venerdì 30 dicembre 2022

Umberto Belardinelli, L'albero del tempo, ed. Scriptores, 2022


Il percorso poetico di Umberto Belardinelli viaggia sui binari di una sobrietà lessicale, elegante e sicura, che dona alla sua scrittura un non so che di nobiltà virtuosa e appagante. Nell’ultima silloge da lui proposta “L’albero del tempo” si legge una architettura ricca di rimandi personali che sanno cogliere ciò che è essenziale non solo per se stesso ma per l’uomo in generale. La sua poesia esce dall’io, pur esistente, per incontrarsi con un noi/voi/loro, nel richiamo assolutamente gentile e genuino della verità, attraverso alcune osservazioni, quasi una personale confessione, di carattere filosofico.

La lirica iniziale, che dà il titolo della raccolta, sembra un esergo e fa da simbolo dando il la alle pagine che si susseguono e che trasportano il lettore a riflessioni per nulla scontate. Non c’è ridondanza nei suoi versi ma semplicità (non semplicismo) che accoglie e aiuta, trasferendoci al di là del semplice dato materico nella amplificazione dei dettagli, per altro esistenti, divenendo ipso facto momento altamente spirituale e spiritualizzante.

Non v’è dubbio che la poesia di Belardinelli è poesia religiosa. In ossequio all’espressione dei Vangeli vedo questa silloge come una fiaccola sotto il moggio (mi perdoni D’Annunzio se l’ho posticipato alle scritture), ma una fiaccola che non deve nascondersi bensì illuminare nonché valorizzare. Del resto, a ben leggere, tutta la sua produzione, anche quando parla d’altro – di amore, di luoghi, di accadimenti – è una produzione religiosa. Si veda l’altra raccolta poetica dedicata a Santa Faustina Kowalska (Stella del mare). C’è in effetti in lui un cristianesimo integrale, di sostanza, che è il contrario di integralismo concentrato solo su simboli esteriori.  Del resto è Belardinelli stesso che ci rivela in una nota questa sua spiritualità quasi assoluta. “Molte volte la fede mi ha aiutato a superare momenti difficili, la fede ha sempre esercitato su di me il suo fascino misterioso e spesso mi ha condotto verso lunghe ed inquiete riflessioni”

Il cristianesimo è la religione dell’antifrasi perché ha fatto della suprema delle sconfitte, dell’ignominia della morte in croce, quella riservata ai condannati senza scampo, il simbolo stesso della vittoria. Vittoria sul tempo. Vittoria sulla morte. Anche il dolore allora diventa solo un passaggio – spiacevole, drammatico passaggio – ma necessario. Tuttavia la speranza non viene meno. Tra difficoltà, cadute, risalite, ecco di nuovo avanzare il dialogo col tempo valorizzato dalla fede che si fa quasi visibile nel sogno del domani.

E ritorniamo alla valorizzazione del tempo, spesso scritto con l’iniziale maiuscola per darne rilievo e importanza come fosse un assoluto (non certo Dio) di cui tener conto e pregio. Così il tempo nella mente dell’uomo ha la facoltà di superare le barriere dell’hinc et nunc. Diventa spirito. Si dilata nell’ieri e prosegue nel domani per riapparire nell’oggi. È impercettibile, intoccabile, sfuggente. Appunto come quell’albero che dà il titolo alla raccolta e al quale il poeta parla, si può dire senza esagerare, dall’inizio alla fine. Sempre presente, sempre invocante, sempre autorevolmente giudicante, sia quando si parla d’amore, sia quando si ricordano siti, situazioni, dubbi, speranze, sogni.

L’amore poi è il primo elemento che il poeta mette in evidenza, amore sentimentale per l’altra metà, amore affettivo verso i propri figli, amore spirituale verso Dio. L’amore diventa così un canto rivelando tutto lo stupore per la fragile bellezza della vita, fragile perché il tempo vola e spesso è un ricordo o un’attesa prolungata che si protende nel futuro. “Vivrai il mio tempo spento ed altri accesi / io mi dissolverò nel tuo ricordo / tu incontrerai altre stagioni / corre nelle parole e nel silenzio / la dissonanza delle nostre ore”

I suoi versi, ovvero la sua poiesi, allora, sembrano danzare in una elaborazione creativa, propositiva, esprimendo una consapevolezza equilibrata e razionale di un pensiero alto e maturo, atto al coinvolgimento spirituale del lettore, come un anacoreta che nel silenzio e nella solitudine della propria cella dialoga paradossalmente col mondo intero. Infatti i valori intrinsechi al pensiero di Belardinelli appartengono ad aspetti esistenziali che ci dettano le ore del tempo. Le sue poesie colmano l’animo del lettore per gli aspetti che in esse si rivelano verità e sembrano quasi un miracolo venuto sulla terra e in un mondo che ai miracoli più non crede. “Temo che il vento dell’inganno / trascini i suoi alfabeti frantumati / sulle pareti di un sinedrio / eclissato dal tempo”.

 È necessaria allora la presenza del poeta per ridare dignità all’esistenza. Una dignità che Belardinelli va ad esaminare in un’indagine introspettiva del proprio stato d’animo in rapporto al variare del tempo, al suo andare nel tempo, ai suoi affetti nel tempo – persone a lui vicine, care, luoghi visitati ed amati, momenti di serenità e di dolore, di presunta spensieratezza o di amara costatazione. “Non vi ho dimenticati luoghi del tempo / non vi ho lasciati mai senza memoria / e vivo e respiro dentro gli orizzonti / cercando di seguire la vostra traccia”

E alla fine ancora il tempo. Riordinato, scandito, evocato come un mantra. Il tutto introiettato in momenti di religioso pensamento. Il tempo dell’ultimo respiro. Atteso.  Temuto. Profetizzato. Tanto è vero che “Un giorno ci ritroveremo albero amico / nella stagione in cui la fiamma spegne / imprigionati nella cenere del dopo”.

 

Enea Biumi


sabato 26 novembre 2022

Sergio Cicalò, Passionis – Passioni, Edizioni Cofine, Roma, 2022 PREMIO CITTÀ DI ISCHITELLA-PIETRO GIANNONE 2022


 

