domenica 5 luglio 2020

Elio Tavilla “La gravità terrestre” (Musicaos Editore, 2020)



Nella poesia che apre la raccolta di versi in sette sezioni “La gravità terrestre” del poeta di origine siciliana e residente a Modena, Elio Tavilla, è già presente non solo una dichiarata concezione che si distingue nella struttura tecnica del testo stesso, nella compattezza di versi che concentrano una solidità espressiva di abilissima tensione, ma anche un contenuto a traccia espositiva, aperto a intervalli dai due punti che indicano, in corso di scrittura, il segno tangibile di una sofferenza privata e civile dove è il settore animato del prospetto giovanile ad essere esposto alla caduta dei progetti; “ma infine qui è il nero dominante/ il tuttobianco, tuttonero nullasembiante/ torna l’ostrica d’infanzia, schiude bella/ l’apparenza del rossore sulle guance”. E’ una perturbante occasione dicibile di terreni adibiti alle lotte, ostacoli e destini, intenzioni narrative interrotte, pene mature, tempi davvero incerti che riportano ad un bivio. E’ notte aperta anche sulle aspre condizioni che caratterizzano la personale identità di chi accoglie gli effetti riflettenti agnizioni che non tralasciano la ormai separatezza del luogo inglobato e trasfigurato nella sua decadenza “anche sopra gli argini, nella fitta foresta/ delle aziende metallurgiche addentrate/ sino quasi alla città che più non è/ periferia”. Una parvenza d’amore deve emergere nella durezza della strada, nella inesorabilità della notte, quando la notte è domanda, è inascoltato regesto di assidui dintorni per lo più immediati. Sono quasi strati di esaurita tolleranza verso il sopruso, di graduale recupero di una necessaria sensibilità civile, attraverso lo smarrimento volontario e, allo stesso tempo, imposto dalla distrazione contestuale di un riflesso descrittivo che insinua rimandi di rima e assonanza irregolari e distanziati nella partitura esposta agli intrecci del ritentare la domanda dello sguardo. Inchioda al fisso della pagina il tangibile randagio, il vivente che conosce il rifiuto, lo sbando, la persecuzione, la separatezza che vibra nella fissità di “un chiostro di ossa e nervi gettati/ nel pattume”. E’ qualcosa che ci può tenere legati alla terra, ad una condizione minerale, terrestre appunto, dove la complessità delle implicazioni distoglie dalla intransigenza del dato reiterante la dipendenza. Il dramma anticipa eventi che riguardano la tangibile pelle degli umani, lo strazio inascoltabile perché scartato, tra uno schermo di gomma e un fuoco nemico; anche sognare in fondo, scrive Tavilla, è un gesto “poi/ spalanchi la marsina e scappi”. Si approda a sonni incerti e crepuscoli avanzati, sere oggetto di tentazione, carezze inconsolabili, avvistamento di lago. Dopo la difficoltà di scorgere le insegne che dovrebbero interpretare il nostro passaggio, dopo le insonnie, sono ancora figure giovanili a disegnare il possibile ulteriore destino, allora “basterebbe/ tremare di candore e di innocenza”. Le storie di guerre e di nemici, di sudore e sangue, di cieli incombenti e di domande, svelano la determinazione di una sintesi che racchiude la complessità di attese rivolte a forme altre, vie d’uscita. Ma la conclusione contenutistica di Elio Tavilla è più amara, nella conferma di un mondo che esprime l’infamia mai cicatrizzata nelle schiene “vergate a sangue”; in un trascorrere, insomma, in un epilogo, visto come un meccanismo non conoscibile e contratto in una desolazione che, per l’autore, solo il rapido passaggio testimonia.

