Andrea Rompianesi
Scrittura Nomade - Viaggio polidiomatico di Arte e Cultura - Variazioni sul tema scrittura
lunedì 9 gennaio 2023
Michele Toniolo “Gli affetti del giovane Berg” (Amos Edizioni, 2022)
venerdì 30 dicembre 2022
Umberto Belardinelli, L'albero del tempo, ed. Scriptores, 2022
Il percorso poetico di Umberto Belardinelli viaggia sui
binari di una sobrietà lessicale, elegante e sicura, che dona alla sua
scrittura un non so che di nobiltà virtuosa e appagante. Nell’ultima silloge da
lui proposta “L’albero del tempo” si legge una architettura ricca di
rimandi personali che sanno cogliere ciò che è essenziale non solo per se
stesso ma per l’uomo in generale. La sua poesia esce dall’io, pur esistente,
per incontrarsi con un noi/voi/loro, nel richiamo assolutamente gentile e
genuino della verità, attraverso alcune osservazioni, quasi una personale
confessione, di carattere filosofico.
La lirica iniziale, che dà il titolo della raccolta, sembra
un esergo e fa da simbolo dando il la alle pagine che si susseguono e
che trasportano il lettore a riflessioni per nulla scontate. Non c’è ridondanza
nei suoi versi ma semplicità (non semplicismo) che accoglie e aiuta, trasferendoci
al di là del semplice dato materico nella amplificazione dei dettagli, per
altro esistenti, divenendo ipso facto momento altamente spirituale e
spiritualizzante.
Non v’è dubbio che la poesia di Belardinelli è poesia
religiosa. In ossequio all’espressione dei Vangeli vedo questa silloge come una
fiaccola sotto il moggio (mi perdoni D’Annunzio se l’ho posticipato alle
scritture), ma una fiaccola che non deve nascondersi bensì illuminare nonché
valorizzare. Del resto, a ben leggere, tutta la sua produzione, anche quando
parla d’altro – di amore, di luoghi, di accadimenti – è una produzione
religiosa. Si veda l’altra raccolta poetica dedicata a Santa Faustina Kowalska
(Stella del mare). C’è in effetti in lui un cristianesimo integrale, di
sostanza, che è il contrario di integralismo concentrato solo su simboli
esteriori. Del resto è Belardinelli
stesso che ci rivela in una nota questa sua spiritualità quasi assoluta. “Molte
volte la fede mi ha aiutato a superare momenti difficili, la fede ha sempre
esercitato su di me il suo fascino misterioso e spesso mi ha condotto verso
lunghe ed inquiete riflessioni”
Il cristianesimo è la religione dell’antifrasi perché ha
fatto della suprema delle sconfitte, dell’ignominia della morte in croce,
quella riservata ai condannati senza scampo, il simbolo stesso della vittoria.
Vittoria sul tempo. Vittoria sulla morte. Anche il dolore allora diventa solo
un passaggio – spiacevole, drammatico passaggio – ma necessario. Tuttavia la
speranza non viene meno. Tra difficoltà, cadute, risalite, ecco di nuovo
avanzare il dialogo col tempo valorizzato dalla fede che si fa quasi visibile nel
sogno del domani.
E ritorniamo alla valorizzazione del tempo, spesso scritto
con l’iniziale maiuscola per darne rilievo e importanza come fosse un assoluto
(non certo Dio) di cui tener conto e pregio. Così il tempo nella mente
dell’uomo ha la facoltà di superare le barriere dell’hinc et nunc.
Diventa spirito. Si dilata nell’ieri e prosegue nel domani per riapparire
nell’oggi. È impercettibile, intoccabile, sfuggente. Appunto come quell’albero
che dà il titolo alla raccolta e al quale il poeta parla, si può dire senza
esagerare, dall’inizio alla fine. Sempre presente, sempre invocante, sempre
autorevolmente giudicante, sia quando si parla d’amore, sia quando si ricordano
siti, situazioni, dubbi, speranze, sogni.
