lunedì 8 novembre 2021

Enea Biumi, Maris ast, Ilfilorosso editore, Cosenza, 2021


La consapevolezza dell’impotenza della parola e l’imperativo etico di denunciare il negativo dell’oggi

 

Queste liriche di cui Enea Biumi (alias Giuliano Mangano) ci  fa dono segnano un importante momento della sua inesausta ricerca esistenziale e artistico-letteraria che lo ha visto cimentarsi in diversi ambiti: dalla musica, al romanzo, al teatro.  Il denominatore che accomuna questa molteplicità di esperienze e percorre come una filigrana in particolare i testi di questa raccolta, è costituito dall’intento di disegnare un quadro  a tinte fosche  dell’oggi tanto celebrata mondializzazione, colta dalla prospettiva di chi ne coglie e soffre nella propria carne i contraccolpi laceranti e distruttivi.

II titolo Maris Ast, “Ci sono feriti”, trae spunto infatti da un’  espressione in lingua ‘pashtu’ presente in un episodio di Buskashì: viaggio dentro la guerra, il racconto-testimonianza  di Gino Strada sulla guerra in Afghanistan, pubblicato nel 2002. In effetti  i quarantaquattro testi della silloge rappresentano  una mondo umano ‘ferito’, massacrato, condotto verso l’annichilamento da guerre continue e atroci che,  se sono state una costante del secolo scorso, hanno anche sinistramente attraversato i primi vent’anni del nuovo millennio. L’intenzione di gettare uno sguardo non sentimentale ma oggettivo sulla realtà si rivela forse nell’assenza di titoli: le poesie sono solo numerate. Le conseguenze tragiche dei conflitti, scatenati da una rinnovata aggressività economica e da fanatismo ideologico-religioso, sono pertanto violentemente proiettate dall’autore  sotto i nostri occhi senza compiaciuti sentimentalismi. Fin dalla prima lirica che non casualmente si apre con il drammatico annuncio “Maris Ast”, urlato e ripetuto in più momenti della composizione, dominano  immagini di disperazione e di morte: “E gli occhi rifuggono gli occhi / Le mani a implorare / Sotto la tenda lo spazio / Della vita breve // Fuori il vento spezza le ossa // Una bomba / Si avverte dopo / Polvere e schegge”. Alla radice dell’ispirazione biumiana sta dunque l’esigenza etica di osservare con sguardo fermo il negativo   della realtà storica, assumendo una netta posizione a fianco delle vittime, degli emarginati, degli sconfitti sfuggendo a facili cedimenti populistici. Nella seconda lirica assistiamo infatti all’emblematica contrapposizione tra l’indifesa fragilità di un bambino e la durezza cieca, anonima dei soldati: “Come la stampella di un bimbo / Che in viso porta l’affanno // Mentre irrompono soldati / Con l’inganno”. In questi versi va colto l’efficace uso della rima che associa e contrappone due parole dal significato antitetico: l’ ‘affanno’ è infatti la manifestazione immediata e irriflessa dello  stato d’animo di sgomento che assale la vittima; l’ ‘inganno’, nasce dall’uso freddo e perverso della riflessione attuato dal carnefice.

La guerra è d’altra parte una costante di quella angosciosa e distruttiva accelerazione storica che l’umanità ha vissuto già nel  XIX e XX secolo. Ecco infatti, nella lirica Sei, che l’autore rievoca la terribile esperienza che il popolo italiano ha vissuto con la Prima Guerra Mondiale, contrapponendo sarcasticamente al bollettino enfatico della vittoria emanato dagli alti gradi militari un desolato e aspro commento morale: “Per rivolgersi ai morti / Necessita il rispetto / E non le solite balle / Di terre promesse / Ma mai mantenute”(Sei). Il destino di sconfitta dei ‘ragazzi del ’99’ mandati al massacro della guerra, sembra riproporsi, in una sinistra corrispondenza storica,  in quello dei giovani del  ’49, la generazione del Sessantotto, condannata a vedere tragicamente bruciate in breve tempo le proprie speranze di liberazione esistenziale e politica: “I ragazzi del 49 sono una nave incagliata / Che i turisti invadono per la foto ricordo / Sono un ponte crollato” (tredici).

Ma l’intento di affrontare e rappresentare i conflitti e i drammi  del mondo attuale dal punto di vista di una rarefatta universalità generalizzante  può trasformare la doverosa  denuncia del male in stucchevole retorica, per quanto dignitosa e austera. Biumi sfugge a questo rischio filtrando i grandi eventi dal punto di vista di una vicenda individuale.  Ce ne offre un esempio la lirica Sette, dove l’evocazione poetica è innescata probabilmente dalla visione della foto del nonno dell’autore,  fante nella Prima Guerra Mondiale, qui rappresentato sullo sfondo della desolazione della trincea e della miseria domestica: “C’era un’umida stanza / La foto del nonno in trincea / O prigioniero alle Tofane / Il cesso in comune / Fuori  / Sul ballatoio ringhiera / La carne quando c’era se c’era / Una briciola di pane / Che doveva durare”.