 

                                                                                                                                Andrea Rompianesi


martedì 23 giugno 2020

Emanuele Bettini “Il giorno e l’amore” (Book Editore, 2020)

 
 
“Quando la notte si ritira, lasciando filtrare la luce, lo sguardo cerca la dimensione del nuovo giorno e appare l’Alba. Presso gli antichi greci si chiamava Eos...”. Con tale premessa introduce il suo esito in poesia “Il giorno e l’amore”, Emanuele Bettini, scrittore, traduttore, storico, non nuovo alla vicinanza tematica con spunti riferiti alla sensibilità ricettiva verso il mito greco e gli intrecci culturali, stimolati dalla opzione del dialogo e dalle suggestioni coerenti. E’ un rivolgersi lirico alla seconda persona singolare, ove le attese, quasi affilate da rosee dita, coniugano silenti aspettative e travagli di inabissati contorni. E’ corollario di un’alba simbolica che tratteggia il verticalismo dei testi, comportando esitazioni diramate attraverso lo scalare dei pertugi e degli anfratti offerti alla dinamica delle variazioni fonetiche e termiche; quasi un ancoraggio disciolto nella possibilità del palpito, oltre un’ ansa ove “la notte s’acquieta/ nel remare della mia barca” scrive Bettini, osando la tensione della prossimità auspicata o echeggiata perché “”Il fiume ha spazzato/ la piena dei ricordi”. Si segnala, leggero, un tono di abbandono all’inesorabile lontananza di ciò che evoca un passato remoto, per questo non solo sostanzialmente mitizzato ma comunque esternato in un drappeggio “dove anche il pianto/ può essere/ tempesta/ irrefrenabile/ come vento/ contro le imposte/ chiuse dal tempo”. E il verso breve a vocazione di sintagma condiziona le vocalità dei sentimenti espressi in una condizione metatemporale. L’avvio indica plausibili esempi quali il volo impossibile di Icaro, la ricerca di Ulisse o Giasone. Ancor più struggente, poi, la vicenda di Orfeo e Euridice. Il canto poetico capace di commuovere gli dei ma non di evitare le ineluttabilità del destino. E’ una potenza amorosa quella che il poeta evoca, portandola alla contemplazione quotidiana dell’avvertibile sensibilità propria delle schegge di natura estendibili ai vigori diurni e alle contemplazioni serali. Le tessiture auspicate contendono al controllo espressivo la dinamica del percepibile ascolto enumerato negli umori ansiosi della domanda. Croce, anima e canto, dunque, anafora e accenni di illocutorio concentrano la trama del reiterato accorrere a stilemi in coerenza di dettato. E’ sofferta e incessante ricerca di altro e di oltre, di un’aura femminile che sembra rievocare certe figure muse, angelicate, ritratte in percorsi poetici singolari quale fu, in un contesto mitomodernista, quello di un autore come Dorian Veruda, nelle conferme al dato ricettivo che concesse Rosita Copioli. Attenzioni quindi alle suggestioni della mancanza, quella che incide il segno quotidiano, libera l’invocazione e la domanda, “regala la rete dove la solitudine è furia/ che trascina la mia passione” scrive il poeta; decide le sorti di esiti in naufragio. Allora si affronta la difficile esperienza di saper interpretare tutto ciò che rifugge, che alimenta le strategie di risposta al disagio, quello che si accampa, che deturpa le possibili espressioni della nostra fuga impedita; accorpa i silenzi estroversi alla spazialità votati, determinando l’assedio costante che cinge i fianchi e allenta solo nell’attimo estorto della prevedibile resa, al timore esausto accogliente quei silenzi al rompere dell’alba, come tracciato in versi che furono di Francesco Marotta. Il sangue dirama segnali di ferite individuali e collettive, epoche segnate dalla rigenerazione dei propositi che ostentano consapevoli debolezze. Emanuele Bettini riconosce però il destino umanistico del tracciato: “persino l’acqua tra le pieghe della terra/ e più simile al volto/ che al deserto bagnato”. Un lirismo accompagna la pena del distacco dalle cose; il dicibile evoca l’accatastato oltraggio destrutturando il pensiero nell’opposta linearità del verso ed oltre... “c’è per tutti/ un po’ di pietà/ se il muro divide/ l’infinito dal cielo”.
Andrea Rompianesi
 

giovedì 11 giugno 2020

Alessandro Ricci “Tutte le poesie” (Europa Edizioni, 2019)

