La
silloge inizia con un’interrogazione che va ad approfondire il significato del
linguaggio in un contesto di suoni consonantici e onomatopeici, tra
allitterazioni e rimandi fonici, sottoponendo il lettore a soffermarsi per
riflettere il valore del messaggio, di ogni messaggio, poetico: “Ita ingùrti’ de sa
bòxi su siléntziu” (Che cosa inghiotte della voce il silenzio). In questo
passaggio lo scrittore traccia una linea di lettura che rimarca autorevolmente
e sapientemente il pensiero di una
comunità che ascolta e agisce di conseguenza, sottolineando che “su bùidu
chi s’obèridi” (il vuoto che si apre) si colma attraverso “sa
mandàda” (il dono), vale a dire, secondo la stessa spiegazione che ne offre
l’autore, “il dono reciproco della tradizione sarda. Quando una famiglia
avesse avuto di una derrata alimentare una quantità superiore al possibile
consumo del momento (tipicamente carne di maiale, dopo aver ucciso l’animale
allevato in casa, ma anche frutta o verdura), faceva dono del surplus ad altre
famiglie legate ad essa dal vincolo de sa mandàda, attendendosi di venire
ricambiata in futuro.” L’annotazione è importante perché svela la base e le
fondamenta dell’impianto dell’opera. Siamo di fronte ad una poesia che incarna
la cultura di un popolo e di quella cultura si fa portavoce. Ne è testimonianza,
senza dubbio, la seconda lirica della raccolta “Su nènniri” che mette
subito a disposizione del lettore gli strumenti per una opportuna conoscenza e
analisi. Si tratta, con il nènniri, di un rituale dalle radici molto antiche che trae la sua
origine dal culto millenario di Adone (come annota l’autore). Secondo la
tradizione sarda nel mercoledì delle ceneri, le donne devono preparare un vaso
con dei semi di grano da far germogliare al buio. I semi vengono depositati su
di un piatto con del cotone e vengono conservati al buio per cui i germogli
nasceranno di un colore pallido. Questa pratica non è nient’altro che un
simbolo che sta ad indicare, in ambito cristiano, la resurrezione di Cristo
avvenuta dopo tante sofferenze. In ambito pagano, invece, il collegamento è
dato dai rituali legati al dio Adone che celebravano la rinascita della natura
in primavera. D’altra parte se il seme non muore sotto terra, non ci sarà
nessuna fioritura, come sta scritto nel Vangelo di Giovanni. La morte in questo
caso è solo temporanea. Ma ci sarà un’altra morte, quella definitiva, che non
lascia spazio a ulteriori speranze, ma porterà lutto e lacrime: “is ògus nòstusu funti
dua’ làgrimas // chi èus arrennèsci a prangi.” (i nostri occhi sono due lacrime
// che riusciremo a piangere). Per questo “sa fentàna” (la finestra) diventa luogo
privilegiato per meditare oppure per farsene una ragione: “de cussu’ lògus innùi pàri’ / ca sa vida
e’ suspéndia” (di quei posti in cui sembra / che la vita è sospesa) Dato questo contesto
si fa più chiaro il titolo della
silloge “Passionis (passioni)” in cui l’autore si propone di tracciare
un iter di sentimenti e aspetti poliedrici che vanno dalle sofferenze di Cristo
al travaglio di donne e uomini alla ricerca di un bene e di una serenità per se
stessi o per i propri cari. In effetti il rapporto tra la passione di Cristo e
la passione dell’umanità è strettamente legato e conserva una valenza
universale. Il sangue di Cristo è quello dell’uomo, il piede di Maria che
schiaccia il serpente è il piede di ogni donna che sconfigge il dolore. “Su
pèi biancu de Maria asùb’ ’e sa cònca / de su calóru” (Il piede bianco
di Maria sopra la testa / del serpente.) Così Gesù assume l’identità di un
uomo qualsiasi perché “su chi no bòlis biri / e’ su córpus de Gésus prèn’ ’e brèmis” (Quel che non vuoi
vedere / è il corpo di Gesù pieno di vermi.) e la sua voce che grida dalla croce è
quella di un uomo “chi
nèmus intèndidi” (che nessuno sente). Ma tra la morte e la vita la demarcazione è sottile, quasi
invisibile. Così come è sottile l’ieri con l’oggi. Tanto che è necessario abbassarsi (cioè farsi piccoli, dimenticando se stessi) per ascoltare i vecchi, per sentire la loro voce e le loro storie. Non saremmo
nulla ora se non ci fossero stati “is antìgus” (gli antichi). Ed ecco
che il passato si salda al presente. Diventa testimone di ciò che siamo e che
facciamo. Allora “Tòcat a si scarèsci / su chi sciéusu, // castiài bèni,
ascutài.” (Bisogna dimenticare /
quello che sappiamo, // guardare bene, ascoltare.) perché solo ascoltando riusciamo a capire, forse, ciò che siamo
veramente. L’incontro con la tradizione diventa un incontro con la poesia che
si fa, ipso facto, garante del sapere. Infatti: “Su fuéddu chi circas dd’a’ cuàu / pòdit
essi in su còru // su pipìu ch’ìa’
domandàu / a nonnu sùu: poìta // no mi cantas a mèi puru / su chi cantas a
sólu?” (La
parola che cerchi l’ha nascosta / forse nel cuore // il bambino che aveva
domandato / a suo nonno: perché // non canti anche a me / quel che canti da
solo?) Come in un’orchestrazione sapiente l’ultima lirica si ricollega alla
prima. La poesia è linguaggio, è lo strumento che fa vibrare l’animo riempiendo
il silenzio, o il vuoto, di immagini e di sensazioni. La poesia travalica il
tempo mettendo in corrispondenza episodi e persone lontane, miti e leggende,
tradizioni e culture. Sebbene, alla fine, non ci sia risposta certa al dolore e
alla morte, la poesia si ostina ad esserci, a seguirci, a renderci consapevoli
e a porci pertanto continue interrogazioni che rimarranno senza riscontro: “it’e’ custu bisóngiu / de iscrìri?” (che
cos’è questo bisogno / di scrivere?)