La lucida e impietosa diagnosi dell’autore sul mondo contemporaneo evidenzia in diversi testi la violenza indiretta che, su un’umanità oppressa e umiliata, esercitano le tecnologie informatiche, i mass media, le ideologie ufficiali religiose e politiche, la morale ipocrita e i falsi valori  delle classi dominanti a volte purtroppo introiettati dalle stesse vittime: i ceti subalterni. Nella lirica Nove l’interno domestico piccolo borghese o proletario tradisce il fastidio, la ripugnanza spontanea  dell’autore per una ritualità religiosa che negli anni sessanta era perversamente intrecciata alla pubblicità televisiva: “Lo dice anche carosello / Che divide il giorno dalla notte / L’adulto dal bambino // E c’è più gusto per Natale / Il papa con le sue tante lingue / E la benedizione / Che si vede tutta San Pietro in festa”.  Ancora più risentita, in quanto mossa da una religiosità autentica,  è la condanna polemica di una Chiesa fondata sul denaro e coinvolta in scandali, che traspare nella lirica Quarantatré, dove gli accenti polemici sono strappati a una stucchevole ovvietà grazie a eleganti e ironici giochi sintattici: “Sebbene Pietro non avesse una banca / Oggi le banche hanno Pietro / E uccide il denaro / Come la mitraglia / Orfani non solo di guerra”. Il trionfo di una società che ferocemente e programmaticamente sembra votata alla manipolazione delle coscienze  in funzione del dominio è angosciosamente  condannato nella martellata rassegna dei molteplici e sinistri ‘idola’ che oggi imperversano: “Il diosesso, Il dioepulone, Il diomaschera, Il diotivù / Dell'audience, Il dioassassino, il dioguerra” (Trentatré).

In questo quadro anche la funzione poetica sembra aver perduto il suo senso ed essere ridotta al silenzio dal trionfo della risibile triade ‘educativa’ imposta alle nuove generazioni: informatica, impresa, inglese: “Attardati tra le calli / I poeti / Silenzio immane / Oltre la siepe / Il nulla che l’animo travolge / Produzione efficienza consumo / È il patto / Informatica impresa inglese / E niente illusioni / Perché la poesia è morta”. (Trentaquattro) Contemporaneamente impazza la manipolazione di presuntuosi e ignoranti ‘mezzibusti televisivi’: “Nell’affanno i mezzibusti tv / Annunciano guerre” (Trentaquattro) e “I reality condannano i giornali / A editare bugie” (Diciannove). Emerge il quadro di un’umanità in rovina, ridotta in frammenti  tra loro incomunicanti, costituita da un’infinità di disperazioni individuali prive di speranza di riscatto: “Il clochard / Sotto il ponte / Che riappare improvviso e reclama // Il suo ieri negato / Il suo oggi sconsolato / Il suo domani ingarbugliato (Quattordici). L’esito allora non potrà che essere la negazione dell’altro in una feroce, intolleranza omicida o la negazione di sé nel suicidio cinicamente commentato dall’indifferenza altrui: “Di questi tempi è facile impazzire / Darsi fuoco / Buttarsi da un balcone / Mentre il deputato adempie ai suoi doveri / Tra banchetti e cene elettorali” (Quarantuno). Lo stesso ‘io’ individuale appare irrimediabilmente compromesso se “Qualche luce: la natura aggredita/ Si sottrae anche il sogno / Di chi / Un tempo urlava / “Io sono” / Ora / Ora”. (Trentotto). All’inferno dell’oggi non esiste allora alcuna possibilità di opposizione, alcun punto di svolta, alcun ‘principio di resistenza’? Forse qualche spiraglio di luce, qualche lacerto di speranza Biumi affida, per  quanto dubitosamente, alla natura che, se aggredita e violentata dall’uomo, pur ci  schiude la possibilità di uno sguardo positivo sul mondo. Dopo un violento temporale notturno, una ‘topos’ classico nella nostra tradizione lirica da Leopardi a Pascoli,  il mondo gioiosamente  rinasce: “L’indomani all’alba / L’acqua redime / La sua furia sull’asfalto / Respirare al nuovo cielo / Nel cuore lago ritrovato / Vanificando inganni // Anche il sole adesso / S’è levato”. (Ventitré)