Singolare esito questo volume antologico, curato da Francesco Dalessandro, che ripropone l’insieme dell’opera poetica di Alessandro Ricci (1943-2004), figura particolarmente appartata e di profonda espressione stilistica. Il volume contiene i due titoli pubblicati in vita dall’autore (“Le segnalazioni mediante i fuochi”, “Indagini sul crollo”) e i tre editi postumi (“I cavalli del nemico”, “L’arpa romana”, “L’editto finale”). Come afferma Michele Ortore nella prefazione, la scrittura di Ricci è complessa ma per lo più “ragionativa”; aggiungerei particolarmente sofferta e attraversata da due corsi che anelano alla partecipazione esegetica. Da un lato la memoria storica e mitica che affonda le radici nei più articolati riferimenti all’antichità classica, dall’altro il personale e privato sentire posto all’offerta della pagina, l’io denudato da orpelli e svelato nel pudore del concesso; tale solo perché combattuto come ogni amore lacerato. Una connotazione evidente lo porta spesso all’uso calibrato del poemetto, ma sempre in una formula che riesce a valorizzare la tenuta timbrica del verso anche nell’approccio discorsivo, differenziandosi nettamente su questo piano da sviluppi e recuperi storicamente evocati da nomi e voci come avviene ad esempio nelle formule del monologo in versi proprio di un autore come Roberto Mussapi. Nella poetica di Ricci il tono è totalmente autentico, a volte irritato per una postura in esistenza mai scontata o prevedibile. L’appello della sua voce sulla pagina impone attenzione e domanda, quella ricezione accorta che scorge il guizzo esponenziale dove nasce inatteso. Al di là di un impianto ricco di sintagmi colti, latinismi, grecismi, arcaismi e tonalità policrome, quindi anche tracciate da espressioni più concrete e dicibili, una compattezza severa ed esigente conclude l’operato sulla pagina nel momento definitivo della delimitazione di ciò che svolge e che conquista inoltre il diritto alla vocalità immediata resa pensosa dall’uso dell’enjambement, dal dubbio che chiede prove d’amore impossibili. Ricci sembra quasi richiamare un dio a cui dice di non cedere, affacciandosi alla necessità della bellezza nella sua peculiare presenza in ogni cosa, pensando che la religiosità cristiana sostenga che bella sia l’anima sola. Tutto il contrario. E’ proprio il Cristianesimo, in realtà, quello autentico, che trova la bellezza nel concreto seme più piccolo, nella sua beltà creaturale ancora indifesa, proprio perché il cuore del messaggio evangelico ci rivela che il Regno è già tra noi, e qualsiasi intolleranza non può certo essere giustificata da chi ci invita persino ad amare i nemici. La domanda del poeta, allora, affonda nel solco della distribuzione di un bisogno emotivo, struggente e, allo stesso tempo, culturale, che sia auspicio di una vertigine pagata col prezzo della disputa, dell’irrequieto accadere dei crolli reiterati. Chi legge è spinto alla voglia di dialogare con l’autore, di soffermarsi su parentesi di trattato alla luce di una esigenza esistenziale misurata nella solidità di una figurazione mai gratuita, scontata; sempre acuta, invece, interrogativa, esigente perché mossa da quel rovello interiore e perenne che rivela l’intimità dell’artefice, lo nutre di squarci quotidiani e mitici che s’intrecciano. Particolarmente suggestivo anche l’uso