Scrittura Nomade - Viaggio polidiomatico di Arte e Cultura - Variazioni sul tema scrittura
sabato 26 novembre 2022
Sergio Cicalò, Passionis – Passioni, Edizioni Cofine, Roma, 2022 PREMIO CITTÀ DI ISCHITELLA-PIETRO GIANNONE 2022
lunedì 7 novembre 2022
Andrea Rompianesi, Tracce di pellicola da film sulla costa di ponente, Book Editore, Riva del Po, 2022, € 15,00
C’è
sempre nell’opera di Andrea Rompianesi, sia in prosa che in poesia, un elemento
filosofico che lo contraddistingue. In questa nuova silloge l’autore si cimenta
apparentemente con fotogrammi come da film d’essai, ma al di là delle
immagini emerge chiaramente una diagnosi, ora estremamente realistica, ora
ironica, ora sarcastica, ora sentimentale, che richiama, in maniera più o meno
esplicita, quello che Heidegger in Essere e Tempo affermava: il bisogno
ontologico di ricercare la natura costitutiva degli oggetti a partire dal
soggetto. Lo stesso Husserl aveva indagato la soggettività in relazione agli
oggetti. Non a caso in una nota finale, che non va sottovalutata, l’autore
rivela che “l’ambientazione di questo testo ha trovato i caratteri nel dato
autobiografico, nel completo coinvolgimento d’autore. La costa di ponente è
quella ligure di Diano Marina, vicino ad Imperia, con una particolare
attenzione alla località di Sant’Anna dove si trova l’Hotel Arc en Ciel, dimora
di passate soste nel periodo dal 2002 al 2014.”
Ciò
che sta a significare questa postilla, estremamente personalistica, permette, a
mio avviso, di ricostruire una lettura che va al di là dell’esperienza
soggettiva di una vacanza sulla costa di ponente. L’aver insistito e
sottolineato, si può dire con nome e cognome, costa ligure, Imperia, Diano
Marina, località Sant’Anna, Hotel Arc en Ciel, periodo dal 2002 al 2014, mira
a spostare l’accento dagli avvenimenti e dalle cose, come, in artiglieria, avviene
con l’uso del falso scopo: inquadro un campanile, ad esempio, ma non sparerò su
di esso, il campanile è semplice punto di riferimento.
Ecco
allora che gli oggetti si materializzano nel soggetto, lo scrittore, il quale
diventa per ciò stesso mezzo importante e tramite di riflessioni e speculazioni
attorno a ciò che la vita impone e oppone. Già nella prima pagina il percorso
sembra ormai tracciato. Ci sono segni evidenti di aspettativa e di novità.
“Il
buio della notte è leggero, impalpabile, atteso ed aperto alla consolazione del
mare immobile.” Il buio rappresenta l’animo dell’autore
che attende risposte da chi, come il mare, rimane apparentemente immobile. Ed è
solo l’inizio. Nel prosieguo il “particulare” continua ad inseguire lo
scrittore come un’ombra: lo slargo, il parcheggio, le case, i corpi
seminudi, gli scalini, la spiaggia, le tazzine, i bicchieri e via dicendo. Il
tutto, poi, impone un viaggio a ritroso nel tempo e costringe a ripassare il
passato e a ripensarlo. “Penso ai tanti viaggi compiuti in passato; a come
il movimento sia stato adeguata necessità di una natura ipercinetica, ma anche
interessata a toccare fisicamente ciò che diciamo altro.”