Poeta eminentemente visivo (non casualmente in epigrafe alla silloge sono citati i versi dell’amico pittore Micharvegas), Biumi ricorre, nelle liriche più direttamente politiche,  a immagini potenti e cariche di espressività che ricordano Goya (Los fusiliamentos), Picasso (Massacro in Corea), l’espressionismo pittorico tedesco del primo Novecento che testimoniarono le stragi della Prima guerra mondiale (George Grosz, Otto Dix). Il ricorso a una prospettiva di rappresentazione a più voci segnalato dall’alternarsi della grafia  corsiva con quella a tondo, la mediazione frequente di un ’si’ impersonale che sostituisce la voce  diretta dell’io poetante, indicano l’impotenza della stessa volontà di testimoniare l’orrore. La disposizione grafica verticale dei versi, l’assenza di titoli (le liriche sono nudamente enumerate), conferiscono alla raccolta l’austerità dell’ epitaffio, dicono la severa necessità della denuncia, abolendo a qualsiasi orpello retorico; infine la sintassi nominale, il ricorso ad assonanze volutamente banali, ridotte spesso a un acciottolio di rime baciate, manifestano lo scacco: l’impossibilità di dare una qualsiasi coerenza all’irrazionalità presente nel mondo, la consapevole rinuncia a  un mistificante ‘sublime’, ma al tempo stesso l’impulso istintivo a ‘dire’ il male. L’unica, precaria, ipotesi di redenzione  riposa allora paradossalmente nella musica, nell’accordo di voci, nel canto poetico: “Ma il canto d’un rabbino / S’accorda ad un muezzin / In questa notte invernale che il gelo/ Ti offende / E un blues avanza nei corpi cadenzati / Di neri suonatori” (Trentaquattro).

                                          

Gianfranco Gavianu                                                                                                                                                                                              


mercoledì 8 settembre 2021

Alberto Mori “In Fra” (Fara Editore, 2021)

 

                                                    

“In questa altezza”, “Fra questa altezza” esprimono l’input decifrabile del titolo “In Fra”, dove la poesia sperimenta il limite, superandolo nella istituzione dialogica che impone anche varietà di caratteri tipografici poiché si fa visiva oltre che fonetica. “Lo sgoccio rastrema ritmo/ con battito umido”; certo il noto è soltanto applicabile, quasi unguento medicamentoso affinabile e proiettato all’insaputa dei mirabili tratti. “Quando tutto manca/ nessun pensiero resta presente”. Distinguono gesti acrobatici e peculiarità anatomiche i versi di Alberto Mori, così come estensioni mentali. Ma se “In” affiora, “Fra” coordina la partecipazione liminare che contende al dato l’esecuzione delle lontananze. Accende in atto quando “Trasmette mittenza condivisa/ il gesto comunicato dal movimento”, ben sapendo di quanta attualità si carichi l’antico concetto di “moto” inteso anche come “mutamento”. L’intermittenza è nella veglia aurorale, nel dialogare perenne, nella opacità di tempi, nella temporalità dei segni. La contraddizione si fa evasiva, postula una modalità esperita, l’attribuibile icasticità dei frammenti. Sarebbe applicabile un diuturno passaggio ad accostamenti tracciati in linee; inoltre comprendere esordi imprevisti di acque marine. Intervengono squarci d’aperture capaci di ridefinire il quadro percepibile in estremi oppositivi: “La linea pluviale gronda addentro/ Il piccolo viaggio del rivolo discende/ Scolma fessurato nel tombino”. Le immagini pretendono comunque d’imporsi nella forza policroma delle effusioni, quando è lo sguardo che incontra “le scaglie rosso violette imbevute”. Al di là di una impressione primaria, qui la forma nettamente s’impone sulla materia, l’anima sul corpo, l’atto sulla potenza. Ci sono erranze, decisioni, distinzioni, ricezioni, pensieri, estensioni emergenti da correlativi traducibili in esperienze. L’iterazione del cielo è appunto “segno”, quindi simbolo d’altro, “aria senza luogo” perché oltre il luogo. Poi giunge il cammino al suo naturale esporsi, quando la luce testimonia l’evento, l’accadente. Alberto Mori sembra annotare la spazialità luminosa come occasione di percezione fertile, inesausta, riprodotta dalla tellurica effervescenza dei passaggi. Qualcosa è davvero accaduto e molto avviene poi di significativo e, allo stesso tempo, indecifrabile mentre, ci dice il poeta”, “Questa nota silenziosa interroga”.