La silloge inizia con un’interrogazione che va ad approfondire il significato del linguaggio in un contesto di suoni consonantici e onomatopeici, tra allitterazioni e rimandi fonici, sottoponendo il lettore a soffermarsi per riflettere il valore del messaggio, di ogni messaggio, poetico: Ita ingùrti’ de sa bòxi su siléntziu” (Che cosa inghiotte della voce il silenzio). In questo passaggio lo scrittore traccia una linea di lettura che rimarca autorevolmente e sapientemente il pensiero di una comunità che ascolta e agisce di conseguenza, sottolineando che “su bùidu chi s’obèridi” (il vuoto che si apre) si colma attraverso “sa mandàda” (il dono), vale a dire, secondo la stessa spiegazione che ne offre l’autore, “il dono reciproco della tradizione sarda. Quando una fa­miglia avesse avuto di una derrata alimentare una quantità superiore al possibile consumo del momento (tipicamente carne di maiale, dopo aver ucciso l’animale allevato in casa, ma anche frutta o verdura), faceva dono del surplus ad altre famiglie legate ad essa dal vincolo de sa man­dàda, attendendosi di venire ricambiata in futuro.” L’annotazione è importante perché svela la base e le fondamenta dell’impianto dell’opera. Siamo di fronte ad una poesia che incarna la cultura di un popolo e di quella cultura si fa portavoce. Ne è testimonianza, senza dubbio, la seconda lirica della raccolta “Su nènniri” che mette subito a disposizione del lettore gli strumenti per una opportuna conoscenza e analisi. Si tratta, con il nènniri, di un rituale dalle radici molto antiche che trae la sua origine dal culto millenario di Adone (come annota l’autore). Secondo la tradizione sarda nel mercoledì delle ceneri, le donne devono preparare un vaso con dei semi di grano da far germogliare al buio. I semi vengono depositati su di un piatto con del cotone e vengono conservati al buio per cui i germogli nasceranno di un colore pallido. Questa pratica non è nient’altro che un simbolo che sta ad indicare, in ambito cristiano, la resurrezione di Cristo avvenuta dopo tante sofferenze. In ambito pagano, invece, il collegamento è dato dai rituali legati al dio Adone che celebravano la rinascita della natura in primavera. D’altra parte se il seme non muore sotto terra, non ci sarà nessuna fioritura, come sta scritto nel Vangelo di Giovanni. La morte in questo caso è solo temporanea. Ma ci sarà un’altra morte, quella definitiva, che non lascia spazio a ulteriori speranze, ma porterà lutto e lacrime: is ògus nòstusu funti dua’ làgrimas // chi èus arrennèsci a prangi.” (i nostri occhi sono due lacrime // che riusciremo a piangere). Per questo “sa fentàna” (la finestra) diventa luogo privilegiato per meditare oppure per farsene una ragione: “de cussu’ lògus innùi pàri’ / ca sa vida e’ suspéndia” (di quei posti in cui sembra / che la vita è sospesa) Dato questo contesto si fa più chiaro il titolo della silloge “Passionis (passioni)” in cui l’autore si propone di tracciare un iter di sentimenti e aspetti poliedrici che vanno dalle sofferenze di Cristo al travaglio di donne e uomini alla ricerca di un bene e di una serenità per se stessi o per i propri cari. In effetti il rapporto tra la passione di Cristo e la passione dell’umanità è strettamente legato e conserva una valenza universale. Il sangue di Cristo è quello dell’uomo, il piede di Maria che schiaccia il serpente è il piede di ogni donna che sconfigge il dolore. “Su pèi biancu de Maria asùb’ ’e sa cònca / de su calóru” (Il piede bianco di Maria sopra la testa / del serpente.) Così Gesù assume l’identità di un uomo qualsiasi perché su chi no bòlis biri / e’ su córpus de Gésus prèn’ ’e brèmis” (Quel che non vuoi vedere / è il corpo di Gesù pieno di vermi.) e la sua voce che grida dalla croce è quella di un uomo chi nèmus intèndidi” (che nessuno sente). Ma tra la morte e la vita la demarcazione è sottile, quasi invisibile. Così come è sottile l’ieri con l’oggi. Tanto che è necessario abbassarsi (cioè farsi piccoli, dimenticando se stessi) per ascoltare i vecchi, per sentire la loro voce e le loro storie. Non saremmo nulla ora se non ci fossero stati “is antìgus” (gli antichi). Ed ecco che il passato si salda al presente. Diventa testimone di ciò che siamo e che facciamo. Allora “Tòcat a si scarèsci / su chi sciéusu, // castiài bèni, ascutài.” (Bisogna dimenticare / quello che sappiamo, // guardare bene, ascoltare.) perché solo ascoltando riusciamo a capire, forse, ciò che siamo veramente. L’incontro con la tradizione diventa un incontro con la poesia che si fa, ipso facto, garante del sapere. Infatti:Su fuéddu chi circas dd’a’ cuàu / pòdit essi in su còru  // su pipìu ch’ìa’ domandàu / a nonnu sùu: poìta // no mi cantas a mèi puru / su chi cantas a sólu?” (La parola che cerchi l’ha nascosta / forse nel cuore // il bambino che aveva domandato / a suo nonno: perché // non canti anche a me / quel che canti da solo?) Come in un’orchestrazione sapiente l’ultima lirica si ricollega alla prima. La poesia è linguaggio, è lo strumento che fa vibrare l’animo riempiendo il silenzio, o il vuoto, di immagini e di sensazioni. La poesia travalica il tempo mettendo in corrispondenza episodi e persone lontane, miti e leggende, tradizioni e culture. Sebbene, alla fine, non ci sia risposta certa al dolore e alla morte, la poesia si ostina ad esserci, a seguirci, a renderci consapevoli e a porci pertanto continue interrogazioni che rimarranno senza riscontro: it’e’ custu bisóngiu / de iscrìri?” (che cos’è questo bisogno / di scrivere?)

 Enea Biumi

lunedì 7 novembre 2022

Andrea Rompianesi, Tracce di pellicola da film sulla costa di ponente, Book Editore, Riva del Po, 2022, € 15,00


 

C’è sempre nell’opera di Andrea Rompianesi, sia in prosa che in poesia, un elemento filosofico che lo contraddistingue. In questa nuova silloge l’autore si cimenta apparentemente con fotogrammi come da film d’essai, ma al di là delle immagini emerge chiaramente una diagnosi, ora estremamente realistica, ora ironica, ora sarcastica, ora sentimentale, che richiama, in maniera più o meno esplicita, quello che Heidegger in Essere e Tempo affermava: il bisogno ontologico di ricercare la natura costitutiva degli oggetti a partire dal soggetto. Lo stesso Husserl aveva indagato la soggettività in relazione agli oggetti. Non a caso in una nota finale, che non va sottovalutata, l’autore rivela che “l’ambientazione di questo testo ha trovato i caratteri nel dato autobiografico, nel completo coinvolgimento d’autore. La costa di ponente è quella ligure di Diano Marina, vicino ad Imperia, con una particolare attenzione alla località di Sant’Anna dove si trova l’Hotel Arc en Ciel, dimora di passate soste nel periodo dal 2002 al 2014.”

Ciò che sta a significare questa postilla, estremamente personalistica, permette, a mio avviso, di ricostruire una lettura che va al di là dell’esperienza soggettiva di una vacanza sulla costa di ponente. L’aver insistito e sottolineato, si può dire con nome e cognome, costa ligure, Imperia, Diano Marina, località Sant’Anna, Hotel Arc en Ciel, periodo dal 2002 al 2014, mira a spostare l’accento dagli avvenimenti e dalle cose, come, in artiglieria, avviene con l’uso del falso scopo: inquadro un campanile, ad esempio, ma non sparerò su di esso, il campanile è semplice punto di riferimento.

Ecco allora che gli oggetti si materializzano nel soggetto, lo scrittore, il quale diventa per ciò stesso mezzo importante e tramite di riflessioni e speculazioni attorno a ciò che la vita impone e oppone. Già nella prima pagina il percorso sembra ormai tracciato. Ci sono segni evidenti di aspettativa e di novità.

“Il buio della notte è leggero, impalpabile, atteso ed aperto alla consolazione del mare immobile.” Il buio rappresenta l’animo dell’autore che attende risposte da chi, come il mare, rimane apparentemente immobile. Ed è solo l’inizio. Nel prosieguo il “particulare” continua ad inseguire lo scrittore come un’ombra: lo slargo, il parcheggio, le case, i corpi seminudi, gli scalini, la spiaggia, le tazzine, i bicchieri e via dicendo. Il tutto, poi, impone un viaggio a ritroso nel tempo e costringe a ripassare il passato e a ripensarlo. “Penso ai tanti viaggi compiuti in passato; a come il movimento sia stato adeguata necessità di una natura ipercinetica, ma anche interessata a toccare fisicamente ciò che diciamo altro.”  

La costa di ponente assume quindi, sotto un certo aspetto, il valore e l’importanza che per Proust ebbe la sua madeleine. Non dimentichiamoci che in una silloge precedente di poesia Rompianesi ha pubblicato proprio un volume dal titolo “Metrò Madeleine”.

In tal modo il viaggio nel passato rappresenta un momento di autoanalisi, essendo il viaggio, da sempre, un topos della letteratura che serve ad approfondire non solo se stessi, sibbene il mondo che ci circonda. La riflessione porta dunque alla conoscenza, riscopre quella parte di noi che non sempre emerge, chiarifica scelte ed abitudini tanto che ci addentriamo sempre di più in quell’impalpabile groviglio filosofico necessario per ripartire il giorno dopo, magari con gli stessi gesti, le stesse volontà, gli stessi errori, ma più consapevoli.

Sotto quest’ottica l’introspezione coglie necessariamente ciò che sta più a cuore all’autore: la filosofia. “Una credenza popolare ritiene che la filosofia sia disciplina astratta; niente di più lontano dal vero. La filosofia è di una concretezza assoluta… non solo gli enti, le cose, sono… ma l’essere stesso, in quanto tale, è.” E per dimostrarlo l’autore fa sì che, immediatamente, il pensiero divenga oggetto che, momentaneamente, si incarna in una madre bionda, di una magrezza anoressica, che scende da una vettura rossa accompagnata da tre bambini tanto identici da sembrare cloni. Più tardi gli oggetti saranno la bicicletta, i chioschi con pareti rugginose, un bar, il piccolo market, un complesso alberghiero.

