sviluppato tra queste due postazioni immobili. Un’altra via sarebbe stata in potenza percorribile, con le due posizioni che cambiano il loro luogo nello spazio e nel tempo, come avevano ben intuito Mandel’stam negli anni Dieci e Eliot con The Waste Land del 1922, ma dopo le avanguardie del primo Novecento la forma-poesia è ritornata all’ordine e si è assestata sul modello cronologico e lineare, trascurando il fatto che già Mallarmé aveva distrutto quel modello lineare dimostrando che era una convenzione e null’altro e, come tutte le convenzioni, sarebbe stato preferibile derubricarlo per sondare le possibilità di un’altra e diversa forma-poesia.

La poesia del novecento ha ripiegato su una forma-poesia che prevedeva la stazione immobile dell’io, con l’io al centro del mondo attorno al quale ruota la fenomenologia dell’intrapsichico. È stato il modello vincente che ha imposto i suoi binari: l’io di qua e gli oggetti di là, in un costante star-di-fronte. Questo tipo di impostazione ha condotto la poesia italiana inevitabilmente al pendio elegiaco e alla narrativizzazione privatistica, alla esondazione privatistica del privato. Il rapporto tra l’io ed il suo oggetto si è rivelato un dialogo posizionale, posizionato, convenzionato, da risultato sicuro.

Giorgio Linguaglossa

venerdì 17 novembre 2023

Silvia Comoglio “Il tempo ammutinato” (Book Editore, 2023)


 C’è tempo che confonde e che consola, detiene e smarrisce, dove gli accostamenti inesausti trovano infine una proporzione, una misura che determina quel confronto dei tratti inesauribile e nomade, anche riottoso e labile. Tutto questo in partiture, in quelle comparse duttili, nella proposta di definizione: complesso di molti righi, collocati l’uno sotto l’altro e riuniti tutti da una graffa sui quali si scrivono le parti, per le singole voci o strumenti, da eseguirsi simultaneamente. Così l’accenno all’opera “Il tempo ammutinato” di Silvia Comoglio, una delle voci poetiche più interessanti della sua generazione. Qui il passo musicale, fonetico, intende distribuirsi nello spazio della pagina, in un’accezione anche visiva e grafica, per esprimere esistente pensiero e parola in un movimento continuo che si fonda sulla natura profonda della parola stessa ben sapendo che, come afferma Flavio Ermini, l’esperienza poetica del pensiero coincide con il moto nascente della lingua, e per Comoglio la lingua stessa è agile e imprevista, lieve e profonda, strumento di navigazione lessicale e metronomo per conoscenze esperite. Il rigore dell’attenzione alle pause e agli spazi è nettamente rivolto alla percezione sonora di una complessità che muta in attimi e in tempi. Si potrebbe essere tentati, ad un primo impatto di lettura, di collegarsi inevitabilmente alle strutture inerenti un certo simbolismo, dove l’ascolto dei suoni in quanto tale si conferma  primario. Qui, però, a giudizio di chi scrive, non viene mai annullato l’equilibrio decisivo significante/significato ma, piuttosto, reinterpretato alla luce di suggestioni dense di una prospettiva ulteriore; tale da rivelarsi quasi catartica e coinvolgere le seduzioni paniche rielaborate negli accostamenti e nelle percezioni sensitive trasfigurate in canto visibile nella spazialità della pagina. La capacità di sentire un’immagine, quasi una vissuta sinestesia accorpata alla ricercatezza del termine proprio, verso una poesia di estrema raffinatezza formale non vincolata al limite del primo senso. “dunque, fu detto, la portata di ogni nuovo tempo/ è fiorire in rottura di parola nel Sempre che si accosta/ ad ogni nostra ombra” e “è allarme, allora, la voce/ che prego di guardare/ nel dono del suo peso?”... è poesia che davvero fluisce in iterazioni e rimandi, sviluppa negli spazi e nelle differenziazioni grafiche la definizione dei ritmi indissolubili che non possono essere altri né separati. Partiture da leggere ad alta voce, quelle di Silvia Comoglio, in una pianificazione di accenti tonali aderenti ad un dettato stilistico di rigorosa caratura. E’ canto, quindi, preghiera, invocazione, trama d’acque e terra, notte insonne e curva infinita, pelle e brocca, ombra contro fiore. E’ tracciato il sentiero, la sosta, nell’incursione del corsivo, dell’istante sospensivo e allusivo che l’autrice bilancia sulla pagina con grande perizia in una sorta di orchestrazione sillabica di senso e suono. “...allora, fu detto, è acuta forma di radice/ lo sguardo appena srotolato in sillabe di nomi/ incessanti e già caduti”; il ritmo fascinoso dei versi incalza e seduce, in riaffioranti rapsodie a flusso regolato, “amo il solo amare che appare in orizzonte/ del tutto senza ciglia: terra comparsa alla mia porta,/ come, come mondo, ai margini del mondo”. L’autrice compone fragranze di suggestioni, strepitii vegetali, veglie d’aurora e di crepuscolo, sillabe ed echi, nostalgie di onde, sensibilità spirituali. Ma più si tinge l’affresco di cromatismi alla Magritte, le sue luci in contrasto qui rese nella solidità densa e nello stesso tempo fluida dei vocaboli posti a soccorrersi e a sorreggersi nella danza percettiva delle compiute attinenze. Voce, quella di Silvia Comoglio, capace davvero di perfezionare una partitura nel mirabile senso dell’esecuzione stilistica più alta, virtuosa, “che ebbe in una stella  il suo tutto incandescente,/ la sua netta  terra  di preghiera”, ricordando che il tempo ammutinato è tempo dinamico che “muove” sommossa di un sentire apicale, dove s’identificano le “...incognite tue rose, plasmate-“.

