giovedì 2 giugno 2022

Gianfranco Galante. Un nome, solo: Mario, il nome di "Nessuno", Scriptores, Varese, 2022


 

C’è una domanda posta alla fine di ogni capitolo (bisogna arrivare a pag. 124 per non più incontrarla; la ritroveremo poi come atto conclusivo del romanzo) ed è: “In pace?”. Se fossimo a teatro indicheremmo questa frase come un tormentone. Si chiamano tormentoni proprio perché tormentano, perseguitano gli spettatori o con lo scopo di suscitare risate, o con lo scopo di farli riflettere su ciò che sta avvenendo sul palcoscenico.

Ecco: quella domanda ripetuta a dismisura tende a farci soffermare sul protagonista, che a sua volta si interroga in continuazione. In effetti, la narrazione viaggia nell’inconscio di Mario per farlo emergere non tanto e non solo al lettore, ma soprattutto a se stesso. Non altrimenti si leggerebbero queste pagine se non come un tentativo di dare un senso alla propria vita.

Oltre tutto non è solo la pace il desiderio ultimo di Mario, bensì il riconoscimento di uno status. In effetti il protagonista sembrerebbe voler insistere su questo aspetto della sua esistenza. Sembrerebbe voler dire: la mia carta di identità è quella dove sta scritto il mio nome, il mio cognome, la mia data di nascita, il luogo, il mestiere, ma quello che io sono veramente dove sta scritto? Ed io stesso so chi sono veramente? Mi riconosco in questo Mario? Oppure sono qualcosa d’altro che nemmeno io so definire e ritrarre?

Si sente in questo rincorrersi di interrogativi la filosofia di un conterraneo di Galante: Pirandello. Certo è che Mario non cambierà identità come Mattia Pascal. Ma come Vitangelo Moscarda si sentirà stretto in una morsa di incomprensione e spesso di inguaribile delusione.

Mi rendo conto di entrare a man bassa nella coscienza del protagonista, nella sua autoanalisi minuziosa e precisa, di strappare il velo del segreto che tante volte ognuno di noi antepone agli altri (e rieccoci al già citato Pirandello: Così è se vi pare). Eppure Mario è quest’uomo interrogante, che guarda dentro di sé, che si autodefinisce – ingiustamente a mio avviso – nessuno. Si crede forse uno sconfitto? Un inetto come lo sveviano Zeno? Sicuramente non è un eroe, né lo vuol essere o diventare. Tanto è vero che alla fine il confronto non sarà solo con se stesso e la propria solitudine, ma con la moglie, che al ritorno del momentaneo esilio, riabbraccerà affettuosamente come non mai.

“Ciò che si racconta” sostiene il critico Vincenzo Capodiferro in Insubriacritica “è il proprio erlebnis, in un flusso vitale continuo, nel riflesso di un fiume eracliteo, ove è difficile ritrovare la posizione dello spettatore e del fiume: entrambi sono risucchiati nel flusso, in un flusso maggiore, come nei paradossi sulla temporalità, derivati dalle riflessioni di Mc-Taggart.”

Ed il protagonista per ben riflettere si allontana per un breve periodo da tutto e da tutti. Ricorda il passato, indaga su eventuali errori, analizza la propria esistenza in un turbinio di domande e di risposte.

“Mario amava sedersi, ogni tanto, sulla terza panchina in quella bella terrazza a strapiombo sul mare. Era una grande piazza arredata da palme e contornata dalle stesse. I blocchi di marmo, che ne creavano giochi geometrici per terra, la illuminavano con il suo bianco candore. Ed i ciottoli, a corredo, davano quel senso di antico e rustico al tempo stesso. La vista, oltre la poderosa ringhiera, poteva vagare a perdita d’occhio sul mare, sulla curva dell’orizzonte, su per il cielo od in cerca di vele che facessero sognare. Mario sedeva sempre solo. Quando si recava sulla grande terrazza, cercava i momenti del giorno in cui non ci fosse afflusso; i troppi turisti lo avrebbero disturbato.”

Seduto, solo, come sottolinea l’autore, sulla “sua” panchina del lungomare dove contempla estatico la natura, vede la propria famiglia, distante ma ben presente nel suo animo, ricorda gli amici, disvela i nodi del suo vissuto. E dopo questo isolamento volontario di meditazione e introspezione, in modo non del tutto sorprendente, Mario si accorge che il tormento non è solo il suo.

“Il vero è che, forse, anche a casa di Mario i familiari soffrivano i propri dubbi, patimenti, riflessioni e bisogno d’aria; bisogno di respirare. Ognuno di loro, forse, nell’intimo soffriva confusione, dolore e rabbia inespresse. Ognuno di loro però, Mario compreso, non può conoscere l’intimo dell’altro a fondo. È intimo, appunto.”

Ed ecco ritornare la domanda cruciale: in pace? Potrà alla fine dormire tranquillamente in pace? L’autore non ci offre una risposta, sebbene nelle ultime pagine venga descritta una riconciliazione familiare spontanea e solida. Ma questa pace sarà veramente duratura?