 

                               Andrea Rompianesi


lunedì 21 giugno 2021

Michele Toniolo “Passaggio sul Rodano” (Galaad Edizioni, 2021)

 

Un lessico familiare unico in otto racconti, che nasce anche in un unico luogo: il Rodano quando giunge a perdersi nell’umidore della Camargue. Da un traghetto che lo attraversa, con l’acqua a bagnare le scarpe e il vento a trascurare il bucato steso tra i pini di mare, il libro ha inizio. Si tratta di “Passaggio sul Rodano”, opera in prosa di Michele Toniolo, particolarissimo autore nonché fondatore di Amos Edizioni. Nello sviluppo di narrazione si evidenziano elementi nitidi che confermano una sequenza o successione di oggetti e movimenti che sembrano evocare un passato testimone di fatti intrisi di silenzio. Il ritmo è quello della successione scandita da frasi brevi, frutto di paziente cesellatura. Aleggia, già dalle prime pagine, il senso di una inquietudine; la consapevolezza che qualcosa di drammatico è avvenuto, inesorabilmente, incidendo nell’animo degli interpreti. Si accalcano i particolari che determinano la scena e acquisiscono la simbolica appartenenza all’evento mentre “corde di nuvole tirano il cielo verso la notte”. Sembra di percepire i tratti di un quadro da cui emergono figure con la consistenza dei lemuri, case abbandonate, un traghetto affondato. Nel testo che sviluppa una danza, essa si fa memoria della caduta di una madre che sa esattamente dove il segno e la linea dello sguardo devono indicare l’unica opzione di ripresa che non può essere altro se non la presenza del figlio. Un filo conduttore si sviluppa partecipe nella prosa di Toniolo, tale da riemergere nelle conduzioni che echeggiano in non detto, tutto ciò che viene fatto soltanto intuire come nelle alcune parole dedicate ad Alice. Anche qui, predominante, s’innalza il rapporto tra madre e figlio, ma in una esperienza di dolore nella quale la domanda di senso interroga le modalità della morte. Una memoria ferita che titola le profonde vicende e più drammatiche con segnali esposti dalle stagioni e dagli eventi di natura. Ci sono parole importanti che fluttuano al passaggio delle frasi: delitto, debolezza, respiro; e poi grazia, croce, amore. Un principio svelante emerge nitido: non c’è azione più grande di chi sa restare. Se un figlio accoglie la morte, scrive Michele Toniolo, nella morte vi entra lasciandosi stringere dalla madre. Questo è amare; questa è la croce. E la madre, tenendo stretto suo figlio, ha stretto anche Dio. Un processo di scrittura conduce a levigare le sfumature materiche suscitate dalla tessitura rivelando nervature più profonde, che chiamano alla veglia, all’esegesi filtrata attraverso un’ ermeneutica contemplativa. Un incedere che rivela anche un ulteriore rapporto: quello del figlio e del padre; di quando ciò ammette il riconoscere una ennesima apertura all’amore. Il testo si sofferma poi sulle radici di una narrazione originaria. E qui Toniolo opportunamente evoca, nel senso espresso da Kafka, l’evidenza della parola giusta che conduce, e di quella non giusta, forse piuttosto esatta, che seduce. I legami sono costitutivi di relazioni attinenti alla vita e alla morte, nella consistenza di un durevole approccio che evidenzia nella scrittura letteraria l’ostinazione di senso, la ricerca di senso, in un’accezione sostanzialmente teologica, intesa non specificamente come anagogica. Allora le parole possono stare nella soglia tra la vita e la morte, tra la verità di una cosa e la cosa stessa, forse tra l’essere di un ente e l’ente stesso: la soglia che costituisce la rivelazione creativa. Esondano agnizioni che portano a riferimenti di abissi in cui il totale accedere convoca partecipazioni ancestrali, determinazioni maieutiche, figure come quella di Abramo, il cavaliere della fede che annulla il timore della disperazione, della malattia mortale, nell’espressione voluta da Kierkegaard. Qui, però, il segno è affidato all’accenno della singola individualità che si ritrova a contenere il confronto con il mistero e il suo richiamo; il suo inesorabile porsi, la traccia gravosa della solitudine che ci fa ostinati ma che, nello stesso tempo, ci coinvolge nella seduzione della presenza. E a questo punto non si può evitare di sentire un riferimento costruttivo che ci riporta alla mente proprio quella dottrina heideggeriana dell’arte come messa in opera della verità, nella valutazione di un approccio che coinvolge un “accadere” di aperture storiche e linguistiche in cui, come in anni ormai lontani aveva sottolineato Vattimo, ogni conformità e verifica diventano possibili. Ma oltre la fondazione, l’opera è sfondamento. Anche se, per chi scrive questa nota, il senso di questo sfondamento si allontana dalla interpretazione citata, e acquisisce una valenza più propriamente e necessariamente metafisica; così come anche la poesia può determinarsi come poesia dell’essere. Scriveva Goethe, pur ammettendo tutte le sfumature anche contraddittorie che hanno caratterizzato le sue espressioni: “l’uomo quando è commosso sente profondamente ciò che è infinito”. Appare forte il senso della perdita dei ruoli più intimi e l’accostarsi alla testimonianza di chi rimane a raccontare un dolore che è separazione e ricongiunzione nello stesso tempo ma sotto un diverso aspetto; ben al di là di un teatro dolente, come viene tratteggiato in un andare “tra ciottoli d’ombra tra i cipressi”. Così s’intrecciano stimoli che esorcizzano una storia con un’altra, come da titolo di una prosa che evoca la torre di Holderlin o la prigione di Bonhoeffer. Notti e fughe negli spazi tra fiume e vento, nei tanti modi che accompagnano al congedo. Conclude il libro una postfazione o, meglio, un vero e proprio breve saggio di Arnaldo Colasanti che evidenzia la natura di una prosa esprimente l’iterazione, una sorta di soluzione che affronta e supera il tonalismo paratattico, sfumature capaci di ricordarci le suggestioni di un autore come Peter Handke. Notando però, da parte di chi scrive queste osservazioni, che, in realtà, non sussiste contraddizione tra metafisica e concretezza. Proprio perché la metafisica stessa, essendo discorso sull’essere, affronta tutto ciò che essendo, proprio perché è, non può non essere anche concreto, in una peculiarità che comunque certo non esclude le distinzioni ontologiche, ma le amplia. Così come concreti e tangibili sono il dolore e il farsi prossimo, temi sostanziali dell’opera di Michele Toniolo, esito di grande maturità letteraria.