                                                                           Andrea Rompianesi

martedì 7 novembre 2023

Oronzo Liuzzi “Un giorno adesso” (Transeuropa Edizioni, 2023)

 


Il verso lungo quasi narrante intercede per lo sviluppo di un flusso evidenziato nel sostegno alla virulenza dell’insidia che comporta il tempo vissuto e contemporaneo, assestato nella tribolazione dell’evento. Esonda l’aperto pensiero nel ricorrente auspicio che determina il saldo e robusto poetare di Oronzo Liuzzi nel titolo “Un giorno adesso”. Compiuto passo/destino verso testimonianza di forza civile, quando l’accorpato disegno introduce nella tessitura poematica la tecnica della parola chiave e dell’iterazione. Insiste il persistente approccio alla domanda inesausta, all’osservazione caparbia: “l’ansia la tua il pentimento scava dentro la tenera carne/ con la punta dell’ago la conversazione in mutande diverte...”, come evocando l’assenso imprevisto a testimonianza di sofferta tendenza dove però all’angolo incombe l’esplicito punto di fuga. Il termine a ripresa scandisce i tempi e i ritmi coagulando il deciso intervento condensato nell’innesto praticabile, dicibile, attestato dalla considerazione di un odierno malessere ancorato alle svolte e ai passaggi. Liuzzi determina la possibilità di un ascolto attento, esigente ma libero nella capacità di filtrare il recupero del vocabolo atteso, giusto; la parola portata al dicibile del moto quasi ondoso dei versi lunghi. Così “il tempo ecco si ripete circolare dolce tremendo apre/ le braccia ai passi dell’uomo poi torna nel buio genera/ pianti stridori riempie il mondo di fiamme gioca con/ la vita devo andare avanti sconfino” e l’enjambement attenua ma allo stesso tempo riecheggia la proposta discorsiva che affronta percezione del dolore e male di vivere. La risposta è medicamento ritmico estendibile nello scorrere dei passaggi nei motivi panici, aurorali, verso un “eccomi” che testimonia la presenza volitiva di una poesia di forte maturazione semantica; la riflessione è canora, l’avamposto avviluppa, il quesito incombe. Impossibile ignorare i momenti della collera, l’afflizione emergente, l’artificio rabbioso quando a divergere sono le prospettive angolari, i trascorsi tumulti esigenti che l’autore richiama, ponendoli a confronto con il retaggio di una storia personale e collettiva che si fa ermeneutica filtrante. Accostamenti imprevisti, a volte, impongono il moderno sentire l’evolversi dei contrasti, anche materici, policromi, quando l’oltre sorpassa “una festa di colori il tempo”. Nell’opera di Liuzzi è sempre identificabile la capacità di avvicinare in modo equilibrato ed efficace la tonalità riflessiva con la contaminazione del quotidiano, rielaborando poi la flessione pensante del recupero. E’ affrontare le sfide reiterate della necessità, cogliendo quegli squarci riconoscibili e utilizzabili nella frequentazione dei detriti, consapevoli delle perdite annunciate, non scelte, ammiccanti l’imprevisto ormeggio negli spazi ancora percepibili che la poesia indica, perché “la vita si ricorda per raccontarla/ probabilmente riviverla”, e forse al suono di canzoni che riecheggiano il pensiero emotivamente condotto. E’ ancora il tratto dell’oggi e del sempre che il poeta concede, salvandolo dal precipitare convulso dei drammi, delle schegge frantumate e inerenti al senso diffuso di ferita. L’ascolto che il verso di Liuzzi intende veicolare sussiste di tratti espressivi in moto, come passaggi ancorati ad un dicibile esteso verso il significato complessivo di una ricerca che si pone nell’ottica del trovare sempre comunque qualcosa, se non altro l’attesa citando Beckett, per poi dirla al vento di una sera. Il poeta confida: “schizzo dall’agonia una forma di evasione a luce spenta” e “catturo il tormento del giorno il fallimento i crolli gl’intrecci”, dove sempre eretto il punto di domanda incalza quella poesia che ne è generatrice stessa. Certo la distrazione ci porta allo svelamento e molto affiora incontrastato quando “il passato un maremoto ribolle liquido spietato illude”, attuando l’accostamento che riproduce l’intimo dolersi. La precisa struttura poetica di Oronzo Liuzzi in questo libro concentra nella pregevole composizione una costruzione linguistica che accosta l’identità dei termini prima dello stesso intento, misurando l’effetto sulla corposa peculiarità dei vocaboli che disegnano tracciati svelanti sulla spazialità della pagina dove si moltiplicano “piccoli gesti quotidiani feste impulsi ritratti scene appassionate” e l’autore esplicita : “non ci penso devo per questo penso posso allora volo”.