L’amore poi è il primo elemento che il poeta mette in
evidenza, amore sentimentale per l’altra metà, amore affettivo verso i propri
figli, amore spirituale verso Dio. L’amore diventa così un canto rivelando
tutto lo stupore per la fragile bellezza della vita, fragile perché il tempo
vola e spesso è un ricordo o un’attesa prolungata che si protende nel futuro. “Vivrai
il mio tempo spento ed altri accesi / io mi dissolverò nel tuo ricordo / tu
incontrerai altre stagioni / corre nelle parole e nel silenzio / la dissonanza
delle nostre ore”
I suoi versi, ovvero la sua poiesi, allora, sembrano
danzare in una elaborazione creativa, propositiva, esprimendo una
consapevolezza equilibrata e razionale di un pensiero alto e maturo, atto al
coinvolgimento spirituale del lettore, come un anacoreta che nel silenzio e
nella solitudine della propria cella dialoga paradossalmente col mondo intero. Infatti
i valori intrinsechi al pensiero di Belardinelli appartengono ad aspetti
esistenziali che ci dettano le ore del tempo. Le sue poesie colmano l’animo del
lettore per gli aspetti che in esse si rivelano verità e sembrano quasi un
miracolo venuto sulla terra e in un mondo che ai miracoli più non crede. “Temo
che il vento dell’inganno / trascini i suoi alfabeti frantumati / sulle pareti
di un sinedrio / eclissato dal tempo”.
È necessaria allora
la presenza del poeta per ridare dignità all’esistenza. Una dignità che Belardinelli
va ad esaminare in un’indagine introspettiva del proprio stato d’animo in
rapporto al variare del tempo, al suo andare nel tempo, ai suoi affetti nel
tempo – persone a lui vicine, care, luoghi visitati ed amati, momenti di
serenità e di dolore, di presunta spensieratezza o di amara costatazione. “Non
vi ho dimenticati luoghi del tempo / non vi ho lasciati mai senza memoria / e
vivo e respiro dentro gli orizzonti / cercando di seguire la vostra traccia”
E alla fine ancora il tempo. Riordinato, scandito, evocato
come un mantra. Il tutto introiettato in momenti di religioso pensamento. Il
tempo dell’ultimo respiro. Atteso.
Temuto. Profetizzato. Tanto è vero che “Un giorno ci ritroveremo
albero amico / nella stagione in cui la fiamma spegne / imprigionati nella
cenere del dopo”.
Enea Biumi
sabato 26 novembre 2022
Sergio Cicalò, Passionis – Passioni, Edizioni Cofine, Roma, 2022 PREMIO CITTÀ DI ISCHITELLA-PIETRO GIANNONE 2022
La
silloge inizia con un’interrogazione che va ad approfondire il significato del
linguaggio in un contesto di suoni consonantici e onomatopeici, tra
allitterazioni e rimandi fonici, sottoponendo il lettore a soffermarsi per
riflettere il valore del messaggio, di ogni messaggio, poetico: “Ita ingùrti’ de sa
bòxi su siléntziu” (Che cosa inghiotte della voce il silenzio). In questo
passaggio lo scrittore traccia una linea di lettura che rimarca autorevolmente
e sapientemente il pensiero di una
comunità che ascolta e agisce di conseguenza, sottolineando che “su bùidu
chi s’obèridi” (il vuoto che si apre) si colma attraverso “sa
mandàda” (il dono), vale a dire, secondo la stessa spiegazione che ne offre
l’autore, “il dono reciproco della tradizione sarda. Quando una famiglia
avesse avuto di una derrata alimentare una quantità superiore al possibile
consumo del momento (tipicamente carne di maiale, dopo aver ucciso l’animale
allevato in casa, ma anche frutta o verdura), faceva dono del surplus ad altre
famiglie legate ad essa dal vincolo de sa mandàda, attendendosi di venire
ricambiata in futuro.” L’annotazione è importante perché svela la base e le
fondamenta dell’impianto dell’opera. Siamo di fronte ad una poesia che incarna
la cultura di un popolo e di quella cultura si fa portavoce. Ne è testimonianza,
senza dubbio, la seconda lirica della raccolta “Su nènniri” che mette
subito a disposizione del lettore gli strumenti per una opportuna conoscenza e
analisi. Si tratta, con il nènniri, di un rituale dalle radici molto antiche che trae la sua