del verso breve: “Nel golfo balenavano/ le correnti soltanto,/ in mosse pigre di nuvola”; quando è accorto il sentire di ciò che scuote, agita, “ed è già ieri, dilaga/ l’appena stato”, e ancora: “Poi ricomincia./ E’ una fine potente,/ spettacolare, da/ vergognarsi”. Il luogo, la topografia romana in particolare emerge in tratti estremamente nitidi e incisi, a volte quasi scolpiti da perizia nomade, perciò indocile: “Come hai fatto a estrarre un cielo/ dai tetti e rondini valorose e il colore/ ocra della città, o le conversazioni...”. Una maestria poietica concentra strutture lessicali in imprevisti innesti che rendono acuti e profondi i confini della versificazione e positivamente stupisce il tocco maturo del rimando: “Già dunque oltreautunno è arrivato qui,/ è carica la strada di gente calda/ sotto i cappotti e che chiasso bene o male/ si leva, tamburo assai più di pifferi cresce/ e sale ma non sbarazza/ questo freddo improvviso...”. Il tono di Alessandro Ricci è temerario, le sue strofe sanno dirsi pensanti e variabili nella lunghezza, in una conduzione abile e attenta del periodo; riavvolte nell’abdicazione a ciò che imprime l’usuale, scegliendo il recupero accolto nelle trepidazioni che guardano a storie e cenni proponenti le peculiarità dei riflessi classici di miti trascinati sulla strada randagia del vissuto, e quando le parole si fanno più comuni e transitabili è allora, in quel momento, che l’avvenuto rilascio pone i vocaboli in una successione imprevista. Li mischia nella concretezza del loro essere scrittura di pensiero. A volte, in lontananza, sembra di cogliere echi della poesia di Leopardi e Pascoli, annunci di un cammino nella vanità del tutto sul far della sera. Ricci è autore che incide i suoi versi sulla pelle del vissuto, in una partecipazione che non può dirsi mai parziale, ma interamente testimoniata dalla stessa forza di una corporeità gettata nello spazio della pagina quale luogo da abitare nella consapevolezza dello stesso rischio esistenziale. “Vissi della corona sul picco,/ il tempio nell’astratta nube/ di devozione che saliva, scoprendo poco/ a poco la linea di confine errante/ fra mare e rena, nella stagione nata/ insieme al giorno, all’ora...”; è l’erranza quindi in una visione duplice del vagare e del poter sbagliare, in una profonda domanda che incunea e svolge inquietudini agostiniane. C’é poi un senso di rimpianto diffuso echeggiante figure femminili, amori che hanno deluso; domanda sulla possibilità di trattenere qualcosa che inevitabilmente sfugge o non mantiene la peculiarità della promessa. I tempi si avvicinano, s’intrecciano; la sofferenza di Catullo è quella del contemporaneo sentire che ridisegna le agnizioni e ripete i timbri inagibili del rifiuto, dell’attardato ritrarsi, dell’inappagato contorno. Molto evocata la figura del padre, un riferimento di forte ausilio, una memoria esperita nella disanima del legame apparentemente perduto, scrive Alessandro Ricci: “E poi mai, mai/ potrò dirtelo e toccarti di nuovo”. Ma noi sappiamo che ogni bene consacra, rimane; così confidiamo in un incontro avvenuto, presente, notando che ancora “laggiù si leva/ il fumo delle colazioni”.
                                                                                                                                               Andrea Rompianesi
 