                                                                                            Andrea Rompianesi


sabato 4 novembre 2023

Autori vari, Never Surrender, Mai arrendersi!, Incontra Edizioni, Milano, 2023, €. 15,00


 

Dieci autrici e dieci autori che ci introducono in un universo al femminile: donne protagoniste ci raccontano storie di coraggio e di inquietudini, di amore e di timori, di speranze e di delusioni, di successi e di sconfitte... Sentimenti che appartengono anche agli uomini, ma in questi testi viene definita, con grande sensibilità psicologica, la visione del mondo che le donne percepiscono in modo così speciale e personale... Nota dominante: un dualismo tra le difficoltà da superare e l'apparente debolezza delle risorse da mettere in campo... Primo elemento di sorpresa: la forza misteriosa che emerge dal volere perseguire un certo obiettivo, a tutti i costi... Forza di volontà in creature che gli uomini definiscono fragili... Perseveranza: le donne non si arrendono di fronte agli ostacoli....
Affascinante caleidoscopio policromo che ci mostra in sequenza una serie di portrait de femmes emozionanti, che non dimenticheremo facilmente...

(dalla prefazione di Carlo Alfieri)

L’EVENTO di presentazione ufficiale del libro si terrà il  1 dicembre alle 20.45 a Gallarate, nella SALA IMPERO, in via Ugo Foscolo, organizzato dalla Piattaforma Culturale LA SCINTILLA.

Fabio Dainotti (a cura), Il pensiero poetante, L'immaginario, Genesi Editrice, Torino, 2023, €. 16,50

 


“Ma sedendo e mirando, interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo, ove per poco / il cor non si spaura”. Così leggiamo nel celeberrimo L’infinito di Leopardi. La mente si spinge oltre la siepe, che non è ostacolo invalicabile, ma solo confine naturale, e naturalmente sormontabile, tra il qui e ora della tangibile realtà e l’impalpabile altro che il pensiero immagina pur non vedendolo. Immaginario che la nostra immaginazione (si scusi l’inevitabile gioco di parole) partorisce: un immaginario che è in un altrove ma nello stesso tempo nel nostro pensiero, perché gli “interminati spazi” si allargano e allocano all’interno della mente. Se, per dirla con il Sartre de L’immaginaire, la percezione implica l’osservazione, l’immaginazione è invece totale. Così, nell’immensità si annega il pensiero per Leopardi, che si fa eterno e infinito. L’immaginazione – l’immaginario – è un trasumanare umano, troppo umano. E in questo immaginare, secondo Sartre – per tornare a lui – siamo “ontologicamente liberi”. Per quanto questa libertà possa fare leopardianamente paura. 