La realtà, il concreto, l’oggetto: tutti elementi riconducibili ad una filosofia dell’essere e che diventano altrettanti simboli di un’esistenza meditata: una specie di correlativo oggettivo montaliano che si traduce in una molteplicità di slide o fotogrammi su cui posare lo sguardo critico e imparziale, vista l’estrema soggettività dell’esperienza. “Il cielo terso conduce a rinnovare le immagini di altri luoghi, rivisitati, forse reinterpretati anche, come vere sequenze.” 

L’insistenza con la quale Rompianesi propone la visione del paesaggio circostante impone comunque una meditazione, che ipso facto, diventa confessione. “Confesso… sì, voglio confessarmi” e nella confessione una preghiera: “Non sappiamo né il giorno né l’ora… dunque dobbiamo stare pronti, con le lucerne accese.”  La fede dell’autore si consolida mentre prosegue il cammino e “l’attenzione elude la morte; ma quest’ultima non è che una puntura di spillo, talmente rapida da trasformarsi in sollievo.”

In questa disanima in cui prevale l’argomento ontologico, cosmologico, teleologico, si inserisce un elemento da non sottovalutare, ancorché in secondo piano rispetto al resto: l’attenzione linguistica, dimostrata dal fatto, ad esempio, di scrivere vólto per indirizzare immediatamente il lettore ad una giusta ortoepia, o di scrivere spazî, con l’accento circonflesso, per evidenziarne il plurale, e soprattutto il voler stigmatizzare, in una specie di diascopia, il vizio tipico italiano di utilizzare vocaboli stranieri (in prevalenza inglesi) per cui “siamo diventati, da tempo, vittime felici di un colonialismo linguistico approssimativo e insopportabile.” Per questo, ironicamente, lo scrittore conclude affermando di voler approfondire lo studio dell’inglese solo “quando la maggioranza degli inglesi si impegnerà in una acquisizione approfondita dell’italiano.”

Tanti sono i momenti di ripensamento, tante sono le occasioni che attraversano la vita apparentemente oziosa o da spiaggia, come si suol dire, presenti in queste pagine che offrono al lettore emozioni poetiche e ragionamenti filosofici. Siamo di fronte ad un lavoro di sintesi in cui la poesia diventa prosa e la prosa si fa poesia. Ed alla fine, come in una pellicola, le numerose tracce che l’autore ci propone ci permettono un’analisi del presente, o per lo meno, il tentativo di analizzare e ripensare l’esistenza in un raffronto confronto con le immagini e le riflessioni qui esposte.

“Allora ci sarà, forse, in qualche piccolo anfratto delle nostre definizioni, categorie, speculazioni, sillogismi, il tenace tempo noetico che, compiendosi, assolverà il presente per farsi comunione; ci sarà, infine o all’inizio, la piena coincidenza di essenza e di esistenza.”

            E quasi a sviluppare un trait-d’union, come fosse una legatura musicale, tra la prima ed ultima pagina, in pieno stile e riconoscimento cinematografico, con una vena sottilmente ironica, ecco apparire una sagoma umana, un uomo, un amico, sempre più somigliante a Jack Nicholson (…) ancora più somigliante a Jack Nicholson.

 

Enea Biumi

venerdì 4 novembre 2022

Emiliano Pedroni, Le tracce rosse, Lampi di Stampa, Vignate, € 14,00


 

Con un linguaggio asciutto e diretto Emiliano Pedoni affronta un thriller che si basa su alcuni presupposti del paranormale e che, a tratti, diviene un vero e proprio noir. La vicenda racconta di un serial killer psicopatico che massacra donne per una sua frustrazione personale.  La storia, che parte da una visione iniziale di un ragazzo sensitivo, si fa via via più stringente e coinvolgente per arrivare nelle pagine finali alla risoluzione del caso.

La ricerca del mostro, come viene giustamente definito nel romanzo, sarà condotta dalla detective Collins che si avvale del supporto dello sceriffo Morris ma soprattutto delle precognizioni di Ethan, il ragazzo che, attraverso improvvise e in principio non volute visioni, farà riaprire il caso di una fanciulla scomparsa. Purtroppo nel corso delle indagini si aggiungeranno altre fanciulle orribilmente trucidate. E gli indizi raccolti, anche attraverso messaggi inviati tramite una vecchia Remington, non serviranno nell’immediato a stabilire e scovare il vero criminale. Anzi aiuteranno a sviare le indagini. Il tutto verrà guidato però da un segno: delle tracce rosse (da qui il titolo) che condurranno gli inquirenti, alla fine, alla scoperta del colpevole.

Interessante, oltre il giallo in sé, è la “conduzione binaria”, come l’ha denominata nella presentazione del libro lo stesso autore. Cioè, quando viene presentato il killer il capitolo presenta il simbolo dell’omega (Ω), quando si avviano le indagini la pagina mostrerà il simbolo dell’alfa (α), quando Ethan ha le visioni il simbolo diventerà quello dello Yin Yang (  ) che, come tutti sanno, rappresenta il perfetto equilibrio dei poli opposti. Se è facile intuire che omega sta ad indicare il male e la sua fine mentre l’alfa rappresenta l’inizio del bene e la sua vittoria, meno agevole potrebbe essere, ad un primo impatto, cogliere il significato dello Yin Yang. Quali saranno gli opposti presenti nel sensitivo Ethan?  Da una parte abbiamo la visione del male (la ragazza uccisa) e dall’altra la realtà del male (l’assassino): il paranormale e il normale. Questi due elementi, uniti, rappresentano a mio avviso una specie di ossimoro retorico attraverso il quale i protagonisti saranno in grado di arrivare al bene, cioè alla cattura del colpevole.

La detective Collins, lo sceriffo Morris, gli amici di Ethan, Mark e Timothy, la famiglia stessa del ragazzo veggente saranno coinvolti in una ricerca che avrà le caratteristiche di una contrapposizione inquietante e affannosa volta a frenare il serial killer che abilmente si nasconde nella contea di Mammos. I tratti realistici di questa narrazione sono una connotazione positiva e contribuiscono a creare quell’atmosfera adatta per un giallo che non disdegna aspetti psicologici e domande esistenziali. Non per nulla l’esergo iniziale ha un ben preciso indirizzo: l’epitaffio di Sicilo che così sentenzia: “finché vivi, splendi, non rattristarti di nulla: cosa breve è la vita. Il tempo volge presto alla sua fine.”

Ecco, il thriller di Emiliano Pedroni ci porta, nonostante la drammaticità del racconto, allo splendore della vita. Ci consegna alla vita stessa. L’impressione è quella di essere inseriti in un sogno. E, sebbene in questo sogno ci sia la presenza del male, alla fine rimaniamo del tutto sollevati perché il bene sopravanza sul male. E si respira un’aria del tutto nuova e purificatrice.

Oggi si parla di metaverso, di realtà virtuale. La lettura, da secoli, ha anticipato questo mondo e questa moda attuale. Immergersi nelle pagine di un libro significa abbandonarsi e abbonarsi all’immaginazione, significa lasciarsi andare a sentimenti ed emozioni che in altri contesti, forse, faremmo difficoltà a sostenere e a mostrare. E il leggere e – per alcuni – lo scrivere, come sostiene lo stesso autore, è l’evasione dalla realtà, è lo scrollarsi di dosso i panni del quotidiano per rivestire, come proponeva Machiavelli, quelli curiali: è un proseguire oltre, perché, appunto, il tempo volge presto alla fine. 