 

                                                                                                            Andrea Rompianesi

giovedì 17 giugno 2021

Enea Biumi, La maestrina del Copacabana e altri racconti, Genesi Editrice, Torino, 2021


 

Enea Biumi è in fase di seconda giovinezza. Da sempre attivo nel mondo delle lettere, anche quando era docente di italiano negli istituti superiori, era però restio a dedicare troppo tempo alla scrittura, sia perché il lavoro era costante, sia per un riguardo diciamo di tipo morale: in fondo la scrittura non è un po’ una perdita di tempo? Per fare del bene all’umanità, può bastare mettersi a tavolino ed inventare storie? La pensione ha liberato Enea da questi riguardi e oggi la penna scivola veloce, sia in poesia che in prosa. Ora è il tempo della prosa, ma già una raccolta di poesie ha un contratto firmato e fra poco sarà in stampa. Stiamo all’oggi e alla raccolta di racconti ‘La maestrina del Copacabana’ (Genesi editrice). Si tratta di cinque racconti, meritevoli del premio ‘I Murazzi per l’inedito 2020’, premio già vinto nel 2018 con il romanzo ‘Rosa fresca aulentissima’. Cinque racconti, che richiamano alla mente pagine di Piero Chiara, ma anche di Giovannino Guareschi ma soprattutto ci riportano l’Enea Biumi che avevamo incontrato con il romanzo sopracitato. Lo ritroviamo come suonatore di pianobar nel primo racconto, quello che dà il titolo alla raccolta; lo rivediamo come professore nella seconda storia (Bocciofila Cartabbia); ecco il suo amore per la poesia, soprattutto per Giuseppe Ungaretti, nel terzo racconto (Una corolla di tenebre). E chi è ‘Aristide Giovanni Principe Turibbio’ se non l’autore, quindi ogni uomo, posto di fronte all’epilogo, al soffrire nel disfacimento e nella perdita, che si affida ai ricordi delle bravate giovanili per sopravvivere? Infine l’ultimo racconto, ‘Il Windsurf’, un fitto dialogo, uno sparlare e parlare dei fatti altrui. Biumi non si affida all’originalità stilistica, che nella ricerca del nuovo dimentica la leggibilità: punta ad essere facilmente inteso soprattutto con dialoghi invitanti, frasi brevi, periodi mai complicati, dove non manca il dialetto bosino ma anche il latino, parole ricercate (e qui il professore ogni tanto prende la mano) ma nel complesso la lettura scivola veloce nella discesa del piacere, che ogni lettore ricerca. Una scrittura popolare e insieme raffinata, una trama mai banale ma nemmeno indecifrabile. E sotto sotto c’è l’autore, con il suo antimoralismo, la sua capacità di accontentarsi godendo del quotidiano, il suo sguardo distaccato e insieme accogliente verso i peccati degli uomini, più disposto ad accettare cadute incespicando nei sassi della passione, piuttosto che il peccato di eccesso di giudizio e pregiudizio. Valga a completamento di questa mia sintetica analisi la motivazione della giuria del premio ‘I Murazzi’: “…I cinque racconti risultano ambientati nell’arco di anni che vanno dagli albori del fascismo fino all’affermazione in Italia della civiltà dei consumi e del welfare, ma mantenendo uno sguardo di particolare attenzione alle tradizioni del ceto contadino e per lo più piccolo borghese…Lo stile narrativo è allo stesso tempo facondo e schietto, con un timbro di astuzia popolare che mette a fuoco la gioia di vivere, ma anche gli inciampi della malasorte e la tentazione ai sotterfugi o agli inganni…”

Un assaggio? Eccolo, preso dal primo racconto:

“Sì, ma anche quel seno…” balbettò la preside.

