E’ sapienziale il tono di Flavio Ermini in “Edeniche”; la
poesia sviluppa un verso prosastico a contenuto filosofico dove si assiste ad
una evocazione del “darsi iniziale” di un’età in cui il tempo riposava
nell’essere. Il moto aurorale dell’esistenza richiama la nostra osservazione
vigile prima della cosa, all’esatto processo di appartenenza come enti, nella
consapevolezza di una separazione degli esseri dalla sostanza, verso un destino
di conflitti e contrasti. Recuperare un’acquisizione perduta, dunque, s’impone
come progetto ampiamente trattato nella consistenza saggistica della
riflessione poetante. Ermini è autore profondo e inquieto di fronte al destino
degli uomini; ha vissuto stagioni accorate di meditazione sul compito terreno
dei mortali, sulla sofferta determinazione nel cogliere un tratto che auspichi
consapevolezza primigenia, mutamento arcaico, forse quell’indefinito che era
principio degli esseri per Anassimandro. Qualcuno potrebbe affermare
giustamente che se è vero che non c’è inizio senza fine, non può nemmeno
esserci allora fine senza inizio. E ben oltre andava la riflessione di
Heidegger, così spesso volutamente frainteso su basi ideologiche, nel recupero
di un concetto di essere collocabile all’inizio di una tradizione da
reinterpretare alla luce di un esito che richiede il significato della nostra
temporalità, ponendolo come irrisolto quesito. Ma, continuava Heidegger,
proprio “l’indefinibilità dell’essere non esenta dalla domanda circa il suo
senso, al contrario la provoca”. Da qui, la necessità ribadita, dunque, di un
significato. Si parla quindi di principio, dolore, sostanza, essere per la
morte ma, contemporaneamente, in lineare continuità, di sogno e azzurrità, di
stelle e ultima terra, di luce originaria, del divino. Ermini ci presenta una
forma di cacciata dall’Eden, di una condanna all’esilio. In realtà il tema
biblico, nella sua accezione più esegetica che si fonda sui generi letterari,
vede la libera scelta dell’uomo che proprio della sua libertà si fa vanto,
disconoscendo un rapporto di filiazione in una volontaria espressione di
superbia. Voler contare solo sui mezzi umani mette a confronto immediato con le
capacità ma anche con i limiti. Ci sono accenni tra i versi che evocano il
movimento e mutamento di afflato inesorabilmente tomistico, così come la
suggestione di una “trasformatio mundi”. Il verso lungo pianifica
l’attribuzione dei passaggi che, implacabili, determinano l’assuefazione ad una
pratica di lettura dilatata alla vocazione assertiva. Una dizione
linguisticamente lenitiva, quasi progettata su moduli di respirazione
interiore, nella peculiarità conoscitiva rivolta all’origine, apre aree di
approfondimento ancorato al nostro domandare. “Sotto uno spazio definito da
stelle inerti e tenebre/ prelude all’incontro con la morte l’atto di cadere”, e
proprio la filosofia, sosteneva Emanuele Severino, nasce come risposta di
fronte alla domanda che la morte stessa ci suscita. Emerge, ad un certo punto,
il tema specifico della discordia tra gli umani; quella radicale lotta che
conduce al contrasto estremo, alla guerra. Si apre uno scenario di rovine da
terra desolata all’interno del quale il poeta disegna le indicative
configurazioni del principio. C’è una ricerca del sentire che determina
acquisizione di fratture, intenti di progetto. Scriveva Schelling: “Il limite che
Fichte poneva fuori dell’Io, fu posto così da me nell’Io stesso, e il processo
divenne un processo puramente immanente, nel quale l’Io si occupa solamente di
se stesso, della contraddizione sua propria, posta in lui stesso, di essere
cioè insieme soggetto e oggetto, finito come coscienza e infinito in quanto
Principio produttore dell’universo”. E, al di là del persistente riflettere,
adombra la prospettiva dell’esilio, la sua determinata osservanza; infatti “ha
voci ovunque il cantiere dell’uomo/ nel richiamare alla mente la casa natale/
che spinge l’esule a uno stato di sconforto/ in quanto elemento destinato alla
fine”. Precarietà e senso del dissolvimento incombono nella poesia di Ermini,
ma proprio questa identità che si pone di fronte come destino fa sì che,
paradossalmente, il destino stesso acquisisca il suo più profondo significato
ontologico.
Andrea Rompianesi