 

Enea Biumi

martedì 25 ottobre 2022

Anna De Pietri, Nove stelle più una, Macchione Editore, Varese, 2022, € 15,00


 

Stella” è il trait d’union dei dieci racconti della recente pubblicazione di Anna De Pietri. Ma esiste un altro filo conduttore non tanto nascosto che procede dalle prime alle ultime pagine. Ed è quello che unisce le storie dei vari personaggi riproducendo nomi e situazioni che il lettore ha trovato nei racconti precedenti.  In modo tale che ci pare di leggere un unico romanzo, come se la trama si svolgesse in una specie di spirale in grado di agganciare un elemento per riposizionarlo altrove. Si è proiettati, in altre parole, entro una costellazione di avvenimenti tutti legati tra loro, in primis dalle stelle, in secundis da alcuni personaggi. A ciò va aggiunto una buona tecnica narrativa, a mio avviso “all’americana” (tanto per intenderci: Fitzgerald, Hemingway, Kerouac) che derubrica fatti e azioni quasi sempre borderline e con protagoniste donne, comunque convincentemente avvolgenti e fotograficamente inquadrati. Anche la descrizione delle varie figure, protagoniste o no, dei luoghi, dei sentimenti che si intrecciano tra loro, appare del tutto sicura e decisa tanto che si viene stimolati nel prosieguo della lettura, o come volgarmente si dice “per vedere come va a finire”, e, senza nemmeno accorgerci, arriviamo alla fine delle pagine consapevolmente soddisfatti. L’autrice scandaglia i particolari che costituiscono l’originalità dei racconti infondendo agli stessi l’autorevolezza del “verosimile”, ben chiarito nella nota finale in cui sostiene giustamente di non voler porre nessun limite alla propria fantasia. Le storie infatti si snodano in modo del tutto naturale e partecipano dei sentimenti comuni a tutti noi. Anna De Pietri dispone di un repertorio che esplora l’intimo umano attraversando e perscrutando paure, ansie, gelosie, amori, e via dicendo, che sono esattamente condizioni legate alla psiche umana in determinate esperienze. L’impressione che se ne coglie è quella di trovarci di fronte alla vita vissuta da altre persone ma che, come in uno specchio, riflette in parte o in toto, ciò che rientra nella nostra sfera emotiva. Ma non solo nostra. Alcuni episodi appartengono a realtà distanti da noi che si traducono comunque, ipso facto, in una comprensione e compressione collettiva e corale che, sebbene lontana, non può non scuoterci e quindi appartenerci. Infatti, protagonisti e deuteragonisti – semplifico per non essere troppo didascalico – si muovono sotto un cielo stellato che li avvolge, colti alla ricerca di se stessi. Lo rivela l’incipit del terzo racconto, “La visita”, in cui l’autrice, attraverso il pensiero della protagonista, afferma “Guardarsi dall’alto fa un po’ impressione. Non siamo abituati a vederci da quelle angolazioni che sfuggono ad ogni specchio”. Ci si perde, allora, ci si sente un po’ smarriti. Ma ci si perde per potersi ritrovare, in noi o negli altri. E lo smarrimento ci costringe ad indagare, a proseguire il viaggio (non per nulla proprio il primo episodio si intitola “Il viaggio” ed il viaggio, da sempre, è un topos della letteratura) anche se le incognite sono tante e i timori non cessano. La sicurezza sta nelle stelle che ci guardano, ci conducono, ci rafforzano. Sono un collante nella nostra coscienza e conoscenza. “Non ho la minima idea di dove sto andando – afferma Fatimah, una bimba che viene fatta fuggire dalla madre nella speranza di mettere fine alla miseria della sua esistenza – ma spero che almeno sia un posto sicuro. Mi piacerebbe andare a scuola e non dover lavorare. Mi piacerebbe giocare quando ne ho voglia. Chissà, se almeno una di quelle stelle ha sentito la mia voce forse andrà così.” Queste pagine di Anna De Pietri ci raccontano di noi stessi alle prese del nostro viaggio – esterno ed interiore – per una maturazione in progress, attenti a non perderci in futilità, ma costretti ad una riflessione che si fa vitale e inderogabile. Le stelle sono anche questo. Un momento per calarci in noi stessi. Un passo verso un miglioramento spirituale. Da farsi però non con la fronte aggrottata e pensierosa, bensì con estrema leggerezza e naturalezza, in un gioco letterario costruito con sapienza e abilità, consapevoli che si può meditare non solo con le lagrime e il rimbrotto, ma anche col sorriso e il perdono, a seconda dei casi che la vita ci presenta, reali o surreali, piacevoli o drammatici, affascinanti o apprensivi.

Enea Biumi

venerdì 7 ottobre 2022

Alberto Mori “Dettagli Fuori Campo” (Fara Editore, 2022)


 

Il dettaglio è innestato nella rapidità fluida dello sguardo che percepisce, registra, comporta le sezioni e le tonalità evidenti nella compostezza della collocazione in spazi adibiti a scenario. Già il primo testo di questo esito di Alberto Mori, poeta e performer dei non luoghi urbani, “Dettagli Fuori Campo”, la poesia che avvia la prima sezione annuncia una versificazione calibrata nella tenuta delle strofe. Culmina aprendosi un varco, l’espediente pronto a raccogliere il minimo, quotidiano, concreto evento: “Avanzando nel ronzio acuto/ il taglio dell’affettato/ deposto disteso/ a rilascio della pinza/ ricopre il foglio”. Alberto Mori scolpisce la realtà togliendo il prevedibile e rendendo nitido il particolare anche periferico ma svelante. Ci sono accorgimenti graficamente incisi sulla pagina a rivelare le fissità inagibili, le distinzioni dei caratteri affioranti dalle luminosità in evento, con “Intermittenza fioca/ d’arancione diluito”. Il minimo accadimento è conforto contestuale a vocazione d’argine per la difesa occorrente, quando l’episodio rischia d’indicare l’eclissi ontologica. La risposta di Mori è contingente, materica, ostinata nella iterazione dei referenti; comporta l’azione dicibile, la risposta provvisoria ma tangibile. Poi, però, qualcosa insinua il dilemma e il segreto; “Nel buio nascente/ appaiono due pianeti/ allineati in segmento cosmico”... dove l’evanescenza tace e allora si dispone una progettualità onerosa, una configurazione evoluta dalla prossimità estensiva, come “Quello che era stato/ oppure poteva essere// Spazio esteso/ Pianura percepita”. E fuori campo continuano a scandirsi i passaggi alle attenzioni, nella seconda sezione del libro, dove gli anfratti tenui sono opposti ritagli alla condensazione condotta oltre i sintagmi diffusi, operanti nel solco del commento fulmineo, intonato sulla prospettiva di un cenno suggestivo all’evento reso tale, composto nel fotogramma: “Corpo per aria sola/ Respiro risacca mare”. Molti gli elementi e i temi della poetica di Mori che qui ritornano e rimarcano la centralità del passaggio o, meglio, della successiva sosta concentrata nella ricezione sensoriale capace di trasmettere sussulti episodici. Le tensioni vitali rimarcano l’ossessiva presenza delle cose che ritornano, della fisicità acquietata nella posizione inerente a ciò che appare. L’apertura indugia su prospettive ritratte ed estrapolate al fine di una evidenziazione concentrata sul dato colto e individuato come inquadratura: “Tempo limite d’orizzonte/ La ripresa in campo lunghissimo/ avanza nel presagio della prima pioggia”.Richiesta che Alberto Mori pone al reale di un contesto colmo di effetti stimolanti energie che il poeta trasforma in indizi linguistici capaci di far emergere la parola esatta; qualcosa allora si rifletterà nell’oltre che si origina dalla calibratura attenta del verso breve.

                                                                                                           Andrea Rompianesi

 

 

Davide Racca “L’ora blu” (Anterem Edizioni, 2022)


 