origine dal culto millenario di Adone (come annota l’autore). Secondo la
tradizione sarda nel mercoledì delle ceneri, le donne devono preparare un vaso
con dei semi di grano da far germogliare al buio. I semi vengono depositati su
di un piatto con del cotone e vengono conservati al buio per cui i germogli
nasceranno di un colore pallido. Questa pratica non è nient’altro che un
simbolo che sta ad indicare, in ambito cristiano, la resurrezione di Cristo
avvenuta dopo tante sofferenze. In ambito pagano, invece, il collegamento è
dato dai rituali legati al dio Adone che celebravano la rinascita della natura
in primavera. D’altra parte se il seme non muore sotto terra, non ci sarà
nessuna fioritura, come sta scritto nel Vangelo di Giovanni. La morte in questo
caso è solo temporanea. Ma ci sarà un’altra morte, quella definitiva, che non
lascia spazio a ulteriori speranze, ma porterà lutto e lacrime: “is ògus nòstusu funti
dua’ làgrimas // chi èus arrennèsci a prangi.” (i nostri occhi sono due lacrime
// che riusciremo a piangere). Per questo “sa fentàna” (la finestra) diventa luogo
privilegiato per meditare oppure per farsene una ragione: “de cussu’ lògus innùi pàri’ / ca sa vida
e’ suspéndia” (di quei posti in cui sembra / che la vita è sospesa) Dato questo contesto
si fa più chiaro il titolo della
silloge “Passionis (passioni)” in cui l’autore si propone di tracciare
un iter di sentimenti e aspetti poliedrici che vanno dalle sofferenze di Cristo
al travaglio di donne e uomini alla ricerca di un bene e di una serenità per se
stessi o per i propri cari. In effetti il rapporto tra la passione di Cristo e
la passione dell’umanità è strettamente legato e conserva una valenza
universale. Il sangue di Cristo è quello dell’uomo, il piede di Maria che
schiaccia il serpente è il piede di ogni donna che sconfigge il dolore. “Su
pèi biancu de Maria asùb’ ’e sa cònca / de su calóru” (Il piede bianco
di Maria sopra la testa / del serpente.) Così Gesù assume l’identità di un
uomo qualsiasi perché “su chi no bòlis biri / e’ su córpus de Gésus prèn’ ’e brèmis” (Quel che non vuoi
vedere / è il corpo di Gesù pieno di vermi.) e la sua voce che grida dalla croce è
quella di un uomo “chi
nèmus intèndidi” (che nessuno sente). Ma tra la morte e la vita la demarcazione è sottile, quasi
invisibile. Così come è sottile l’ieri con l’oggi. Tanto che è necessario abbassarsi (cioè farsi piccoli, dimenticando se stessi) per ascoltare i vecchi, per sentire la loro voce e le loro storie. Non saremmo
nulla ora se non ci fossero stati “is antìgus” (gli antichi). Ed ecco
che il passato si salda al presente. Diventa testimone di ciò che siamo e che
facciamo. Allora “Tòcat a si scarèsci / su chi sciéusu, // castiài bèni,
ascutài.” (Bisogna dimenticare /
quello che sappiamo, // guardare bene, ascoltare.) perché solo ascoltando riusciamo a capire, forse, ciò che siamo
veramente. L’incontro con la tradizione diventa un incontro con la poesia che
si fa, ipso facto, garante del sapere. Infatti: “Su fuéddu chi circas dd’a’ cuàu / pòdit
essi in su còru // su pipìu ch’ìa’
domandàu / a nonnu sùu: poìta // no mi cantas a mèi puru / su chi cantas a
sólu?” (La
parola che cerchi l’ha nascosta / forse nel cuore // il bambino che aveva
domandato / a suo nonno: perché // non canti anche a me / quel che canti da
solo?) Come in un’orchestrazione sapiente l’ultima lirica si ricollega alla
prima. La poesia è linguaggio, è lo strumento che fa vibrare l’animo riempiendo
il silenzio, o il vuoto, di immagini e di sensazioni. La poesia travalica il
tempo mettendo in corrispondenza episodi e persone lontane, miti e leggende,
tradizioni e culture. Sebbene, alla fine, non ci sia risposta certa al dolore e
alla morte, la poesia si ostina ad esserci, a seguirci, a renderci consapevoli
e a porci pertanto continue interrogazioni che rimarranno senza riscontro: “it’e’ custu bisóngiu / de iscrìri?” (che
cos’è questo bisogno / di scrivere?)