La poesia di Isabella Michela Affinito dà voce poetica alla celebre opera delle Grazie di Antonio Canova, perché «anche la pietra di cui sono fatte si muove perché s’abbracciano, come cinto è il triade pensiero che giungerà agli artisti». Lo sguardo magico della sua visionarietà creativa incanta e inchioda l’immaginario al fluido vitale dell’Altro, in una morsa stringente di bellezza estatica. La poesia sedimenta, per accumulo, questo scenario dell’alterità e il verso diventa il collante privilegiato di questa interazione straordinaria. La ricerca dell’Altro e l’impulso alla disappartenenza calamita lo sguardo attento del poeta in questi versi di straordinaria bellezza; fievole e leggero è il tono della poesia di Sebastiano Aglieco, che, nel suo immaginario, indulge a un ricordo dolce, ma inquietante. Le tracce mnestiche delineano un focus irradiante di una visionarietà creativa, coinvolgente ed empatica. L’immagine di questa nostalgica memoria è ferma nella mente del poeta con i suoi risvolti perturbanti, creando “uno spazio dilatato fino ai confini del cuore”. La poesia di Sauro Albisani è un acuto scandaglio del suo io “disajutato”; leggero come una piuma è il suo verso nella trasfusione di alcune immagini, che colgono la genuinità sorgiva del suo fantasma interiore, sospeso tra l’essere e la necessità, in un rapporto di reciprocità interattiva di una sabiana “parola onesta”. Delicata è l’espansione dell’io poetico di Sandro Angelucci, in un dettato lirico proteso verso l’altrove. Mediato da un’immagine pura, delimita limpidamente il suo afflato, proiettandolo in una “dimensione indefinibile”. La risonanza dell’illimite è in questi versi, disincantati e calamitanti, che trascinano in un’aura di un’agnizione celestiale. Immagini icastiche di un sobrio impulso poetico costellano il dettato lirico di Claudia Azzola, assediato da un “arcano ricordo”. La poesia diventa per lei un’oasi pacificatrice e liberatoria dal “pensiero dominante” e da un mondo “algido, alieno dai sogni” di “una strana condizione del vivere”. Il dettato poetico di Fabia Baldi è condensato nel fluido vitale del sentimento amoroso, costruito su un climax di notevole spessore elegiaco. La sua tenerezza è una proiezione di straordinaria radialità dell’immaginario, restituita alla ricerca dell’Altro e al suo sguardo magico. “L’inquieto sentire” viene placato nel rifugio dell’“amato Bene” nella “dolcezza del crepuscolo” e nella “seduzione dell’alba”. Il rapporto inesausto con il Tu procede per improvvise folgorazioni e per scatti improvvisi di straripante bellezza, il cui centro d’irradiazione parte dagli occhi e porta direttamente al cuore. Carezzevoli sono le immagini, che delineano la poesia di Enea Biumi. Pura e sincera è l’ispirazione, collocata in una dimensione alta, nel tempo preterito della memoria. Nel ritessere la trama dei ricordi, il poeta accende i sinistri bagliori del cuore, alimentando la fiamma della nostalgia. I nuclei fondativi della poesia di Corrado Calabrò, nell’acuto respiro poematico del dettato di Roaming, sono visti attraverso la sfera celeste, nel bagliore tenue delle costellazioni, nell’evoluzione espansiva dell’inappartenenza, nell’insondabile mistero della condizione umana. Siamo oltre i limiti dell’infinito, sedotti dal tocco magico di questi versi alati. È lo stato di grazia di chi coglie lo spazio dell’infinito multidimensionale, nel teatro dell’io, dietro il milieu metaforico della poesia. La straordinaria radialità dello scenario onirico e la genialità espressiva diventano il segno della sua eccellenza poetica. Immagini deliziose e accattivanti sono materia dell’empito poetico di Franco Campegiani, quando crea poeticamente l’intreccio della storia di Pinocchio e di Alice. Sulle ali della fantasia il coagulo della sua poesia è costruito, in modo mirabile, su un immaginario, la cui radialità è proiettata verso un oltre, irraggiungibile e misterioso. Incantevole e soave è la densa poesia lirica di Marina Caracciolo, soffusa di echi di “vaghe memorie” e adombrata da “ambigue presenze” dell’ignoto. Le immagini si disegnano in modo netto ed eloquente, ritagliando spazi innocenti di un’acuta visionarietà. L’illusoria avventura di Robinson Crusoe è nell’immagine suadente di Tiberio Crivellaro, che ci restituisce un sentimento di esulità e di solitudine essenziale. L’avventura e la sfida sono in un mondo altro, vagheggiato da questa preziosa invenzione della creatività del poeta.

Su una similitudine, protratta per l’intero spazio poetico, tra parto reale e metaforico (quello poetico) si gioca il testo di Edith De Hody Dzieduszycka, che anche mediante l’utilizzo di versicoli univerbici rappresenta iconicamente il “cordone” a cui è “allacciata” “la poesia nuova / desiderata bimba”. Leggiadra e liberatoria è l’immagine poetica di Francesco D’Episcopo, segnata da un sentimento forte di vena pascoliana e scandita da un convincente empito di straordinaria freschezza. Il poeta sogna, evitando gli scontri dell’inconsistenza umana, ma “sovra gli altri com’aquila vola”, ignorando gli effetti nefasti del disinganno e della caducità dell’Esserci. Nel candore dei versi di Carlo Di Legge c’è un’ansimante pulsione di morte, espressa attraverso immagini nitide, di un forte afflato poetico. Il tracciato emozionale è segnato dalla rete associativa della parola, che si correla all’immagine, nel disvelamento trasversale dello struggimento dell’Essere. Nell’ottica disarmonica del Fuori di Chiave, la pittura pirandelliana viene analizzata da Carlo Di Lieto, in funzione dell’immagine, sul versante dell’esegesi psicoanalitica. L’estraneità dell’io, fantasmatizzata, viene disvelata nel gioco ambiguo dei contrari e sul clinamen degli scenari dell’alterità. Il ritratto dell’Autore viene alla luce nelle risonanze simmetriche delle vibrazioni interiori, che dilatano il paesaggio della natura e quello della mente nei colori della sua pittura. Delirio e sogno sono accomunati dall’immagine, per perlustrare il fondo segreto delle latebre inconsce di Pirandello, nella diuturna dialettica di vita e opera. Tra l’apparenza e le meraviglie del sensibile e i “pensieri contrastanti” si dipana il testo di Annitta Di Mineo, in uno scenario dagli incerti “confini”, dove la sospensione della ragione dà il la al dilagare dell’immaginazione.