 

 

giovedì 5 marzo 2020

Enea Biumi, Rosa fresca aulentissima, ed. Genesi, Torino


Trascrivo qui la recensione dell'amica Annitta Di Mineo che coglie i vari aspetti del romanzo, sottolineandone in particolar modo la scrittura e la coralità.
Un giallo alla portata di tutti che ci invita a seguire l’indagine della morte di Terry, la ragazza più bella del paese, che tutti conoscono e nessuno riesce a dare una spiegazione a tale omicidio. Ma la caparbietà del maresciallo Panepinto ci inoltrerà nei meandri di un “ecosistema interno”, troppo spesso ridotto a una gabbia di personaggi illustri o meno di un piccolo paesino della provincia di Varese.
Ogni singolo dettaglio dei protagonisti non viene sottovalutato, anzi diviene strumento utile per schiarire la mente e comporre il puzzle.
Una narrazione di ampio respiro che tocca ogni aspetto della vita della vittima, dei protagonisti, dei compaesani e non solo, delle problematiche sociali e le sue convenzioni, naturalmente con grandi sorprese.
Per una volta non abbiamo una voce recitante, bensì la coralità paesana che impone una riflessione sulle loro azioni; una lenta ma inesorabile trasformazione, il suo progressivo scendere nelle pieghe più profonde e nascoste di una ristretta comunità montana, per seguire l’evoluzione della trama fino a identificare l’uccisore.
L’ intreccio spinge il lettore a voltare pagina velocemente, e al contempo a una meditazione sull’agire dell’uomo. Un delitto inspiegabile, in un vortice di colpi di scena, attraverso cui l’autore scruta l’angolo nero che ciascuno nasconde dentro di sé.
 Che dire? Un bel viaggio nei dintorni della provincia di Varese alla ricerca di un assassino con una guida meravigliosa: la scrittura di Enea Biumi, pregna di ricchezza lessicale e locuzioni dialettali che trasmettono gradevolezza, strappando perfino qualche risata.
Annitta Di Mineo