Come ogni romanzo moderno le risposte le può dare solo il lettore. Non si tratta però di cercare una morale, a mio avviso. Ognuno si costruisce come vuole o sa fare. Ugualmente lo farà quel lettore che Galante ha saputo catturare pagina dopo pagina attraverso un turbinio di interrogazioni per nulla scontate e che danno il senso all’esistenza, a quella Weltanschauung tanto cara ai romanzieri mitteleuropei del novecento.

 

Enea Biumi                                                                                                

 

 

Sandro Gros-Pietro, Le farfalle di Paciolo, Genesi Editrice, Torino, 2021


 

C’è sempre da imparare. Confesso che non avevo mai sentito nominare Paciolo e la partita doppia mi ha sempre lasciato molto indifferente. Ora, con questo nuovo romanzo di Sandro Gros-Pietro mi ritrovo ad indagare un mondo finora a me sconosciuto. Ma la curiosità suscitata non è solo per il frate Luca Bartolomeo de Pacioli, matematico ed economista, fondatore a detta di chi sa della ragioneria. Sarebbe gioco forza riduttivo. L’interesse e il desiderio di approfondimento sono dettati dall’andamento del romanzo costruito su due linee che si intersecano, si sovrappongono e divergono. Come farfalle, appunto, che svolazzano liberamente e diventano il simbolo di un desiderio inespresso di immortalità. Ma sono pure l’emblema di una trasformazione essenziale: da bruco, a crisalide, a farfalla. Allo stesso modo il protagonista si trasforma per autorigenerarsi e vivere parallelamente più vite: matematico nel cinquecento, contabile nel seicento, libertino nel settecento, imprenditore nell’ottocento, businessman a livello mondiale nel nostro secolo. In questo continuo susseguirsi di situazioni fra realtà e immaginazione, emerge evidente il gusto narrativo e direi giocoso di Sandro Gros-Pietro che ci conduce attraverso il tempo a considerare l’essere dell’uomo, il suo esistere, i suoi desiderata. Non ho citato a caso il gioco. L’autore si diverte a condurre il lettore in una specie di Monopoli in cui i dadi ci permettono di avanzare, ci costringono a regredire, ci obbligano a rimanere imprigionati. Ed ecco il ritorno delle farfalle che aleggiano su tutto e solleticano la nostra attesa, come in un thriller dove il desiderio di conoscere il colpevole ci agguanta e ci lega fino alla fine. È sufficiente dare una rapida scorsa ai titoli dei vari capitoli per renderci conto della struttura e dell’andamento del romanzo. Innanzitutto constatiamo la divisione in due parti. La prima, intitolata lI tempo è velocità, ci indica la duplicità della vita. Infatti i capitoli si alternano nella descrizione della storia di due amici l’uno opposto all’altro, (il primo, Leonardo Giribaldi detto Fax tutto intento ad arricchirsi materialmente, perché ama nel senso stretto della parola denaro e potere; il secondo, Giorgio detto Dindo, immerso nei suoi studi filosofici, lontano dalla meschinità egoistica del primo). In tale narrazione si inserisce Paciolo che si misura col tempo e nel tempo attraverso un magico elisir offertogli nientemeno che da Margherita Boninsegna compagna di Fra Dolcino. Ma il Luca Paciolo lo ritroviamo anche nella seconda parte del romanzo, dal titolo Docking, dove si rivela essere proprietario di un’azienda a livello mondiale per il commercio on line. I capitoli di questa seconda parte denominati in lingua inglese (per me di non immediata comprensione, ma appartengo alla vecchia scuola franco-italiana) tranne l’ultimo – Sherlock Holmes va a caccia di farfalle – rivelano, se fosse necessario, il carattere globale dell’odierna società (d’altra parte ci ricordiamo tutti la famosa formula su cui andava rifondata la scuola italiana: le tre “i” – internet, impresa, inglese). Ecco allora che in una sorte di magia il puzzle ha una sua collocazione. Si tratta di una critica non tanto velata ai mali di una civiltà malata nel profondo, una civiltà che si è malauguratamente allontanata dalle origini, che non sa e non vuole riconoscere il bene, che sostiene la propria sopravvivenza sul principio del più forte, del più furbo, del più accentratore. Anche il linguaggio, a un certo punto, fa prevalere quello odierno, fatto di strappi o di segmenti, rispetto a quello classico più levigato e controllato, con un pastiche, che va oltre quello utilizzato nel secondo novecento, per incentrarsi quasi totalmente sulla mistica del tecnico e sull’esposizione di una coprolalia che non si arresta nemmeno tra coloro che dovrebbero essere i migliori. La maestria di Gros-Pietro sta nel saper dosare attentamente termini ed espressioni in modo tale da non sovraccaricare il racconto più del dovuto. Così il romanzo acquista una sua originalità risultando perfettamente equilibrato nei toni, negli argomenti e nei personaggi. Sta poi al lettore saper discernere tra il fantascientifico e la realtà, tra l’essere e il dover essere. Perché alla fine c’è sempre una morale, o un segreto o un delitto da svelare, inseguendo magari di nascosto quell’inglesaccio di Holmes a caccia di farfalle.

 

Enea Biumi

L'ANIMA nella Poesia di Prospero Cascini fotografata attraverso la PROPRIA, a cura di Salvatore Monetti

  La poesia, in molte delle sue forme, è molto più di un semplice esercizio linguistico o di un passatempo estetico. Essa è da meditazione. ...