“E’ una donna, del resto…figlia di sua madre” e nell’affermarlo, ella cercò di mettere in risalto quello che ormai non c’era più: i suoi anni infatti stavano mostrando tutta la loro esecranda malignità per aver fatto decadere la prosperosità di un tempo…

Come già scritto, Enea Biumi (pseudonimo di Giuliano Mangano), docente in pensione, ama la narrativa, la poesia, la musica, il teatro. Da nomade interiore, ama spaziare nei campi dell’arte e lungo le strade del mondo. Ha al suo attivo svariate pubblicazioni in prosa e poesia, collaborazioni a riviste. Consiglio di prendere visione del suo blog (il blog di Enea Biumi).

Il libro è presente in alcune librerie varesine, lo si può ordinare online anche alla casa editrice (genesi@genesi.org) o direttamente all’autore, che ha una pagina facebook.


Carlo Zanzi

giovedì 10 giugno 2021

Enea Biumi “La maestrina del Copacabana e altri racconti” (Genesi Editrice,2021)


 

                 “Chi fosse transitato alle quattro del mattino al Copacabana avrebbe notato un’ombra sgattaiolare dalla porticina sul retro del night per infilarsi in un’auto bianca: una Panda un po’ vecchiotta”. Con questo fotogramma visivo inizia il primo dei testi che costituiscono la raccolta “La maestrina del Copacabana e altri racconti” di Enea Biumi. L’autore, poeta e narratore, è sempre stato un finissimo ritrattista di personaggi caratterizzanti un certo mondo di provincia, in particolare quello del Varesotto, ma con una tonalità estendibile a spazi più ampi; quella provincia protagonista di ambientazioni incisive in percorsi che vanno da Piero Chiara ad Andrea Vitali. La scrittura di Biumi è ricca di diffusa ironia con miscelature dialettali. Nel caso specifico, cinque sono i brevi testi di narrativa che compongono l’esito editoriale. Il primo, che fornisce il titolo al libro stesso, tratteggia cromature di stagioni e di ambienti in cui l’ipocrisia e il desiderio di ferire con la maldicenza incombono sulle vicende umane, come quella della giovane e avvenente maestra di scuola che si trasforma in seducente intrattenitrice di night club. Nel secondo, l’intreccio dei tradimenti tra coppie che si incrociano determina un tragico esito. Biumi si concentra sulla scrittura di un impianto specificamente dialogico, con una riduzione della tonalità linguistica alla formula  dell’immediato dicibile espresso attraverso una incisione dei tratti quali tipologie di una società minimale identificata da mentalità arcaiche ed espressività popolari; non escludendo poi l’intervento autoriale in prima persona, nella sostanziale vocazione del cantastorie. Il terzo racconto è forse quello con maggiore capacità di seduzione testuale anche perché caratterizzato da una forte connotazione letteraria, portando l’io narrante alla ricerca dei passi compiuti da Giuseppe Ungaretti, particolarmente amato da Biumi. Sembrano riaffacciarsi le variegate emozioni condotte dallo scorrere dei suoi fiumi, determinanti nella riflessione del grande poeta che ha saputo così bene filtrare il sentimento del tempo, e del suo tempo. Il quarto racconto si concentra sulla nitidezza dei ricordi che riaffiorano in chi si ritrova nella fase conclusiva della vita. Le amicizie, gli amori, la guerra; la successione degli stati d’animo e il fuggire dei momenti. L’ultimo testo, che descrive un innamoramento contrastato sulla base dell’appartenenza a diversi e distanti ambienti sociali, esprime uno stile particolarmente fluido e scorrevole. Enea Biumi, in questo esito narrativo, riafferma la sua specifica predisposizione al tratteggio dei caratteri, dei vizi e delle personalità che contraddistinguono il più diffuso male di vivere, sempre però con l’accompagnamento gentile di una garbata e divertita tolleranza.