mercoledì 26 febbraio 2020

Annitta Di Mineo, Il tempo non ha rughe, C.A.SA. edizioni, 2018




Il titolo di una silloge, solitamente, apre uno spiraglio sul contenuto. In questo caso la chiave che spalanca la comprensione dei versi è il termine tempo, da una parte, e rughe, dall’altra. Ed il tempo, in effetti, sta da trad union a tutta la raccolta, che ha, tra l’altro, come sottotitolo “poesie del divenire”. Si intuisce immediatamente, allora, come il cuore di quest’opera sia uno scandagliare in tutti i suoi aspetti la forma “tempo” e si capisce come mai l’assenza di rughe sia un elemento essenziale per poter analizzare e, in ultima analisi, tentare di comprendere l’andare delle cose. In tal modo, e solo in questa prospettiva sembra affermare Di Mineo, la poesia recupera il divenire e tutto ciò che si affaccia sulla soglia del tempo, sia esso insito nel microcosmo personale della propria ed intima esperienza, sia al di fuori di se stessi nel macrocosmo che ci sovrasta e col quale, volenti o nolenti, dobbiamo relazionarci. In una scrittura sostenuta dall’essenzialità linguistica e sintattica, opportunamente orchestrata in versi lapidari che danno la misura dello scorrere veloce della vita, la poetessa ci conduce entro linee ed orizzonti metafisici dove possiamo confrontarci con sensazioni che sicuramente vanno al di là del puro dato prammatico. Non si tratta solo dell’antico assioma ruit hora, (“Ore minuti secondi/ scivolano via/ irreali”) bensì di una ben più complessa introspezione, che segnala una dialettica tra l’autrice e il tempo. Non è un caso che i primi versi affermino apoditticamente “Creo il tempo/ per la mia crudele lucidità”. L’aggettivo crudele ci spiega che non è un compito facile. Anzi. Meditare fa male. Fino alla crudeltà. Ma nello stesso istante ci si mantiene lucidi, cioè consapevoli, perché portare alla luce l’iter della propria esistenza diventa operazione necessaria, momento non procrastinabile, cartina di tornasole. Ecco allora che quasi nervosamente, a scatti si potrebbe ipotizzare, avanzano nella prima parte della silloge, sottotitolata appunto tempo, lacerti di immagini che illuminano il passaggio per poi immediatamente spegnerlo: è un incessante accendersi e spegnersi come quei fari sui campi di prigionia che di notte ispezionano il confine. “Il tempo mia dimora / scippa ricordi desideri”. Ma è necessario proseguire. Non ci si può far sopraffare. Bisogna vincere il tempo. “All’uomo clessidra/ il granello/ che lo separa dal nulla/ non sembra più infinito”. Per questo il dolore va esorcizzato, in ogni sua forma, sia per la morte, sia per l’amore. E giungiamo alla seconda parte della raccolta (dolore) dove l’esame delle pagine ci induce a vagliare gli aspetti più personali della poetessa: l’amore e la morte, in primo piano. E bisogna subito constatare che non c’è disperazione, non ci sono ineluttabili drammi, ma realistica visione. Se c’è urlo, si tratta di un urlo soffocato che comunque non strazia “soffro senza menzogna”; “piango / per restituirmi al presente/ per conciliarmi col passato”. La condizione è sempre e comunque il dialogo, il desiderio di condivisione e mai di divisione. Microcosmo e macrocosmo si uniscono alimentandosi l’un l’altro: “Silenzi/ passaggi obbligati/ tra uomo e creato”.  Nel momento raziocinante della consapevolezza ci si immerge in una specie di vasca purificatrice, come per declinare colpevolezze che non sono nostre, ma del destino: “Il destino s’annuncia/ vacillo/ coi piedi d’argilla”. Superati gli scogli del hic et nunc ci si apre all’infinito. E’ la terza parte della silloge (infinità) che si dispiega nella realtà quotidiana solo apparentemente, perché non ci si può soffermare a lungo su di essa, la poesia deve andare a captare sensazioni extrasensoriali, cogliere nella finitezza delle cose l’infinito del tempo.  Incontriamo qui le liriche più personali e, per così dire, intime dell’autrice. Di Mineo si mette a nudo davanti al lettore. Gli comunica le proprie angosce, i propri dubbi, le proprie esperienze, ma senza esasperazione. Rischierebbe in altri termini di deviarne l’attenzione e delimitarne l’orizzonte di interpretazione. Attraverso un sapiente dosaggio, invece, la poetessa ci offre i suoi sentimenti con semplicità ed autorevolezza. Quell’autorevolezza che le viene dal saper limare i propri versi con maestria e lavoro consapevole di cesellatura, privo di retorica ampollosità, conscia di una responsabilità sintattica e formale. Non troveremmo altrimenti alcun interesse o alcun feeling in questo iter poetico, che intende superare i confini del finito per farsi oggetto e soggetto, personale e impersonale, materia e spiritualità, dove in un’estrema sintesi la poetessa confessa: “finzione e realtà coincidono”. Il tutto riassunto in quell’ossimoro finale – uno schizzo veloce e illuminante – che recita: “chiarore/ nel cielo del tramonto”.
Enea Biumi