Perché blu l’ora? Perché l’attesa nel frastuono muto degli elementi, della condensazione accumulante effetti percorribili e tardi? Così incespica l’accorrere ai dettagli, ai disadorni passaggi delle travi. Ma poi è ondivaga risposta la permeante postura che incide il solco nella traccia dell’ora. “L’ora blu”, appunto, è il titolo dell’esito poetico di Davide Racca. Le corrispondenze si accumulano in un tentativo linguistico arduo e distinto, materico e abissale. Attonito conduce il mirabile esordio della domanda inesausta, d’accenno e riprova, a desiderio d’intero. E l’intero, per sua natura inalienabile, non può esserci restituito dalla morte, in quanto essa è assenza e l’intero invece richiede ed esige una presenza assoluta...”le dita aperte/ scheggiate/ la morsa, le lunghe stasi/ (e si comincia sempre/ a ricominciare)”. Davide Racca chiede una direzione d’alba, una distrazione dai cardini, gli estremi riproposti in sentenze acquisite, nello iato sospeso, “o un punto qualsiasi/ fuori del mondo”. Attraverso la solidità dei frammenti, il percorso tende al senso, vocazione dell’ortodossia filosofica che non può certo ignorare la tensione all’essere e, quindi, la domanda metafisica (da troppi fronti messa a lato per deformazioni ideologiche). Certo la luce individuata da Racca è “rabbiosa tra i solchi”, imprime sonorità di sinestesia occhieggianti il diradarsi di mutamenti nella peculiarità dei corpi fisici. Così “un brivido sul dorso dell’acqua/ rompe la linea degli argini”; come zone sottratte ai deserti se non per accumulo di sedimenti e rilasci, cedimenti perturbanti in odore di miscele fonetiche essenziali nella verticalità dei versi. “Quando lo spazio si spezza/ e tutto finisce (come tutto/ finisce) nell’eco// ecco/ steli ricrescono...”; l’ora acconsente al blu della sera che inoltra la persistente richiesta in dimora costante e caparbia. Quell’attenzione alla reiterante analisi di partizione in essenza ed esistenza, in possibilità e attualità, continuamente riaffermata e ridisegnata in ulteriori accezioni (un riferimento è, ad esempio, la riflessione di Giorgio Agamben). Davvero, in questa fase, nel lavoro di Racca, è ben visibile il senso del fare poesia e la natura più intima della poesia stessa quale ricerca nel linguaggio. Realtà che abita lo spazio della pagina e coniuga le espressioni significanti. Oltre il dato percepito, l’accumulo sonoro è intarsio nello sforzo scritturale coniugato alla vocazione evocativa che si libera di scorie superflue e seleziona, nella dimensione assertiva, l’intelaiatura minerale. C’è un silenzio di ere, di conduzioni memorabili, di “un tocco di cosa o/ cosa non sai”, attraverso la costante percezione del pensiero. E ci si muove all’interno di uno spazio indefinito del prima o del dopo; in evenienza solitaria e fragile nei risvolti del protrarsi, quando “del corpo della lingua/ non resta che mutamento/ e pietra”. Ma Davide Racca immette nei versi un sibilare accorto, sapiente, composto nella postura dell’osservatore silente che detiene l’opzione di un correlativo prosciugato ma non inerme, capace di tratteggiare in tale esito un imprevisto, riuscito e convincente effetto dove lo stato in luogo è maturo tracciato linguistico; composizione che sembra filtrare elementi e atmosfere quasi fosse avvenuto un precedente passaggio nella prosa di Jean-Philippe Toussaint.

                                                                                                         Andrea Rompianesi

mercoledì 5 ottobre 2022

La maestrina del Copacabana e altri racconti, Genesi Editrice, Torino 2021

 


La maestrina del Copacabana e altri racconti: quadri di provincia disegnati con realismo e ironia da Giuliano Mangano.                                                      

di Gianfranco Gavianu

La rappresentazione realistica, partecipe e a un tempo disincantata,  della concreta realtà della nostra regione costituisce un tratto costante della produzione narrativa di Enea Biumi, pseudonimo di Giuliano Mangano, artista versatile, prolifico, amante della musica e del teatro, autore non solo di racconti, ma anche di poesia in lingua e in dialetto bosino,  una produzione molteplice di cui in questo giornale ho dato altre volte conto.

Per la casa editrice Genesi di Torino, nell’aprile dello scorso anno, Biumi ha pubblicato un volume di narrativa dal titolo La maestrina del Copacabana e altri racconti (pp.127, €12,50). Il libro è una raccolta di cinque racconti brevi: oltre a quello che dà il titolo, ne fanno parte: Bocciofila Cartabbia, Una corolla di tenebre, Aristide Giovanni  Principe Turibbio,  Il Windsurf. Evidentemente l’autore ha voluto conferire un particolare risalto al primo di questi racconti, con cui non a caso il libro si apre. La vicenda, ambientata in Brianza negli anni settanta da un fatto effettivamente accaduto ovviamente rielaborato dalla fantasia dell’autore, si incentra sulla figura  di Schilly  una maestrina, il cui nome molto prosaico è Nuccia Aliverti. La giovane insegna  con zelo e con una condotta irreprensibile in un  istituto di suore il Pio Istituto del Sacro Cuore di Gesù. Stanca di una vita  scandita dalla triade casa-scuola-chiesa, superando le resistenza di una madre oppressiva, Nuccia, confortata dall’amica di gioventù Corinna, bruscamente decide di cambiare radicalmente vita: chiede alla Preside un anno sabbatico e inizia a fare l’ entraineuse in un locale notturno: il Copacabana. Antonio, un vecchio scapolo non certo attraente, (grassoccio, calvo e zoppo), da tempo innamorato di lei, la incontra nel locale, le fa delle goffe profferte d’amore ma viene rifiutato risolutamente. Lo sventurato Antonio, per la frustrazione subita, cova un cupo rancore e si vendica scrivendo un livido articolo che trasuda di ipocrita moralismo denunciando la duplice vita di Nuccia – Scilly : insegnante-entraineuse, in nome dei valori della santità della famiglia, dell’educazione dei giovani…. La voce narrante è anche personaggio del racconto che suona nel locale dove Scilly si esibisce ed è portavoce del punto di vista critico e demistificante dell’autore. Compaiono anche altri personaggi disegnati con attenzione  quali suor Arianna, la preside dell’Istituto, Genni, la cantante del Copacabana, la madre di Nuccia, l’amica Corinna, la maîtresse Dolores che, con la  sua lingua ibrida che mescola italiano, francese, spagnolo, richiama la figura di Madame Pace del pirandelliano Sei personaggi in cerca d’autore: la dubbia moralità di costei vede nello scandalo che travolge Nuccia un’occasione per far soldi: un business dice l’autore. Il mondo che emerge da queste pagine è  dominato dall’interesse economico e da una feroce, soffocante ipocrisia che opprime e determina l’ ambiguità e la scissione interiore della protagonista. La  trama ha una conclusione aperta che lascio al lettore la curiosità di scoprire.

Gli altri racconti ci presentano argomenti, situazioni, personaggi a volte legati alla vita della nostra provincia apparentemente tranquilla in realtà percorsa di oscuri drammi, a volte tratti dalla diretta esperienza umana dell’ autore seppur sapientemente trasfigurata. Di una fosca vicenda d’amore, tramata da interessi economici e di viscerali legami di sangue che si conclude tragicamente ci parla la vicenda narrata in Bocciofila Cartabbia; come una sorta di autobiografia esistenziale e letteraria si presenta Una corolla di tenebre. Decisamente complesso, drammatico e percorso da tensioni contrastanti tra ironia e tragedia è  Aristide Giovanni Principe Turibbio, dove il protagonista, dal nome altisonante che dà il titolo al racconto, narra  la sua catabasi infernale, la sua tragica discesa verso la morte, la sua angosciosa agonìa, rievocando a ciglio asciutto, senza compiacimenti sentimentali, i momenti essenziali della sua vita. Nella prima parte la voce narrante rievoca la giovinezza, gli amori, i compagni della vita goliardica di provincia: una rassegna di tipi umani disegnati con un gusto e una sensibilità che rievoca certi racconti di Piero Chiara, e un celebre film di Fellini: I Vitelloni. Ne consegue  che la scelta  di aderire alla lotta partigiana fu per il protagonista, come per molti giovani della sua generazione, in parte frutto del caso e non ebbe nulla di eroico o di astrattamente ideologico: la rappresentazione ad esempio di uno scontro coi nazifascisti è condotta con distacco ironico, con un punto di vista simile a quello del Fenoglio dei Ventitré giorni della città di Alba  o di un Calvino del Sentiero dei nidi di ragno. In questa discrezione, in questo pudore privo di ostentazione è, d’altra parte riconoscibile, una superiore dignità etica. Il racconto che conclude il libro, Windsurf, insiste ancora sull’ipocrisia della vita di provincia, narrando la  squallida vicenda  di Adelaide che si rassegna a un matrimonio riparatore dopo aver concepito un figlio con Windsurf, soprannome del giovane, aitante dongiovanni di cui s’era improvvidamente innamorata.

Giuliano Mangano ci propone dunque una serie di racconti  che, per l’agilità narrativa, la varietà di tipi umani che li popolano e per l’ironia disincantata che li percorre sollecitano nel lettore  un indubbio “piacere del testo”.

giovedì 25 agosto 2022

Dora Mauro, Vagando, Genesi Editrice, Torino, 2021


 

Vagando è diviso in due parti: acque e sguardo. Nella prima sequenza (acque) Luca è il protagonista di un racconto scandito attraverso momenti topici che sono: preludio, primo movimento, intermezzo, secondo movimento, finale. La seconda sequenza (sguardo) è invece un coup d’oil molto attuale, generato dalla pandemia e da ciò che ci ha costretto e lasciato.