È un immaginario umanistico quello di Enrico Fagnano, oltre che “perfetto”, come recita il titolo del suo testo, una perfezione leibniziana ritenuta possibile al di là dell’imperfetto mondo attuale. Come qualcuno ha detto, un “ottimismo della volontà” per realizzare ciò che le idee riescono comunque a concepire. La dimensione comunitaria (“Uomini / che camminano / insieme / ad altri uomini”) trova però forza a partire da uno sguardo introspettivo (“Io sono / la mia memoria”, “Io sono / le mie domande”, “Io sono il mio respiro”) che però si proietta fuori di sé (“Io sono l’altro”) per realizzare una comune libertà. Per Paolo Fichera l’immaginario sembra essere ciò che è rimasto ancora sospeso tra l’evento non accaduto e ciò che appare invece dimenticato o non detto (“Quel che non accade resta / sovrano, eppure cade / tra i grani di una parola impronunciata / fedele alla stirpe d’Eleusi”; “Forse che dimenticata possa accadere?”), come se fosse necessaria un’iniziazione per addentrarvisi. La scrittura, elegante e levigata, si nutre di riferimenti cólti che vanno dal mondo della mitologia antica a quello delle arti figurative (Eleusi, Rodin, Renoir). Le immagini si susseguono con forza fantasmatica, laddove per fantasmatico s’intende sia il favoloso, sia l’inafferrabile (“Chicchi d’uva travalicano neve, / perde nel bianco la terra la fame / precisa, la fiamma nel giglio / leviga mani, guance, neve / inesauribile tra terra / in incanto: atroce terra”). Antonio Filippetti mette in discussione il valore salvifico dell’immaginazione; “immaginazione è il migliore / dei mondi possibili?” si chiede rovesciando la fiducia di Leibniz e spezzando con un enjambement e un rientro del verso successivo la stessa espressione del filosofo tedesco lasciando “migliore” a pencolare monco nel verso precedente e isolando a capo i mondi possibili. La speranza sembra essere diventata illusione, e il cassetto dei sogni appare irrimediabilmente chiuso. Se uno spiraglio rimane aperto è che la forma interrogativa se da un lato appare mera domanda retorica, dall’altro assume pure l’aspetto d’un interrogare ancora aperto. Luigi Fontanella, dalla sua nuova patria, gli Stati Uniti, dove vive da decenni, all’immaginazione sostituisce la percezione del tragico dato sconfortante fornito dai sensi. Attraverso il diaframma trasparente della finestra lo sguardo sembra spingersi ben oltre il suo “amato albero” e la scena, lo scenario sembrano diventare il tragico mondo dei nostri giorni. Se l’albero, che è la vita, è diventato suo fratello, non si può non pensare all’autodistruzione verso la quale invece corre lo svolgersi del nostro tempo: “E penso di colpo, per contrasto, / all’autoannientamento / di tutto ciò che abbiamo costruito, / al cadavere oramai rattrappito / di quella madre in fuga / con l’umile sporta / delle sue bagatelle, / a quei due figli stramazzati a terra, / ai rigagnoli di sangue rappreso / sul suo viso contratto”. Sono “visioni incrociate”, come le “stagioni incrociate” di cui in precedenza Fontanella ha scritto, due realtà diverse, quella pacificata e rasserenante che vede dallo schermo della propria finestra, quella tremenda e perturbante che proviene dai monitor televisivi, di oggi ma anche di ieri. Di sempre. La musica è l’arte del tempo, non c’è musica senza lo scorrere del tempo, ma non ci sarebbe neanche la vita in un punto fisso nell’atemporalità, ci dice Sonia Giovannetti; ma anche la poesia musicalmente è arte del tempo: la puoi trovare fissata per sempre sulla pagina, ma è nata dal movimento della scrittura, della mano sul foglio, e vive nel tempo della lettura, del movimento degli occhi sulla pagina. Ma, sinesteticamente, la musica è anche luce che fuga le ombre: “C’è un bordo oscuro nelle cose / ma c’è chiarezza nelle note che / muovono il suono: non morirà / così il verso nel percorso del dire”; “Eppure resta il suono / dei panni stesi al sole, / musica di un rimpianto / che non si estingue”. La musica che ci vibra dentro e vibra nelle cose riaggancia anche il passato: “Mio padre è ancora là, / col bastone in mano / a tracciare linee sulla polvere rimasta”. L’immaginario per Vincenzo Guarracino s’insinua nella disposizione stessa dei versi sulla pagina, non solo: entra nelle parole e le spezza, le deforma, ne trae altri echi. La Pagina è un Telaio che tesse e disfa parole e frasi (“verifica l’ans(i)a del fiume la ferita / la rotta segnata l’ombra conosciuta, per / es(empio)…”) lasciando incompiuto il senso che si ricompone – se si ricompone, se è necessario che si ricomponga – al di là della pagina stessa. Il segno diventa un sogno che ha le regole apparentemente anarchiche del sogno (che pure ha una sua normatività): “discende l’occhio è reale (altrove) / alterni golfi che ora (a cerchio) (in sogno) / il segno registra in volo (inventa) ap- / punta il centro”. E si lascia tronco il famoso assioma scolastico fatto proprio da Locke – “nihil in intellectu nisi prius in” – e integrato da Leibniz: nisi ipse intellectus. E qui infatti l’intelletto gioca con sé stesso e in sé stesso trova un immaginario verbale. Narrazione surreale, quella di Giorgio Linguaglossa, polifonica e a tratti sincopata: non a caso, il riferimento alla musica attraversa tutto il testo, una musica killer che uccide uccelli e fiori. E un finale noir inatteso (ma forse non tanto) in chiusura. L’atmosfera straniante è introdotta da un misterioso K. che non si sa se identificare con il più famoso K. della letteratura mondiale, ma il fatto che fumi un sigaro cubano smentirebbe l’ipotesi: “K. esce dal tempo. Rientra nel tempo. Nel presente. / Notte. Pioggia. Ombrello. Sotto l’ombrello, il cappello. K.” Ma non si sa di cosa essere sicuri: “«Le parole tradiscono le parole», disse K”. E l’autore si fa chiamare in causa da una delle voci che interloquiscono nel testo: “È un peccato che Lei non abbia stile caro Linguaglossa”. Cosa che certo non si può dire di questa particolare scrittura poetica. In una sorta di incubo ci trascina soprattutto il secondo dei due testi di Roberto Lombardi. Ma già il primo, “dedicato” alla pubblicità, ci proietta in un mondo in fondo irreale: “di cosa parla? d’illusione. la sua. / l’ha detto la pubblicità / che può essere magra e grassa / non importa l’importante è che / sia libera. libera da che da che cosa? / non lo dice. la pubblicità non lo dice / non dice da questo o da quello. libera”. Pubblicità che incontriamo anche nel secondo testo: “una mucca morta in una pubblicità giammai / una fetta di sangue sì una fetta sola con parsimonia e meglio se cotta / se ben cotta / ma l’intero animale l’intera morte no”. Ma la morte della mucca introduce al tema dell’inevitabile scomparsa personale, tutti destinati a nuotare nello stesso lungo e interminabile sogno, che è appunto un incubo, un insostenibile immaginario. Ai cigni di New York, appunto Swans, s’intitola il testo di Eugenio Lucrezi dedicato alla moglie Paola. Ma che il musicista Eugenio non alluda anche alla band omonima attiva dal 1982 sulla scena newyorchese? Alla fine scrive infatti “Un gruppo Gothic / così vola / Tra lacrime, / the Swans”, e la loro music fu pure detta gothic rock: quindi l’autore confessa. Musicalmente, il testo si articola in una serie di haiku – almeno li chiamiamo così perché tutti di tre versi brevi – nei quali i cigni effettivamente compaiono (“Cigno ritagli / L’acqua e l’aria / Senza ferire foglia”) in una serie di fotogrammi, fenomenologia della grande mela vista attraverso piccoli scorci che pure spingono a trovare altro senso negli spazi bianchi tra una stanza e l’altra del testo essenziale e raffinato: “Il cigno veglia / Dorme l’eme / La clorofilla sogna”. Immagini di giovani ragazze attraversano i testi di Angelo Manitta: “seni fanciulli”, “lo sguardo diafano della ragazza / che trasforma in pura luce / deserti di miraggi”, “fanciulle inebriate / da vaghi corteggiamenti”. Un’atmosfera soffusa pervade i versi, talvolta inquietante, talaltra malinconica. Se troviamo “labili oscurità”, c’imbattiamo anche nella “carezza d’una mamma” e ci muoviamo tra un che di fiabesco e la tenera quotidianità. Uno scarto è rappresentato dall’ultimo testo, dove domande senza risposta s’interrogano sul perché d’una scomparsa prematura di una bambina: eppure è come se fosse ancora tra noi: “Ma tu vivi e corri / e sorridi e mi abbracci: immagine / sciolta in un bacio”. La serie delle “e” congiunzione è come se rafforzasse questa presenza assommandone le manifestazioni.