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                              

martedì 25 febbraio 2020

Paolo Ruffilli, “Le cose del mondo”, (Mondadori Libri, 2020)


La memoria rievoca una essenziale definizione di esperienza che ci veniva ripetutamente citata presso l’istituto di Estetica dell’ateneo bolognese: “quella infinita serie di relazioni tra ciò che diciamo io e ciò che diciamo mondo”; così nella partitura più vasta espressa dalla neofenomenologia critica che aveva in Luciano Anceschi un maestro esemplare. Nello stesso ateneo si è formato anche Paolo Ruffilli, nome tra i più noti della odierna poesia italiana, autore di numerose opere poetiche, ma anche esiti in narrativa, biografie, curatele. “Le cose del mondo” si propone come un sorprendente risultato frutto di un vero e proprio “work in progress” durato dal 1978 al 2019, parallelamente agli altri lavori dell’autore. Sempre e comunque con la preoccupazione di mantenere un preciso filo conduttore in tutta la sua stesura quarantennale, quale opera poematica di certosina attenzione verso il concreto mondo delle cose, nei continui rimandi e rispondenze attraverso il linguaggio poetico. Sì, per Ruffilli, la parola viene da lontano, da un’origine che chiede ricerca ed esige un vocabolo poetico che si sceglie perché in quel caso non sostituibile con nessun altro; che si carica di valenze tali da rendere la parola, nell’occasione, necessaria. La particolare limpidezza del verso breve caratterizza una scrittura che ha trovato riferimenti nell’opera di poeti come Gozzano, Montale, Caproni, ma che, innanzitutto, continua ad assimilare le preziose suggestioni che giungono dal sublime magistero dantesco. L’avvio è dato dal tema del viaggio, il senso del rapportarsi alle dinamiche del moto (e del mutamento) attraverso il contatto con i luoghi, gli spazi. “E’ proprio andando che si capisce/ qual è il rovesciamento di ogni prospettiva./ Perché, restando fermi, sfuggiva in pieno/ che è una questione del tutto relativa” scrive l’autore, confermando una sua nitida perizia compositiva, inoltrata in un dicibile qui però reso capace di oltrepassare l’osservazione iniziale, consueta, ed elevarsi ad un timbro che cerca l’immaginosa verità della parola, in attuazione di sensibili rimandi fonetici e severa accortezza nell’uso calibrato della rima. L’elemento visivo si fa evidente confermando il dato e nello stesso tempo superandolo per tendere ad un intimo significato che non sarebbe stato possibile cogliere in modo così nitido, senza quella particolare sosta linguistica. Ruffilli riesce a creare nella specificità di ogni singolo testo un raro effetto d’equilibrio compositivo che sembra rispondere ad una esigenza di ordine interiore, quasi frutto di una pratica di meditazione. Il poeta si caratterizza nella osservazione minuziosa dei particolari, degli aspetti anche quotidiani che, evidenziati, diventano indicazioni preziose di rimandi a contenuti che lo sguardo consueto abitualmente non coglie. Così come affondare il bisturi negli aspetti più intimi dei rapporti e dei ruoli, delle temibili assuefazioni da evitare attraverso le vitali reazioni di quegli stimoli che concedono rivisitazione fertile dei sensi aperti alla vocazione interrogativa. Tanto più necessaria e terapeutica ci giunge questa poesia, in una stagione epocale che ha da tempo sacrificato tutto l’ambito dell’espressione umanistica a vantaggio di un’arida esaltazione tecnologica finalizzata esclusivamente ad obiettivi economici. La parola poetica può, oggi, anche se da un territorio liminare, esprimere la valenza teoretica di una capacità d’osservazione che si fa conoscenza non del dato in quanto tale, ma del suo significato più svelante, imprevisto e, di conseguenza, del suo destino. E’ una consapevolezza di mistero ulteriore che abita la coscienza, anima un pensiero che “ resiste alimentandosi di niente/ da quel che nel profondo oscuro/ emerge, e sente di essere straniero.../ l’altrove, il cielo...il trascendente”. Così si avvia un confronto serrato e filtrato anche attraverso le cose quotidiane e materiche; enti presenti nella loro natura ontologica e allo stesso tempo resi protagonisti dell’innegabile divenire insito nell’unità dell’esperienza. L’umile bicchiere, ad esempio, “sbrecciato, andato in pezzi dopo essere caduto./ La forma, incontenibile, di un contenuto”; oppure la finestra “filtro di scambio tra il fuori e il dentro,/ tappo dell’immenso espanso a dismisura”, o il letto “porto sicuro e perno del giorno/ che svolta rapace, rotte le sponde/ nel tuffo, nel pozzo, in mezzo alle onde”. Tutto acquista, in questo procedere, un tono sapienziale che rimanda ad intimità ulteriori, a connotati rintracciabili solo superando nettamente il livello della prima ricezione; evidenziando il nostro percepire negli aspetti che sanno riconoscere l’elemento stesso quando si fa strumento, come negli organi del corpo analizzati in una sezione del libro impostata come vero e proprio atlante anatomico, rendendo il dato fisico protagonista di una pagina che ridisegna i ruoli delle sue singole parti. Il centro è determinato da propulsione esigibile e percettibilmente offerto dal flusso del linguaggio nella sua più composita capacità di ricerca, pur all’interno del limite a cui siamo inevitabilmente ancorati dalla nostra natura: “Ecco che di colpo riesco a dare/ corpo all’ombra, si stacca la parola/ dal groviglio e dà forma al fantasma/ figlio del sogno che si sveglia/ e respira il respiro della vita/ con il suo peso e con la meraviglia...”. Paolo Ruffilli ci confida, con questo suo articolato lavoro, la vocazione insita nella profonda maieutica che cura, reinterpreta e interroga le cose del mondo.
        Andrea Rompianesi
 