Se non ho male interpretato Acque, la connotazione che Dora Mauro vuole imprimere è una narrazione preoccupata di cogliere gli aspetti psicologici e i risvolti spesso ambigui della realtà quotidiana passata al vaglio con gli occhi del protagonista. Le situazioni in cui Luca si viene a trovare sono apparentemente semplici, offerte al lettore in maniera chiara e trasparente, organizzate per moti dei giorni e delle ore, acquisite senza sottrarsi ad eventuali ambiguità di sorta.

Nel preludio si intuisce che il protagonista affronta una vita lontano dal paese natale e ne confronta istante per istante modalità e abitudini differenti. I toni sono quelli di una nostalgica infanzia, mentre i paragoni sono stemperati in una sorta di ascetica quotidianità, quasi una asettica considerazione sull’uso del vivere in un paesino disperso del meridione in contrapposizione al vivere “straniero”. Infatti il winstub sembra, ma non è, l’osteria conosciuta prima dell’emigrazione. Niente però è scontato, nulla è acquisito. Così come il rimpianto, nonostante tutto, non prevarica o impingua il tessuto narrativo.

Forse quello che Dora Mauro vuole trasmetterci è la volontà, come sosteneva Aristotile, di conquistare la felicità attraverso una normale esistenza: sono queste le riflessioni di Luca che si ritrovano anche nella sua prossemica e a dire il vero lo fanno assomigliare a un bambino che vuole assolutamente essere libero e che così si comporta nel segreto della sua cameretta ben sapendo che oltre quelle mura ci sono i genitori pronti ad intervenire e a rimproverarlo.

Ecco allora delineate e ridisegnate le sfumature psicologiche più liminari e complesse del protagonista. Nel primo e secondo movimento Luca vaga di paese in paese, tra amori e tradimenti, osserva e incamera situazioni e volti, ma quasi sempre si astiene dai giudizi, o per lo meno, rimane consapevole che la vita ci conduce spesso dove non avremmo voluto andare. La scrittrice sembra utilizzare, come da un palco teatrale, un binocolo col quale osserva e studia movimenti e atteggiamenti, anche i più piccoli o insignificanti – come quello di prendere il caffè, chiudere le persiane, leggere i cartelli indicatori, osservare il treno, odorare il profumo dei tigli.

È in questo contesto che si delinea il carattere di Luca come insegnante, il suo essere docente e il rapporto con la scuola, gli alunni, il preside. Quel mondo rappresenta in sintesi una dimensione esistenziale che si affaccia come in una scacchiera prestabilita, in una geometria di mosse e contromosse che prefigurano l’avvicendarsi dei destini: quello di Luca in primo piano e successivamente quelli di coloro che lo circondano in quell’agone misterioso e avvincente che è la vita.

 

 

Enea Biumi

lunedì 22 agosto 2022

Rosario Aveni, Accade, Genesi Editrice, Torino, 2020


 

La cifra costante della raccolta “Accade” di Rosario Aveni è il presente. Nell’architettura dei suoi versi è infatti possibile leggere quanto di reale succede (accade, appunto) senza sbavature retoriche o vani rimpianti. Tanto è vero che “in questa stagione/ rimpianti sono petali di fiori/ recisi dal vento”, vale a dire qualcosa destinata a scomparire, qualcosa su cui è inutile soffermarsi: meglio guardare a ciò che è vigente perché c’è chi “nasce e muore/ nel suo stesso divenire/ come la vita/ l’amore/ una farfalla/ dalla sera all’alba.”

Esiste allora un disegno, una specie di afflusso sensoriale, capace e determinato che riverbera l’attualità trasformandola in poesia. Rosario Aveni riesce a tessere versi in uno spazio temporale e geografico che coniuga fisicità e spiritualità in un ordine compatto e naturale, dove il pensiero si abbandona a punti pertinaci di riflessione – che Gros-Pietro chiama “moto perpetuo di una storia infinita” – come fossero sassi buttati nel lago atti a creare concentrici cerchi di emozioni.

Qui si abbandonano, dunque, le smagliature dell’anima, gli inganni del tempo, le reiterazioni di quesiti senza risposta, per ritornare ad ascoltare il peso dei propri passi, per non confondersi nell’irrazionale, attenendosi al rigore del quotidiano, l’unico in grado ancora di suggestioni poetiche al di là di mere fantasie o profezie.

“Il parco si svuota/ la gente torna a casa/ Resto seduto/ su questa panchina/ a contemplare / un tramonto radioso”.

Si tratta quindi di un percorso poetico che insiste su spunti, lacerti, agnizioni, trame, visioni che, come in un mosaico, si intrecciano, attraverso anche ad una serie di correlativi oggettivi, e dialogano tra loro offrendo al lettore abbrivii di forte impatto emotivo. Non altrimenti si comprenderebbero quelle “onde anomale di pensieri” o quel suo erigere “un muro/ fra me e il mondo/ convinto / che il mio spazio vitale / fosse illuminato dal buio/ In una notte senza stelle/ ritrovai/ l’aquilone e l’anima”. Allo stesso modo “tutto / appare più vero/al calar della sera”, e non sembri una contraddizione (il buio in effetti dovrebbe rendere tutto più incerto e misterioso). Contrariamente, invece, la sera rende più comprensibile il mondo, gli uomini, nonché “il cuore (che) pulsa/ effimeri attimi d’amore”.

In questo contesto non manca il desiderio dell’assoluto “anelo che ritorni/ l’angelo dell’alba/ per riprendere il volo/ raggiungere insieme/ il paradiso perduto/ sospeso nel buio”. Infatti, la contemplazione della natura o il ricordo che si fa vivo e pressante (“l’inevitabile avvenne/ senza rimorsi/ senza che alcuno/ lo venisse a sapere”) rimangono un passe-partout per segnalare, o in alcuni casi mimetizzare, il proprio ego (“ma gli occhi/ non mentono/ Riflettono la luce/ di chi sono”)

È necessario e opportuno, alla fine, segnalare il ritmo dei versi, adottato in forme brevi, senza punteggiatura, dove l’enjambement rientra come un intercalare espressionistico, in un modello stilistico musicalmente sciolto e convincente che fa da cartina di tornasole all’elaborazione e all’approfondimento contenutistico che rievoca transiti umani tra sofferenze e riflessioni, slanci e abbandoni, realtà e fantasia.

 

Enea Biumi

 

venerdì 19 agosto 2022

Walter Chiappelli, Sì, Genesi Editrice, Torino, 2021


 

La dinamica musicale contenuta nelle liriche di Walter Chiappelli fa sì che le sue liriche approdino ad un racconto che abbraccia la totalità dell’esistenza. Lo dimostra quel “Sì” che dà vita e senso all’intera raccolta. Siamo di fronte ad un’architettura volta non solo a costruire metaforicamente una meditazione ed una riflessione, laica o religiosa poco importa, bensì a delineare una ritmica attraverso assonanze e consonanze atte ad esprimere un respiro del verso e la sua profondità.

È come quando si ascolta una perfetta partitura che il direttore d’orchestra calibra e dirige attraverso pause, forti e piani, improvvise accelerate di tempo, virtuosi silenzi. Davanti a queste forme il contenuto diventa ipso facto comprensibilmente chiaro, adamantino. Ed allora, come in un susseguirsi di aforismi, riappare la forza della poesia.

“…snebbiare snebbiare/ verso dopo verso varie poesie / vagamente ermetiche / e sperare di scorgere raggi d’amore/ le ali della gioia a pieno volo”

Amore, gioia, speranza: ecco i pali sui quali viene consolidata la parola poetica che serve da faro per proseguire il viaggio, sebbene in alcuni momenti il dolore ed il male abbiano la capacità di sopraffare il bene e la felicità. Ed ecco a questo punto affacciarsi l’alchimia della fede che disgela e cicatrizza la vita.

Sono i testi di Chiappelli volutamente personali, ma nello stesso tempo trascendono il sé e si fanno portatori di testimonianze. Non c’è ambiguità, ma riflessione autentica. Non c’è retorica, ma capacità persuasiva.