lunedì 7 novembre 2022
Andrea Rompianesi, Tracce di pellicola da film sulla costa di ponente, Book Editore, Riva del Po, 2022, € 15,00
C’è
sempre nell’opera di Andrea Rompianesi, sia in prosa che in poesia, un elemento
filosofico che lo contraddistingue. In questa nuova silloge l’autore si cimenta
apparentemente con fotogrammi come da film d’essai, ma al di là delle
immagini emerge chiaramente una diagnosi, ora estremamente realistica, ora
ironica, ora sarcastica, ora sentimentale, che richiama, in maniera più o meno
esplicita, quello che Heidegger in Essere e Tempo affermava: il bisogno
ontologico di ricercare la natura costitutiva degli oggetti a partire dal
soggetto. Lo stesso Husserl aveva indagato la soggettività in relazione agli
oggetti. Non a caso in una nota finale, che non va sottovalutata, l’autore
rivela che “l’ambientazione di questo testo ha trovato i caratteri nel dato
autobiografico, nel completo coinvolgimento d’autore. La costa di ponente è
quella ligure di Diano Marina, vicino ad Imperia, con una particolare
attenzione alla località di Sant’Anna dove si trova l’Hotel Arc en Ciel, dimora
di passate soste nel periodo dal 2002 al 2014.”
Ciò
che sta a significare questa postilla, estremamente personalistica, permette, a
mio avviso, di ricostruire una lettura che va al di là dell’esperienza
soggettiva di una vacanza sulla costa di ponente. L’aver insistito e
sottolineato, si può dire con nome e cognome, costa ligure, Imperia, Diano
Marina, località Sant’Anna, Hotel Arc en Ciel, periodo dal 2002 al 2014, mira
a spostare l’accento dagli avvenimenti e dalle cose, come, in artiglieria, avviene
con l’uso del falso scopo: inquadro un campanile, ad esempio, ma non sparerò su
di esso, il campanile è semplice punto di riferimento.
Ecco
allora che gli oggetti si materializzano nel soggetto, lo scrittore, il quale
diventa per ciò stesso mezzo importante e tramite di riflessioni e speculazioni
attorno a ciò che la vita impone e oppone. Già nella prima pagina il percorso
sembra ormai tracciato. Ci sono segni evidenti di aspettativa e di novità.
“Il
buio della notte è leggero, impalpabile, atteso ed aperto alla consolazione del
mare immobile.” Il buio rappresenta l’animo dell’autore
che attende risposte da chi, come il mare, rimane apparentemente immobile. Ed è
solo l’inizio. Nel prosieguo il “particulare” continua ad inseguire lo
scrittore come un’ombra: lo slargo, il parcheggio, le case, i corpi
seminudi, gli scalini, la spiaggia, le tazzine, i bicchieri e via dicendo. Il
tutto, poi, impone un viaggio a ritroso nel tempo e costringe a ripassare il
passato e a ripensarlo. “Penso ai tanti viaggi compiuti in passato; a come
il movimento sia stato adeguata necessità di una natura ipercinetica, ma anche
interessata a toccare fisicamente ciò che diciamo altro.”
La
costa di ponente assume quindi, sotto un certo aspetto, il valore e
l’importanza che per Proust ebbe la sua madeleine. Non dimentichiamoci
che in una silloge precedente di poesia Rompianesi ha pubblicato proprio un
volume dal titolo “Metrò Madeleine”.