domenica 23 febbraio 2020

Daria Lapi, Rime Libertine, Menta&Rosmarino Editore, Caldana Di Cocquio (Va)


Con un’epigrafe apodittica di Oscar Wilde (Non esistono libri morali od immorali. I libri o sono scritti bene o sono scritti male) Daria Lapi ci mostra la strada da percorrere per la sua nuova silloge poetica “Rime libertine”. Infatti, sebbene la maggior parte dei lettori si rivolga prevalentemente al contenuto di un testo, non può esistere poesia senza un’adeguata e corretta forma. Saremmo di fronte essenzialmente ad un bel pensiero. Nulla più. Una lirica per essere tale, oltre all’emozione che suscita, deve possedere una sua intrinseca musicalità. Non si chiamerebbe lirica, altrimenti.Fatta questa premessa, d’obbligo visto l’autorevole esergo, mi soffermerò innanzitutto sul sostantivo (rime) per analizzare nel prosieguo l’aggettivo (libertine).
L’autrice utilizza in pratica quattro forme di metrica. La più usata è quella che insiste su quartine di endecasillabi. Troviamo poi il settenario ed il senario doppio. E infine il settenario semplice. Le rime sono in prevalenza o baciate o alternate e si possono considerare ad libitum, a discrezione della poetessa. Una vivisezione così certosina dei versi non vuol essere solo mera retorica. La forma infatti ha il preciso compito di alleggerire lo scritto rendendo maggiormente fruibile il contenuto. Oltretutto il modus operandi disvela una capacità poetica non trascurabile ed una facilità di scrittura non indifferente. Le quali cose, congiunte, fanno di Daria Lapi una scrittrice da non sottovalutare. Detto ciò vediamo dove ci conduce l’aggettivo “libertine”. E bisogna subito notare come la letteratura occidentale fin dalle origini abbia sempre avuto in sé una pagina a parte riguardante il microcosmo del sesso e dell’erotismo, vissuti naturalmente secondo le epoche e le filosofie imperanti. Se si pensa poi a quello straordinario libro della Bibbia che è il “Cantico dei Cantici” non possiamo sicuramente cestinare o relegare ad opera secondaria uno scritto che parla dell’amore carnale hic et nunc. Non sto a citare la cultura greca o romana, sicuramente in antitesi a quella cristiana, ma basta ricordare quei liberi pensatori, nati proprio nel seno della civiltà cattolica, che hanno contribuito a restituire all’uomo ciò che, per motivi qui non sindacabili, l’uomo aveva perso. Mi riferisco a un Cecco Angiolieri, a un Ciullo d’Alcamo, a Boccaccio, a Pietro Aretino, a Ruzzante, al veneziano Baffo, al nostro Carlo Porta, tanto per rimanere nell’ambito italiano: l’elenco è sicuramente incompleto e non esaustivo. Se però ci fermiamo alla superficie del termine libertine, sia pur con tutti i riferimenti sopra citati, non riusciremmo a comprendere fino in fondo il pregio di queste liriche che Daria Lapi ci propone. In effetti, le sue poesie sono un gioioso e spensierato percorso dell’eros in tutte le sue implicazioni e applicazioni. La sua franchezza e schiettezza ci allontanano da una non ben celata pruderie che, senza volere, potrebbe ancora abitare negli anfratti della nostra anima. La poetessa strizza l’occhio al lettore non tanto per trascinarlo a sé in una specie di captatio benevolentiae, visto che l’argomento è di quelli, anche al giorno d’oggi, tabù, quanto per ricreare il gioco dell’amore sensuale in tutte le sue sfumature. Ecco allora che nascono l’uccellulare, il lamento dell’onanista, la pillola blu, la cintura di castità e tante altre situazioni che descrivono in una specie di girotondo della ruota della fortuna l’abbandono e i desiderata del piacere. Ma non c’è solo spensieratezza e voglia di vivere – che sarebbe già tanto fra i poeti, poiché i componimenti dei più si inalberano sulle maggiori, insanabili e tristi malinconie, votanti al suicidio – bensì uno sguardo attento ai falsi moralismi, alle menzogne pubbliche che in privato diventano vizi, alla condanna di ciò che non è genuino e sincero: come l’eros, appunto.Citerò solo alcuni versi esemplari per non privare il lettore della bellezza e spontaneità di tutta la raccolta. Sentite qua: E’ meglio certo la masturbazione/ piuttosto che l’usanza di quei frati/ che, nel segreto della confessione, / fanno la festa ai giovani sbarbati. Oppure questi altri: Al giorno d’oggi capita sovente, / che qualcheduno non di primo pelo/ si creda ancora d’essere attraente/ anche se invero è tutto uno sfacelo. Od anche questa quartina tratta da “La cintura di castità”, e finisco: “Fatemi obliare tosto, Magnifica Eminenza,/ d’avere lungamente patito l’astinenza/ e dopo questo sfogo, con grande devozione/ vi chiederò di darmi la vostra assoluzione.” Rara avis, è il caso di affermarlo, questa silloge di rime libertine.  Dal punto di vista formale la si può avvicinare ai classici rivisitati in un linguaggio moderno. Dal punto di vista contenutistico mi fa ricordare i versi finali di una canzone di Georges Brassens, tradotta in italiano da Fabrizio De Andrè e nel nostro dialetto da Nanni Svampa, a proposito di una prostituta che sale in paradiso: qualche beghino di questo fatto fu poco soddisfatto; dumà i bigott disen de no, la ghe va minga giò.

Enea Biumi







UNICITÀ DELLA LUCANIA Recensione del Filosofo Vincenzo Capodiferro, 2 ottobre 2024

  Contravvenendo all’estetica crociana per cui l’autore si dissolve nell’opera d’arte, noi vogliamo valorizzare le persone che stanno dietro...