“Il fuoco non incenerisce la luce/ né l’acqua può affogarla/ il dio sole raggia la sua verità/ sa che nessuna potenza palpitante / può spengerla o mutarla in menzogna”

Oltre alla gradevolezza e alla bellezza insite in queste liriche, dobbiamo notare anche il desiderio di ricerca della verità: non quella assoluta, filosofica, ma quella del quotidiano, dell’hinc et nunc, dell’attimo fuggente. Non a caso in una sua poesia l’autore dirà: “Fra 18 anni avrò cent’anni/ bel bersaglio se riesco a centrarlo…/ ma occorre che qualcuno/ con arco teso e con gran cura / lanci spero con gentilezza/ uhi, senza innervosire il dolore/ ch’è sempre all’erta e mai sazio”

Le domande e le constatazioni sono quindi all’ordine del giorno. Si susseguono ininterrottamente come un fiume in piena. Ci si chiede che cosa sia l’amicizia, la lealtà, l’amore (erotico o platonico), l’odio, che valore abbia il denaro: quesiti che spesso si risolvono in altri quesiti e paiono a volte come sequenze di pascoliana o leopardiana memoria, rivalutando ora le piccole cose nella consapevolezza della loro grandezza, ora le incognite esistenziali sul tempo e sul mistero.

Non mancano nemmeno nei testi di Chiappelli gli istanti propedeutici della natura che ci accompagna notte e giorno, che ci culla e ci ammansisce. Né viene meno il ricordo di tempi in cui povertà e inconsapevolezza non distruggevano affatto la serenità del vivere. Anzi la rinvigorivano e ne illuminavano il prosieguo.

 

Enea Biumi           

 

Adelfo Maurizio Forni, “Quel giorno” – “Kintsugi”, Genesi Editrice, Torino, 2021 – 2022


 

 

 

Il tempo è l’elemento che unisce e racchiude gli episodi di questi due pregevoli volumetti di racconti. Ma non il tempo tradizionale, come lo intendiamo noi principalmente (un prima, un adesso e un dopo), bensì un tempo del tutto soggettivo e intimo. A ben vedere si tratta di un cammino interiore orchestrato su situazioni esterne al limite del doloroso, della ricerca del meglio o dell’indifferenza sostanzialmente priva di una qualsiasi meta. Ciò che ne risulta è uno schizzo di concreta umanità trasmessa attraverso l’esperienza personale e diretta dell’autore, il quale ama però celarsi quasi sempre dietro un volto, un nome, un avvenimento. I vari riferimenti diventano quindi il teatro che investe il lettore e lo conduce come dietro le quinte alla visione di uno spettacolo in fieri facendolo spesso sentire partecipe e attore lui stesso su quel palcoscenico che è la vita.

In tal modo prendono vita e si distinguono i vari racconti in una specie di eidophor in cui si avvicendano i personaggi o, per meglio dire, i diversi tipi con una loro intrinseca peculiarità. I tanti quadri che si dipano, non in successioni strettamente temporali, appaiono simili a commensali che discutono e dissertano acronicamente in un eterogeneo simposium, ubbidendo solo al caso o per meglio dire alla fantasia e alla penna dell’autore che ne traccia i profili.

Non dobbiamo meravigliarci quindi se, in questo modus vivendi e operandi, sussiste sempre un adynaton che si spiega solo se si è compiuto quel passo, ci si è attenuti a quel tale desiderio, si è espressa quella parola o quel giudizio. Da lì non si può più retrocedere. È il fato, o chi per esso, che lo vuole perché ormai le scelte sono state fatte e non si può scappare.

I due volumetti parlano appunto di una data fondamentale. “È proprio quel giorno in cui abbiamo preso una decisione, o abbiamo ascoltato qualcosa, quando siamo rimasti folgorati, quando abbiamo scelto consapevolmente o meno se andare a destra o a sinistra, quel momento in cui ci siamo ritrovati vestiti in un altro modo e incamminati in un percorso che ha cambiato la nostra esistenza.”

Significativo, a questo proposito, è anche il passo tratto da Enrico V di William Shakespeare che recita: “chi non morirà oggi e vivrà sino alla vecchiaia, ogni anno, la vigilia, conviterà i vicini (...) Felici noi, noi pochi, schiera di fratelli.” Il che evidenzia e giustifica, rafforzato da un punto di vista letterario,  il coinvolgimento in un possibile e ideale banchetto di amici e lettori.

La struttura dei due volumetti offre quindi una chiave di lettura asimmetrica: da una parte, in un crogiuolo di avvenimenti che seguono e inseguono la coscienza, ci stanno e vivono e amano e muoiono i personaggi, dall’altra in un arco di tempo ben delineato si innestano le storie dei protagonisti. Già questa esposizione, a double face, si potrebbe dire, racconta che la realtà fattuale va introiettata e analizzata per segmenti, mai accettata per così com’è o come potrebbe apparire.

Ecco allora uscire come da un magico cilindro figure esemplari quali Freda, Peppino, Francesco, Anna, Oksana, Deo, Edoardo e via dicendo: tutti personaggi nati dall’esperienza di Forni e maturati in una specie di quaderno diaristico attento e scrupoloso. Lo stanno a dimostrare le varie date che l’autore inserisce all’inizio del racconto, nonché le note e le sottolineature in corso d’opera, che motivano la curiosità del lettore. Così inquadrate in una sorta di autoreferenzialità, le vicende dei protagonisti creano il substrato e l’humus che sono la ricchezza dei racconti.

In queste pagine siamo quindi portati a cogliere, insieme con gli attori principali, momenti di una vita problematica che si interroga sul proprio essere: momenti che sono al tempo stesso testimonianza e segno etico, ovvero schizzi di una umanità che si racconta attraverso un’esperienza propria e imprescindibile. Ascoltiamo vicissitudini che si intrecciano in volti   rintracciabili nella quotidianità: una grande partitura diretta e progettata dall’esperienza dell’autore, nel desiderio di trasmetterci momenti atti a renderci più sensibili e attenti, più riflessivi e savi, perché “chiusa una porta si apre un portone”.

Orgogliosamente Maurizio Adelfo Forni sottolinea che si tratta del suo nono libro. Romanticamente possiamo definirlo il suo nono figlio: una successione che non smentisce le sue capacità di scrittura, anzi le esalta e le affina. Lo scopo – sembra alla fine suggerire l’autore – almeno in questo scorcio di tempo, sicuramente non brillante né consolante, è quello di risorgere più “impreziositi”, insieme e in grazie dei racconti, secondo quell’arte che i giapponesi chiamano “kintsugi”, vale a dire abilità nel rimettere a posto i pezzi che possono essersi rotti o rovinati e farli rinascere a nuova e miglior vita.

                                                                                        Enea Biumi

             

martedì 26 luglio 2022

ANDREA ROMPIANESI "DA ERE RELATE" PUNTOACAPO, EDITRICE, PASTURANA (AL) 2022


Con “Da ere relate” Andrea Rompianesi si fa portavoce di una duplice concezione poetica. Da una parte la dicotomia prosa-poesia si frantuma per formare un unicum poetico, dall’altra la poesia avvalora l’apporto filosofico da cui ha scaturigine la weltamshaung dello scrittore stesso.

Non era semplice né scontato un simile procedimento, ma l’elaborazione avvenuta fa sì che il lettore si trovi di fronte ad una serie di riflessioni che lo conducono, attraverso puntuali specificazioni, ad un approfondimento di ciò che lega la razionalità e l’irrazionalità, la natura ed il suo procedere, il pragmatismo e il sentimento utopico.

“Se poi aristotelica voce insinuasse ciò che è assolutamente vero così anche assolutamente essere, condurrei in sommo grado il passaggio all’ambìto progetto di volo, di corale rinascente dilucolo.”

In questa breve estrapolazione di una frase si può avvalorare e quindi giustificare l’affermazione sostenuta poc’anzi. Non c’è chi non veda uno svolgersi stilistico di prosa poetica che si accolla e regge lo studio e l’introspezione filosofica. Se ciò non bastasse basta ricorrere al pensiero VII della seconda parte, riprodotto secondo uno schema poetico verticale (VII bis).

Lo stile si traduce ipso facto in un filo conduttore che ci trasporta a riconsiderare il criticismo kantiano non solo come momento più elevato del pensiero filosofico ma anche come punto di partenza che ha saputo o per lo meno ha cercato di superare il dogmatismo metafisico. Da qui si impone la conoscenza, o quel che ne resta.