                                                                                               Andrea Rompianesi


lunedì 7 giugno 2021

Carlo Zanzi, Sassolungo, Robin Edizioni, Torino, 2020


 

Come una doppia cartina di tornasole potrebbe essere letto questo nuovo romanzo di Carlo Zanzi. Da una parte emerge la storia di Varese, che scorre nel cosiddetto secolo breve, attraverso l’evolversi dell’aspetto architettonico, urbanistico, perfino toponomastico; dall’altro si assiste al rapporto nonni nipoti alla cui ombra affiorano amori, dissapori, difficoltà del vivere quotidiano, soddisfazioni e risultati ottenuti. Al di sopra di ciò, come fosse un inedito falso scopo, la passione per la montagna, non solo quella dolomitica, ma anche quella prealpina. Sebbene morfologicamente differenti i due gruppi alpini possono considerarsi simili per come si impongono all’animo umano, per come ne forgiano lo spirito e ne equilibrino la mente. Non a caso l’opera si apre con il protagonista intento a scalare la vetta del Sassolungo e termina con lo stesso protagonista al Campo dei fiori. Almeno, questo è ciò che appare leggendo il romanzo. Non due realtà di montagna, bensì una. Ma andiamo con ordine.

Parlavo di secolo breve. In effetti il racconto si snoda dal 1910 al 1987 e ci indica il percorso di una famiglia varesina, ben radicata nella propria terra e soprattutto ben addentro nella storia generale dell’Italia e del mondo. Non c’è pagina, o quasi, infatti, che non faccia riferimento esplicito o implicito a Varese. Si può affermare senza ombra di dubbio che sia proprio la città la coprotagonista del romanzo. Una città che si muove nel tempo e nello spazio e che l’autore accompagna, passo passo, prendendole la mano come fosse una persona, accarezzandola, dipingendola, vestendola e svestendola, orgogliosamente con amore. La storia e le vicissitudini della famiglia Frigerio si intrecciano con Varese e ne fanno un tutt’uno indivisibile, anche quando il racconto parla della guerra, delle Dolomiti, dell’Albania, o altro. Il lettore che non conoscesse la città la può rivivere attraverso minuziose e realistiche descrizioni, oppure tramite il nome di vie – che cambiano nel tempo – piazze, Chiese, opifici – il Calzaturificio, in primis – o bar e pasticcerie. 

Il paesaggio quindi non è solo motivo di cornice, sfondo di abbellimento, bensì parte essenziale del romanzo. Ma non solo.

A un certo punto del racconto c’è una frase illuminante: “Scrivere è una liberazione e un conforto. Non ha mai provato la paura di essere dimenticata?” A pronunciare queste parole è Gabriele, che si rivelerà essere nel prosieguo dell’opera Guido Morselli. Lo scrittore varesino che si ritroverà vittima della sua scrittura proprio perché inascoltato e continuamente rifiutato dalle varie Case Editrici. Ma quella domanda è un po’ anche il centro del romanzo, ne costituisce una motivazione. Non voglio scomodare i classici della letteratura, italiana e non, è pur tuttavia chiaro che i maggiori autori, chi più chi meno, avevano preso in mano la penna oltre che per trasmettere un proprio messaggio anche per prolungare la propria esistenza al di là della morte. Ecco allora rivelarsi fondamentale e importante il rapporto genitori figli, e soprattutto nonni nipoti, dove si infrange o si tenta di infrangere la barriera del tempo.

Ogni capitolo del romanzo riassume grosso modo le vicende di un anno – alcuni anni si dilatano in più capitoli, altri anni non vengono menzionati. E sotto i nostri occhi trascorrono i cambiamenti di una città e quelli di una famiglia. Così le vie o le piazze possono cambiare nome e divenire più spaziose e più comode, e i personaggi cambiare lo status in bene o in male, essere fedeli al proprio partner oppure cercare altre avventure, magari anche omosessuali, diventare famosi architetti o fallire nel cercare consenso alla propria scrittura. Quello che rimane è comunque lo spirito varesino: la bottega, il lavoro, l’arte (dalla musica, alla pittura, alla scrittura). Non per nulla nel romanzo vengono rappresentate figure tipiche della cultura varesina: da Guido Bertini a Piero Chiara, a Morselli, tanto per citare i più famosi. In modo particolare rimane la vita, in ogni suo aspetto, con la sua sofferenza, con la sua instabilità, con le sue pur misurate gioie. Una vita che si dipana nel corso di tre generazioni, fermandosi alla soglia della quarta, come un’improvvisa frenata di bicicletta.