La
costa di ponente assume quindi, sotto un certo aspetto, il valore e
l’importanza che per Proust ebbe la sua madeleine. Non dimentichiamoci
che in una silloge precedente di poesia Rompianesi ha pubblicato proprio un
volume dal titolo “Metrò Madeleine”.
In
tal modo il viaggio nel passato rappresenta un momento di autoanalisi, essendo
il viaggio, da sempre, un topos della letteratura che serve ad
approfondire non solo se stessi, sibbene il mondo che ci circonda. La
riflessione porta dunque alla conoscenza, riscopre quella parte di noi che non
sempre emerge, chiarifica scelte ed abitudini tanto che ci addentriamo sempre
di più in quell’impalpabile groviglio filosofico necessario per ripartire il
giorno dopo, magari con gli stessi gesti, le stesse volontà, gli stessi errori,
ma più consapevoli.
Sotto
quest’ottica l’introspezione coglie necessariamente ciò che sta più a cuore
all’autore: la filosofia. “Una credenza popolare ritiene che la filosofia
sia disciplina astratta; niente di più lontano dal vero. La filosofia è di una
concretezza assoluta… non solo gli enti, le cose, sono… ma l’essere
stesso, in quanto tale, è.” E per dimostrarlo l’autore fa sì che,
immediatamente, il pensiero divenga oggetto che, momentaneamente, si incarna in
una madre bionda, di una magrezza anoressica, che scende da una vettura
rossa accompagnata da tre bambini tanto identici da sembrare cloni. Più
tardi gli oggetti saranno la bicicletta, i chioschi con pareti rugginose, un
bar, il piccolo market, un complesso alberghiero.
La
realtà, il concreto, l’oggetto: tutti elementi riconducibili ad una filosofia
dell’essere e che diventano altrettanti simboli di un’esistenza meditata: una
specie di correlativo oggettivo montaliano che si traduce in una molteplicità
di slide o fotogrammi su cui posare lo sguardo critico e imparziale,
vista l’estrema soggettività dell’esperienza. “Il cielo terso conduce a
rinnovare le immagini di altri luoghi, rivisitati, forse reinterpretati anche,
come vere sequenze.”
L’insistenza
con la quale Rompianesi propone la visione del paesaggio circostante impone
comunque una meditazione, che ipso facto, diventa confessione. “Confesso…
sì, voglio confessarmi” e nella confessione una preghiera: “Non sappiamo
né il giorno né l’ora… dunque dobbiamo stare pronti, con le lucerne accese.” La fede dell’autore si consolida mentre
prosegue il cammino e “l’attenzione elude la morte; ma quest’ultima non è
che una puntura di spillo, talmente rapida da trasformarsi in sollievo.”
In
questa disanima in cui prevale l’argomento ontologico, cosmologico,
teleologico, si inserisce un elemento da non sottovalutare, ancorché in
secondo piano rispetto al resto: l’attenzione linguistica, dimostrata dal
fatto, ad esempio, di scrivere vólto per indirizzare immediatamente il
lettore ad una giusta ortoepia, o di scrivere spazî, con l’accento
circonflesso, per evidenziarne il plurale, e soprattutto il voler stigmatizzare,
in una specie di diascopia, il vizio tipico italiano di utilizzare vocaboli
stranieri (in prevalenza inglesi) per cui “siamo diventati, da tempo,
vittime felici di un colonialismo linguistico approssimativo e insopportabile.”
Per questo, ironicamente, lo scrittore conclude affermando di voler approfondire
lo studio dell’inglese solo “quando la maggioranza degli inglesi si
impegnerà in una acquisizione approfondita dell’italiano.”
Tanti
sono i momenti di ripensamento, tante sono le occasioni che attraversano la
vita apparentemente oziosa o da spiaggia, come si suol dire, presenti in queste
pagine che offrono al lettore emozioni poetiche e ragionamenti filosofici.
Siamo di fronte ad un lavoro di sintesi in cui la poesia diventa prosa e la
prosa si fa poesia. Ed alla fine, come in una pellicola, le numerose tracce che
l’autore ci propone ci permettono un’analisi del presente, o per lo meno, il
tentativo di analizzare e ripensare l’esistenza in un raffronto confronto con
le immagini e le riflessioni qui esposte.
“Allora
ci sarà, forse, in qualche piccolo anfratto delle nostre definizioni,
categorie, speculazioni, sillogismi, il tenace tempo noetico che, compiendosi,
assolverà il presente per farsi comunione; ci sarà, infine o all’inizio, la
piena coincidenza di essenza e di esistenza.”