“Ma più di ogni iato, torna il rigore del mio criticismo solerte, di più relativo, così da non porre verità spendibili da una ragion pura, ma concedendo il tono seducente del compromesso con la ragion pratica, necessitante l’imperativo categorico dell’ordine a dirsi la libertà personale termina dove inizia l’altrui.”

Non è un caso, come si vede, che l’exergum iniziale riporti proprio una citazione del grande filosofo tedesco, così come non è un caso che nella seconda parte della raccolta venga riportata una citazione di San Tommaso riguardante l’esistenza di Dio. Siamo su due fronti paralleli che si compongono e scompongono come un puzzle e che ci inducono a profondi ripensamenti: su noi stessi, sulla vita, sulla natura, sulle convinzioni e convenzioni.

Se riconsideriamo il titolo, che a prima vista può apparire criptico, ci accorgiamo allora che le ere sono il passaggio del tempo, del nostro tempo, del nostro sapere e conoscere, delle nostre incerte certezze. E quell’aggettivo relate (dal participio passivo del verbo latino referre) non sta solo ad indicare qualcosa cui si riferisce, bensì una relazione a 360 gradi con noi stessi e il mondo che ci circonda.

“(…) certo bisogna reagire, tornare alle cose. Riacquistare rapporto con i fenomeni, giungere alla visione d’origine, concedere attesa (supposta attenzione?) per coscienza intenzionale attraverso (mia cara) (e nel senso) di una epoché (sospeso il giudizio) (…) Intersoggettività trascendentale o insieme delle umane operazioni.”

Ed ecco allora la necessità di rivolgersi ad altro. Meglio ancora: ricercare il Supremo, ciò che non si percepisce se non con la fede, riconoscere che altrimenti è un fallire, un venir meno: cercare un aggrappo, chi ci sostiene.

“Il mio, a un punto, precipitare scomposto, turrito, avulso, nell’acquoso ristagno di una escatologica incognita, attempata ad angoscia. (…) Lo Spirito ha invaso il silenzio, sospinto l’acceso tumulto alzandolo in fede aperta, così come accolta, assunta. Da segno su pelle, su animo, inizia anche il tempo riflesso del cogliere il dato pensante che espone il pensiero. Fede e ragione… riamato.”

A questo punto sembra che ogni ostacolo sia stato rimosso. La filosofia ha offerto se stessa come Vestale sacrificale e sacrificata, la teologia ha guidato e ordinato il soccorso. Non rimane che andare “verso l’Assoluto trascendente/ (l’Essere divino è il suo stesso essere sussistente; gli enti hanno l’essere per partecipazione) // verso il Padre / «… come io vi ho amato…»”

 

Enea Biumi


giovedì 2 giugno 2022

Gianfranco Galante. Un nome, solo: Mario, il nome di "Nessuno", Scriptores, Varese, 2022


 

C’è una domanda posta alla fine di ogni capitolo (bisogna arrivare a pag. 124 per non più incontrarla; la ritroveremo poi come atto conclusivo del romanzo) ed è: “In pace?”. Se fossimo a teatro indicheremmo questa frase come un tormentone. Si chiamano tormentoni proprio perché tormentano, perseguitano gli spettatori o con lo scopo di suscitare risate, o con lo scopo di farli riflettere su ciò che sta avvenendo sul palcoscenico.

Ecco: quella domanda ripetuta a dismisura tende a farci soffermare sul protagonista, che a sua volta si interroga in continuazione. In effetti, la narrazione viaggia nell’inconscio di Mario per farlo emergere non tanto e non solo al lettore, ma soprattutto a se stesso. Non altrimenti si leggerebbero queste pagine se non come un tentativo di dare un senso alla propria vita.

Oltre tutto non è solo la pace il desiderio ultimo di Mario, bensì il riconoscimento di uno status. In effetti il protagonista sembrerebbe voler insistere su questo aspetto della sua esistenza. Sembrerebbe voler dire: la mia carta di identità è quella dove sta scritto il mio nome, il mio cognome, la mia data di nascita, il luogo, il mestiere, ma quello che io sono veramente dove sta scritto? Ed io stesso so chi sono veramente? Mi riconosco in questo Mario? Oppure sono qualcosa d’altro che nemmeno io so definire e ritrarre?

Si sente in questo rincorrersi di interrogativi la filosofia di un conterraneo di Galante: Pirandello. Certo è che Mario non cambierà identità come Mattia Pascal. Ma come Vitangelo Moscarda si sentirà stretto in una morsa di incomprensione e spesso di inguaribile delusione.

Mi rendo conto di entrare a man bassa nella coscienza del protagonista, nella sua autoanalisi minuziosa e precisa, di strappare il velo del segreto che tante volte ognuno di noi antepone agli altri (e rieccoci al già citato Pirandello: Così è se vi pare). Eppure Mario è quest’uomo interrogante, che guarda dentro di sé, che si autodefinisce – ingiustamente a mio avviso – nessuno. Si crede forse uno sconfitto? Un inetto come lo sveviano Zeno? Sicuramente non è un eroe, né lo vuol essere o diventare. Tanto è vero che alla fine il confronto non sarà solo con se stesso e la propria solitudine, ma con la moglie, che al ritorno del momentaneo esilio, riabbraccerà affettuosamente come non mai.

“Ciò che si racconta” sostiene il critico Vincenzo Capodiferro in Insubriacritica “è il proprio erlebnis, in un flusso vitale continuo, nel riflesso di un fiume eracliteo, ove è difficile ritrovare la posizione dello spettatore e del fiume: entrambi sono risucchiati nel flusso, in un flusso maggiore, come nei paradossi sulla temporalità, derivati dalle riflessioni di Mc-Taggart.”

Ed il protagonista per ben riflettere si allontana per un breve periodo da tutto e da tutti. Ricorda il passato, indaga su eventuali errori, analizza la propria esistenza in un turbinio di domande e di risposte.

“Mario amava sedersi, ogni tanto, sulla terza panchina in quella bella terrazza a strapiombo sul mare. Era una grande piazza arredata da palme e contornata dalle stesse. I blocchi di marmo, che ne creavano giochi geometrici per terra, la illuminavano con il suo bianco candore. Ed i ciottoli, a corredo, davano quel senso di antico e rustico al tempo stesso. La vista, oltre la poderosa ringhiera, poteva vagare a perdita d’occhio sul mare, sulla curva dell’orizzonte, su per il cielo od in cerca di vele che facessero sognare. Mario sedeva sempre solo. Quando si recava sulla grande terrazza, cercava i momenti del giorno in cui non ci fosse afflusso; i troppi turisti lo avrebbero disturbato.”

Seduto, solo, come sottolinea l’autore, sulla “sua” panchina del lungomare dove contempla estatico la natura, vede la propria famiglia, distante ma ben presente nel suo animo, ricorda gli amici, disvela i nodi del suo vissuto. E dopo questo isolamento volontario di meditazione e introspezione, in modo non del tutto sorprendente, Mario si accorge che il tormento non è solo il suo.

“Il vero è che, forse, anche a casa di Mario i familiari soffrivano i propri dubbi, patimenti, riflessioni e bisogno d’aria; bisogno di respirare. Ognuno di loro, forse, nell’intimo soffriva confusione, dolore e rabbia inespresse. Ognuno di loro però, Mario compreso, non può conoscere l’intimo dell’altro a fondo. È intimo, appunto.”

Ed ecco ritornare la domanda cruciale: in pace? Potrà alla fine dormire tranquillamente in pace? L’autore non ci offre una risposta, sebbene nelle ultime pagine venga descritta una riconciliazione familiare spontanea e solida. Ma questa pace sarà veramente duratura?

Come ogni romanzo moderno le risposte le può dare solo il lettore. Non si tratta però di cercare una morale, a mio avviso. Ognuno si costruisce come vuole o sa fare. Ugualmente lo farà quel lettore che Galante ha saputo catturare pagina dopo pagina attraverso un turbinio di interrogazioni per nulla scontate e che danno il senso all’esistenza, a quella Weltanschauung tanto cara ai romanzieri mitteleuropei del novecento.

 

Enea Biumi                                                                                                

 

 

L'ANIMA nella Poesia di Prospero Cascini fotografata attraverso la PROPRIA, a cura di Salvatore Monetti

  La poesia, in molte delle sue forme, è molto più di un semplice esercizio linguistico o di un passatempo estetico. Essa è da meditazione. ...