La composizione di Irene Marchegiani, Metamorfosi, risulta come sviluppo immaginario della terzina iniziale, dove l’angelo, oggetto di fede dell’ava, costituisce la base di ogni rapporto d’amore. L’angelo “laico”, infatti, con la sua luce per la poetessa è fonte di ogni valore vitale e umano: fortezza, gentilezza, gioia, affetti imperituri, rinnovamento ad ogni svolta della vita. Tra luci ed ombre, con l’aiuto dell’immaginazione, e sforzandoci di scandagliare i meandri della memoria, possiamo cercare di capire i vari risvolti della realtà e della vita. Infatti, secondo Adriana Gloria Marigo nel gruppo di sette poesie ancora inedite, non è facile neppure cogliere il significato delle parole e delle frasi: bisogna spesso osservare le movenze degli sguardi per interpretare e capire l’esistenza delle persone; è necessario ricorrere alla fantasia e all’intuito per percepire il mistero dei movimenti del sole e della luna e per trovare una spiegazione al crescere e al morire degli alberi, per cogliere il senso del differenziarsi dei fregi nei blasoni e negli stemmi dei casati e dei raggruppamenti umani. Il rumore prodotto dallo scorrere di un fiume (nella lirica Le fronde di un salice) o l’infrangersi delle onde sulla riva del mare (nella lirica La spuma del mare) risvegliano nell’animo della poetessa, Manuela Mazzola, sensazioni e immagini varie. Presso il fiume la vicinanza di un salice frondoso evoca l’affollarsi delle vane illusioni giovanili mentre la spuma marina, sciogliendosi, rappresenta l’evanescenza dei sogni, che, come corpi perduti per sempre negli abissi, non avranno nessuna possibilità di realizzarsi. Le due liriche si fondono in un’unità poetica per l’affinità della tematica. Come la mangusta, animale carnivoro, un tiranno è capace di stritolare un gran numero di persone. Nell’Ode alla Mangusta Occidentale Vincenzo Moretti ricorrendo all’immaginazione ci offre la metafora di questa micidiale bestiola per denunziare i casi di varie dittature, quale quella cinese, che ha fatto milioni di vittime, o quella attuale operata dal russo Putin aggressore della Georgia e dell’Ucraina. I mass-media, afferma l’autore, tuttavia, pur mostrando ostilità, attenuano i toni per il timore dello scoppio di conflitti atomici, anche se c’è da augurarsi che prima o poi la mangusta volga contro “Vlad” i propri denti. Nella composizione poetica, in verità di sapore un po’ prosastica, Adolescenza, di Giampiero Neri, si riscontra un tuffo nella lontana adolescenza. Adesso l’autore non dà molto spazio all’immaginazione, ma rivive lucidamente diversi risvolti di quell’età, anche se allora una certa visione fantastica o bizzarra della vita non gli mancava. Vengono rievocati i vari rapporti con un amico coetaneo già compagno di scuola, con la madre e con il padre: il tutto tra un diffuso senso di insoddisfazione e di voglia di cambiamenti. La lirica Sacrilegio, di Emanuele Occhipinti, denunzia la malvagità di gran parte degli uomini e, portando il discorso sul piano religioso, immagina persino che essi sarebbero anche capaci di ricattare il Padreterno. Infatti, dopo aver martirizzato e messo a morte Gesù Cristo, se Egli non avesse portato in cielo il proprio corpo certamente lo avrebbero usato per escogitare ricatti a Dio al fine di ottenere introiti in denaro. Il guadagno economico, pertanto, è considerato dall’autore il movente più rilevante dell’ingordigia e della corruzione nell’ambito dell’umanità. In un gruppo di sette brevi poesie (L’inesistenza della morte, Vorrei vederti tu, Sul bordo del libro, Uno che mi somigliava, Un bel cervello, Inzuppo gli errori fatti, Autostrade interrotte) Ernesto Ponziani dà sfogo alla propria immaginazione. Ora c’è la speranza di non morire mai, ora l’illusione di vivere senza essere osservato, ora lo spargere petali di ortensia al passare di una bella donna, poi l’illusione dell’incontro con una persona che gli somiglia perfettamente, poi ancora il desiderio di un’intelligenza superiore, quindi la rassegna degli errori commessi, infine la considerazione che parte dalle unghie maltenute. Enzo Rega ripercorre le riflessioni di Jean-Paul Sartre sull’immaginario, un tema che ha affascinato il filosofo francese fin dai suoi primi passi nella filosofia: ben due opere si susseguono negli anni che precedono l’uscita del suo capolavoro, L’essere e il nulla. Non stupisce questa precoce attenzione di Sartre per l’immaginario se si considera che ha accompagnato la riflessione filosofica con la scrittura di romanzi e drammi e con l’analisi della musica. Rega concentra la breve nota proprio sul rapporto che Sartre individua tra arte e immaginazione, considerando l’opera d’arte non una mera realizzazione dell’immagine mentale dell’artista: anzi, l’oggetto dell’arte, come tout court quello dell’immaginazione è un oggetto irreale che sì, si serve della realtà materiale per oggettivarsi, ma trascendendo il reale stesso.