Può anche trattarsi di un bildungsroman come si afferma nella quarta di copertina, sebbene le tappe di formazione riguardino più personaggi e più vicende tra loro intrecciantesi. Ciò che prevale però sul romanzo di formazione è il desiderio di dar corpo rappresentativo al sentimento dell’amore: amore per i luoghi nativi, amore per i padri e le madri, amore per le generazioni future. È probabilmente a quest’ultime che il romanzo si rivolge in maniera molto più forte e dirompente, offrendo loro un messaggio di verità. Non contano gli errori, i tradimenti, i cambiamenti voluti o non voluti. Ciò che non va dimenticata è la radice a cui tutti siamo aggrappati: figli, padri, nipoti, luoghi che ci hanno visto crescere e vivere, a volte nell’inconsapevolezza delle verità più ovvie che hanno riempito la nostra esistenza. Lo stesso uso, frequente soprattutto nella pima parte del romanzo, del dialetto dà l’impronta di un innato desiderio di continuità col passato, che la morte non può sopprimere. Anzi. Ne esalta e riproduce l’aspirazione. Come quell’anelito che conduce nonno e nipote a percorrere chilometri su chilometri in bicicletta in un sogno di eterna giovinezza.

 

Enea Biumi

mercoledì 26 maggio 2021

Andrea Rompianesi, La donna grassa, transeuropa, Massa, 2021

 


 


L’esergo introduttivo, (“La mujer gorda venia delante / arrancando las raices y mojando el pergamino de los tambores” “La donna grassa andava avanti a tutti / strappando le radici e bagnando la pergamena dei tamburi”) insieme con la breve ma didascalica nota inziale, traccia un percorso esegetico lungo il quale il lettore è portato a soffermarsi e a riflettere. Due sono gli elementi essenziali che preannunciano l’argomentazione testuale: da una parte il poeta Garcia Lorca, dall’altra il pittore Botero: l’uno e l’altro vincolati da una entelechia imprescindibile – che oltretutto dà il titolo alla silloge – : la donna grassa. Il contenuto transita quindi in un apparente realismo offerto per altro da segni di evidente oggettività (“le tracce scandite / incise su pietre selciato a terra ancorate”, “rilievi di / luce ancorate alla notte”; “vetture ai lati della strada”; “le belle luci a goccia / nitide / dei lampadari”). Ma il significato in poesia, e soprattutto nei versi di Rompianesi, non può prescindere dal significante, essendo strettamente complementare nel formare quell’unicum che dà senso alla scrittura. La verifica di ciò è data dalla musicalità che traccia la destrutturazione dei versi tra poesia e non-poesia, là dove, come giustamente afferma Massimo Scrignòli, esiste “la necessità di un dire che fortunatamente esula dalla piattezza”. Ed è necessario affermare che il significante si colloca in due piani diversi, sia ben paralleli. Questa silloge poetica di Rompianesi, infatti, come un’opera teatrale, ha due tempi: nel primo si esplica il dramma, in una anamnesi meticolosa e passionale, nel secondo si risolve il conflitto. Allo stesso modo c’è un prima del tutto nominale, costruito per lo più in novenari-endecasillabi con le più svariate assonanze, ed un dopo in cui la scrittura simula la prosa in spazi scenici ben coordinati e precisi, come se la poesia appartenesse ad altro, come se il poeta volesse trasportarci in atmosfere da cinematografo o d’arti visive. Ecco allora che quella citazione iniziale ripresa da Garcia Lorca prende corpo e visibilità nelle forme delle donne di Botero. E bene ha colto nel segno Paolo Ruffilli quando sottolinea “Titolo felice, per di più all'insegna degli straordinari poteri della poesia di Garcìa Lorca (a me particolarmente caro) e nel riflesso a specchio delle donne di Botero.” La tela che di solito separa l’attore dallo spettatore si squarcia, la quarta parete si dissolve e il lettore-spettatore si immerge in un “cadenzato passo di ballo” o in una “tenue serale orazione”, seduto o sdraiato su “un divanetto bianco moderno / del locale notturno”, dove “la donna grassa coltivava ricordi allegri (…) a contendere assorta viavai di passanti”. L’incanto di questa donna grassa ci coinvolge, conducendoci oltre la realtà, in luoghi senza tempo né orologi, in passioni immaginate e mai terminate, là dove “il volo tra i fantasmi del gioco trascina me lettore – afferma Ruffilli – in mezzo ai lampi di luce e sciabordio di flutti dietro al ritmo dei versi". Ricordava Ungaretti in una nota alle sue poesie che la parola (cito a memoria) ha valore come suono. Questa raccolta di Rompianesi conferma ancora una volta la validità di quell’affermazione: la musicalità ottenuta attraverso i suoi versi avvalora la realtà e la percezione che di essa abbiamo.

Enea Biumi


L'ANIMA nella Poesia di Prospero Cascini fotografata attraverso la PROPRIA, a cura di Salvatore Monetti

  La poesia, in molte delle sue forme, è molto più di un semplice esercizio linguistico o di un passatempo estetico. Essa è da meditazione. ...