Nella poesia che apre la raccolta di versi in sette sezioni
“La gravità terrestre” del poeta di origine siciliana e residente a Modena,
Elio Tavilla, è già presente non solo una dichiarata concezione che si
distingue nella struttura tecnica del testo stesso, nella compattezza di versi
che concentrano una solidità espressiva di abilissima tensione, ma anche un
contenuto a traccia espositiva, aperto a intervalli dai due punti che indicano,
in corso di scrittura, il segno tangibile di una sofferenza privata e civile
dove è il settore animato del prospetto giovanile ad essere esposto alla caduta
dei progetti; “ma infine qui è il nero dominante/ il tuttobianco, tuttonero
nullasembiante/ torna l’ostrica d’infanzia, schiude bella/ l’apparenza del
rossore sulle guance”. E’ una perturbante occasione dicibile di terreni adibiti
alle lotte, ostacoli e destini, intenzioni narrative interrotte, pene mature,
tempi davvero incerti che riportano ad un bivio. E’ notte aperta anche sulle
aspre condizioni che caratterizzano la personale identità di chi accoglie gli
effetti riflettenti agnizioni che non tralasciano la ormai separatezza del
luogo inglobato e trasfigurato nella sua decadenza “anche sopra gli argini,
nella fitta foresta/ delle aziende metallurgiche addentrate/ sino quasi alla
città che più non è/ periferia”. Una parvenza d’amore deve emergere nella
durezza della strada, nella inesorabilità della notte, quando la notte è
domanda, è inascoltato regesto di assidui dintorni per lo più immediati. Sono
quasi strati di esaurita tolleranza verso il sopruso, di graduale recupero di
una necessaria sensibilità civile, attraverso lo smarrimento volontario e, allo
stesso tempo, imposto dalla distrazione contestuale di un riflesso descrittivo
che insinua rimandi di rima e assonanza irregolari e distanziati nella
partitura esposta agli intrecci del ritentare la domanda dello sguardo.
Inchioda al fisso della pagina il tangibile randagio, il vivente che conosce il
rifiuto, lo sbando, la persecuzione, la separatezza che vibra nella fissità di
“un chiostro di ossa e nervi gettati/ nel pattume”. E’ qualcosa che ci può
tenere legati alla terra, ad una condizione minerale, terrestre appunto, dove
la complessità delle implicazioni distoglie dalla intransigenza del dato
reiterante la dipendenza. Il dramma anticipa eventi che riguardano la tangibile
pelle degli umani, lo strazio inascoltabile perché scartato, tra uno schermo di
gomma e un fuoco nemico; anche sognare in fondo, scrive Tavilla, è un gesto
“poi/ spalanchi la marsina e scappi”. Si approda a sonni incerti e crepuscoli
avanzati, sere oggetto di tentazione, carezze inconsolabili, avvistamento di
lago. Dopo la difficoltà di scorgere le insegne che dovrebbero interpretare il
nostro passaggio, dopo le insonnie, sono ancora figure giovanili a disegnare il
possibile ulteriore destino, allora “basterebbe/ tremare di candore e di
innocenza”. Le storie di guerre e di nemici, di sudore e sangue, di cieli
incombenti e di domande, svelano la determinazione di una sintesi che racchiude
la complessità di attese rivolte a forme altre, vie d’uscita. Ma la conclusione
contenutistica di Elio Tavilla è più amara, nella conferma di un mondo che
esprime l’infamia mai cicatrizzata nelle schiene “vergate a sangue”; in un
trascorrere, insomma, in un epilogo, visto come un meccanismo non conoscibile e
contratto in una desolazione che, per l’autore, solo il rapido passaggio
testimonia.
Andrea Rompianesi