Con tutta una serie di figure allusive Davide Riccio espone la condizione dell’esistenza umana, soprattutto nella composizione poetica Cascame. C’è, innanzitutto, l’ingresso nella storia fra trasformazioni e metamorfosi, tra speranze e delusioni, in un alternarsi di ferite paragonate alle punture dei tafani e la fede nella sopravvivenza dell’anima dopo aver lasciato il corpo. L’altra lirica, Pareidolie, pur nella conferma delle varie traversie esistenziali, rivela l’accettazione della vita così com’è. L’espressione è allusiva e metaforica. Al di là del semplice significato che a prima vista esprimono, le parole spesso rivelano concetti ben più profondi e inaspettati. Nella Magia dell’immaginazione Paolo Ruffilli mette in rilievo che ciò può avvenire grazie alla sonorità e alla varietà delle sfumature che i vocaboli possono assumere nell’ambito del discorso scritto o parlato tra pause, silenzi, allusioni, che costituiscono il lievito dell’immaginazione in chi legge o ascolta. Emerge, così, la vera natura delle parole, che vengono qualificate come “assetate di libertà”. Eugenia, probabilmente vittima quindicenne di un assassino di cui non si conosce il volto, dà il titolo alla composizione poetica di Laura Sagliocco. La poetessa si sofferma sui tratti della ragazza a cominciare dall’infanzia, magari aiutandosi con l’immaginazione: gioie semplici, spontanee, il flusso dei capelli e le movenze delle labbra carichi di eleganza e di fascino; tutti elementi che denotavano un’alta spiritualità protesa verso valori celesti. Quelle di Eugenia erano qualità che rappresentavano il meglio della natura, e la poetessa si augura che i suoi versi ne proteggano il fulgore. Antonio Spagnuolo nella composizione poetica divisa in quattro titoli (Richiami, Misteriosa, Candore, Storia), evoca la compagna della propria vita tra silenzi, tremiti, paure e ricordi. Il poeta riflette sul mistero del silenzio eterno che caratterizza la morte, sulle promesse della giovinezza, sui momenti incantevoli trascorsi sotto il chiaro di luna, sul rinnovarsi dei rapporti amorosi, tra carezze occasionali, anche nell’avvicinarsi della vecchiaia. Ora, conclude il poeta, non mi rimangono che rari ed evanescenti desideri passionali. Le tre liriche di Imperia Tognacci (Germogliano sogni, Nel respiro della notte, Verso la sconosciuta riva) ci accompagnano attraverso il nascere della vita e lo scorrere del tempo. Con la nascita “si apre la porta del tempo”, lungo il quale se ci guardiamo allo specchio osserviamo come mutano via via le fattezze del nostro viso. Le singole vite sono come delle piccole luci che si accendono nel buio profondo, dove si muovono innumerevoli galassie e “rosari di stelle”. Nell’ambito di questa immensità si verificano misteriosamente “amori, trionfi e sconfitte”. Cesare Vergati nella composizione D’inavventura secondo natura ci propone tre pagine di parole in libertà, senza punteggiatura e senza concordanze, in assenza di nessi sintattici e grammaticali; insomma, un gioco di immaginazione, che affida alla fantasia del lettore più che al suo gusto personale. Anche sul piano logico tutto sembra affidato al caso e alla successione di espressioni e vocaboli, talvolta di originale invenzione (a cominciare dal titolo), che fanno pensare a un puro divertimento, anche se dal sottofondo è possibile captare una profonda preoccupazione esistenziale. Il tutto sembra voler riprodurre il disordine che misteriosamente esiste nella natura, cui già sembra alludere il titolo. 