In
tal modo il viaggio nel passato rappresenta un momento di autoanalisi, essendo
il viaggio, da sempre, un topos della letteratura che serve ad
approfondire non solo se stessi, sibbene il mondo che ci circonda. La
riflessione porta dunque alla conoscenza, riscopre quella parte di noi che non
sempre emerge, chiarifica scelte ed abitudini tanto che ci addentriamo sempre
di più in quell’impalpabile groviglio filosofico necessario per ripartire il
giorno dopo, magari con gli stessi gesti, le stesse volontà, gli stessi errori,
ma più consapevoli.
Sotto
quest’ottica l’introspezione coglie necessariamente ciò che sta più a cuore
all’autore: la filosofia. “Una credenza popolare ritiene che la filosofia
sia disciplina astratta; niente di più lontano dal vero. La filosofia è di una
concretezza assoluta… non solo gli enti, le cose, sono… ma l’essere
stesso, in quanto tale, è.” E per dimostrarlo l’autore fa sì che,
immediatamente, il pensiero divenga oggetto che, momentaneamente, si incarna in
una madre bionda, di una magrezza anoressica, che scende da una vettura
rossa accompagnata da tre bambini tanto identici da sembrare cloni. Più
tardi gli oggetti saranno la bicicletta, i chioschi con pareti rugginose, un
bar, il piccolo market, un complesso alberghiero.
La
realtà, il concreto, l’oggetto: tutti elementi riconducibili ad una filosofia
dell’essere e che diventano altrettanti simboli di un’esistenza meditata: una
specie di correlativo oggettivo montaliano che si traduce in una molteplicità
di slide o fotogrammi su cui posare lo sguardo critico e imparziale,
vista l’estrema soggettività dell’esperienza. “Il cielo terso conduce a
rinnovare le immagini di altri luoghi, rivisitati, forse reinterpretati anche,
come vere sequenze.”
L’insistenza
con la quale Rompianesi propone la visione del paesaggio circostante impone
comunque una meditazione, che ipso facto, diventa confessione. “Confesso…
sì, voglio confessarmi” e nella confessione una preghiera: “Non sappiamo
né il giorno né l’ora… dunque dobbiamo stare pronti, con le lucerne accese.” La fede dell’autore si consolida mentre
prosegue il cammino e “l’attenzione elude la morte; ma quest’ultima non è
che una puntura di spillo, talmente rapida da trasformarsi in sollievo.”
In
questa disanima in cui prevale l’argomento ontologico, cosmologico,
teleologico, si inserisce un elemento da non sottovalutare, ancorché in
secondo piano rispetto al resto: l’attenzione linguistica, dimostrata dal
fatto, ad esempio, di scrivere vólto per indirizzare immediatamente il
lettore ad una giusta ortoepia, o di scrivere spazî, con l’accento
circonflesso, per evidenziarne il plurale, e soprattutto il voler stigmatizzare,
in una specie di diascopia, il vizio tipico italiano di utilizzare vocaboli
stranieri (in prevalenza inglesi) per cui “siamo diventati, da tempo,
vittime felici di un colonialismo linguistico approssimativo e insopportabile.”
Per questo, ironicamente, lo scrittore conclude affermando di voler approfondire
lo studio dell’inglese solo “quando la maggioranza degli inglesi si
impegnerà in una acquisizione approfondita dell’italiano.”
Tanti
sono i momenti di ripensamento, tante sono le occasioni che attraversano la
vita apparentemente oziosa o da spiaggia, come si suol dire, presenti in queste
pagine che offrono al lettore emozioni poetiche e ragionamenti filosofici.
Siamo di fronte ad un lavoro di sintesi in cui la poesia diventa prosa e la
prosa si fa poesia. Ed alla fine, come in una pellicola, le numerose tracce che
l’autore ci propone ci permettono un’analisi del presente, o per lo meno, il
tentativo di analizzare e ripensare l’esistenza in un raffronto confronto con
le immagini e le riflessioni qui esposte.
“Allora
ci sarà, forse, in qualche piccolo anfratto delle nostre definizioni,
categorie, speculazioni, sillogismi, il tenace tempo noetico che, compiendosi,
assolverà il presente per farsi comunione; ci sarà, infine o all’inizio, la
piena coincidenza di essenza e di esistenza.”