E quasi a sviluppare un trait-d’union, come fosse
una legatura musicale, tra la prima ed ultima pagina, in pieno stile e
riconoscimento cinematografico, con una vena sottilmente ironica, ecco apparire
una sagoma umana, un uomo, un amico, sempre più somigliante a Jack Nicholson
(…) ancora più somigliante a Jack Nicholson.
Enea Biumi
venerdì 4 novembre 2022
Emiliano Pedroni, Le tracce rosse, Lampi di Stampa, Vignate, € 14,00
Con un
linguaggio asciutto e diretto Emiliano Pedoni affronta un thriller che
si basa su alcuni presupposti del paranormale e che, a tratti, diviene un vero
e proprio noir. La vicenda racconta di un serial killer
psicopatico che massacra donne per una sua frustrazione personale. La storia, che parte da una visione iniziale
di un ragazzo sensitivo, si fa via via più stringente e coinvolgente per
arrivare nelle pagine finali alla risoluzione del caso.
La ricerca del
mostro, come viene giustamente definito nel romanzo, sarà condotta dalla
detective Collins che si avvale del supporto dello sceriffo Morris ma
soprattutto delle precognizioni di Ethan, il ragazzo che, attraverso improvvise
e in principio non volute visioni, farà riaprire il caso di una fanciulla
scomparsa. Purtroppo nel corso delle indagini si aggiungeranno altre fanciulle
orribilmente trucidate. E gli indizi raccolti, anche attraverso messaggi
inviati tramite una vecchia Remington, non serviranno nell’immediato a stabilire
e scovare il vero criminale. Anzi aiuteranno a sviare le indagini. Il tutto verrà
guidato però da un segno: delle tracce rosse (da qui il titolo) che condurranno
gli inquirenti, alla fine, alla scoperta del colpevole.
Interessante,
oltre il giallo in sé, è la “conduzione binaria”, come l’ha denominata
nella presentazione del libro lo stesso autore. Cioè, quando viene presentato
il killer il capitolo presenta il simbolo dell’omega (Ω),
quando si avviano le indagini la pagina mostrerà il simbolo dell’alfa (α),
quando Ethan ha le visioni il simbolo diventerà quello dello Yin Yang ( ) che, come tutti sanno, rappresenta il
perfetto equilibrio dei poli opposti. Se è facile intuire che omega sta ad
indicare il male e la sua fine mentre l’alfa rappresenta l’inizio del bene e la
sua vittoria, meno agevole potrebbe essere, ad un primo impatto, cogliere il
significato dello Yin Yang. Quali saranno gli opposti presenti nel sensitivo
Ethan? Da una parte abbiamo la visione
del male (la ragazza uccisa) e dall’altra la realtà del male (l’assassino): il
paranormale e il normale. Questi due elementi, uniti, rappresentano a mio
avviso una specie di ossimoro retorico attraverso il quale i protagonisti saranno
in grado di arrivare al bene, cioè alla cattura del colpevole.
La detective
Collins, lo sceriffo Morris, gli amici di Ethan, Mark e Timothy, la famiglia
stessa del ragazzo veggente saranno coinvolti in una ricerca che avrà le
caratteristiche di una contrapposizione inquietante e affannosa volta a frenare
il serial killer che abilmente si nasconde nella contea di Mammos. I
tratti realistici di questa narrazione sono una connotazione positiva e
contribuiscono a creare quell’atmosfera adatta per un giallo che non disdegna
aspetti psicologici e domande esistenziali. Non per nulla l’esergo iniziale ha
un ben preciso indirizzo: l’epitaffio di Sicilo che così sentenzia: “finché
vivi, splendi, non rattristarti di nulla: cosa breve è la vita. Il tempo volge
presto alla sua fine.”
Ecco, il thriller
di Emiliano Pedroni ci porta, nonostante la drammaticità del racconto, allo
splendore della vita. Ci consegna alla vita stessa. L’impressione è quella di
essere inseriti in un sogno. E, sebbene in questo sogno ci sia la presenza del
male, alla fine rimaniamo del tutto sollevati perché il bene sopravanza sul
male. E si respira un’aria del tutto nuova e purificatrice.
Oggi si parla
di metaverso, di realtà virtuale. La lettura, da secoli, ha anticipato questo
mondo e questa moda attuale. Immergersi nelle pagine di un libro significa
abbandonarsi e abbonarsi all’immaginazione, significa lasciarsi andare a
sentimenti ed emozioni che in altri contesti, forse, faremmo difficoltà a
sostenere e a mostrare. E il leggere e – per alcuni – lo scrivere, come
sostiene lo stesso autore, è l’evasione dalla realtà, è lo scrollarsi di dosso i
panni del quotidiano per rivestire, come proponeva Machiavelli, quelli curiali:
è un proseguire oltre, perché, appunto, il tempo volge presto alla fine.
Enea Biumi
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