Per Matteo Veronesi, l’immaginario risiede in sé stessi, plotinianamente si diventa visione in un gioco ossimorico: “accesa cecità, tenebra ardente”. È appunto una visione cieca, persa nel nulla: “Nulla intorno ha più senso – / spettro ogni corpo, larva / ogni moto di vita”. Ogni vita sembra ripetersi in un eterno ritorno dell’identico, come in un cerchio senza uscita, in un’ontogenesi che non è che mera e stanca ripetizione della filogenesi: “Perché se non per ripetere l’orma con l’orma – / eco / il passo al passo che precede e segue – / cammino senza tempo, prigioniero e danzante / che se stesso ripete, nel suo cieco cerchio…”. Alla fine non sembra esservi un immaginario, un altrove. È disponibile a far rotta verso l’immaginario Giuseppe Vetromile anche se il viaggio sarà difficile e poche le luci a indicare la rotta. Entusiasmo e amara consapevolezza sembrano alternarsi nello sguardo del viaggiatore: “E intanto cerco luce / cerco la fiamma della vita / quella che lasciai sfinire dentro le zolle / in una notte d’apocalisse”. Agli interminati spazi dell’infinito fa da contraltare l’immagine di un anonimo e quotidiano condominio, uno di quelli che spesso abbiamo visto comparire nella sua poesia. Ma qui è abbandonato in una terra livida e buia che ci ricorda il mondo popolato di macerie nel quale viviamo. Ma non tutto sembra perduto: “vedo lo zampillare di un’antica vita / quella che fluiva nelle mie vene / prima di quest’addobbo finto / che è la mia pelle // viaggerò di notte / dissetandomi alla fonte del perdono”.

                                                       La Redazione

Unicuique suum: i testi che vanno da Affinito a Di Legge sono stati commentati da Carlo Di Lieto. Quelli da Di Mineo a Dzieduszycka da Fabio Dainotti. Quelli da Fagnano a Manitta e quelli di Veronesi e Vetromile sono stati commentati da Enzo Rega, che ha redatto anche la parte generale della premessa. Da Marcheggiani a Vergati sono stati commentati da Emanuele Occhipinti.

 


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