E quasi a sviluppare un trait-d’union, come fosse
una legatura musicale, tra la prima ed ultima pagina, in pieno stile e
riconoscimento cinematografico, con una vena sottilmente ironica, ecco apparire
una sagoma umana, un uomo, un amico, sempre più somigliante a Jack Nicholson
(…) ancora più somigliante a Jack Nicholson.
Enea Biumi
venerdì 4 novembre 2022
Emiliano Pedroni, Le tracce rosse, Lampi di Stampa, Vignate, € 14,00
Con un
linguaggio asciutto e diretto Emiliano Pedoni affronta un thriller che
si basa su alcuni presupposti del paranormale e che, a tratti, diviene un vero
e proprio noir. La vicenda racconta di un serial killer
psicopatico che massacra donne per una sua frustrazione personale. La storia, che parte da una visione iniziale
di un ragazzo sensitivo, si fa via via più stringente e coinvolgente per
arrivare nelle pagine finali alla risoluzione del caso.
La ricerca del
mostro, come viene giustamente definito nel romanzo, sarà condotta dalla
detective Collins che si avvale del supporto dello sceriffo Morris ma
soprattutto delle precognizioni di Ethan, il ragazzo che, attraverso improvvise
e in principio non volute visioni, farà riaprire il caso di una fanciulla
scomparsa. Purtroppo nel corso delle indagini si aggiungeranno altre fanciulle
orribilmente trucidate. E gli indizi raccolti, anche attraverso messaggi
inviati tramite una vecchia Remington, non serviranno nell’immediato a stabilire
e scovare il vero criminale. Anzi aiuteranno a sviare le indagini. Il tutto verrà
guidato però da un segno: delle tracce rosse (da qui il titolo) che condurranno
gli inquirenti, alla fine, alla scoperta del colpevole.
Interessante,
oltre il giallo in sé, è la “conduzione binaria”, come l’ha denominata
nella presentazione del libro lo stesso autore. Cioè, quando viene presentato
il killer il capitolo presenta il simbolo dell’omega (Ω),
quando si avviano le indagini la pagina mostrerà il simbolo dell’alfa (α),
quando Ethan ha le visioni il simbolo diventerà quello dello Yin Yang ( ) che, come tutti sanno, rappresenta il
perfetto equilibrio dei poli opposti. Se è facile intuire che omega sta ad
indicare il male e la sua fine mentre l’alfa rappresenta l’inizio del bene e la
sua vittoria, meno agevole potrebbe essere, ad un primo impatto, cogliere il
significato dello Yin Yang. Quali saranno gli opposti presenti nel sensitivo
Ethan? Da una parte abbiamo la visione
del male (la ragazza uccisa) e dall’altra la realtà del male (l’assassino): il
paranormale e il normale. Questi due elementi, uniti, rappresentano a mio
avviso una specie di ossimoro retorico attraverso il quale i protagonisti saranno
in grado di arrivare al bene, cioè alla cattura del colpevole.
La detective
Collins, lo sceriffo Morris, gli amici di Ethan, Mark e Timothy, la famiglia
stessa del ragazzo veggente saranno coinvolti in una ricerca che avrà le
caratteristiche di una contrapposizione inquietante e affannosa volta a frenare
il serial killer che abilmente si nasconde nella contea di Mammos. I
tratti realistici di questa narrazione sono una connotazione positiva e
contribuiscono a creare quell’atmosfera adatta per un giallo che non disdegna
aspetti psicologici e domande esistenziali. Non per nulla l’esergo iniziale ha
un ben preciso indirizzo: l’epitaffio di Sicilo che così sentenzia: “finché
vivi, splendi, non rattristarti di nulla: cosa breve è la vita. Il tempo volge
presto alla sua fine.”
Ecco, il thriller
di Emiliano Pedroni ci porta, nonostante la drammaticità del racconto, allo
splendore della vita. Ci consegna alla vita stessa. L’impressione è quella di
essere inseriti in un sogno. E, sebbene in questo sogno ci sia la presenza del
male, alla fine rimaniamo del tutto sollevati perché il bene sopravanza sul
male. E si respira un’aria del tutto nuova e purificatrice.
Oggi si parla
di metaverso, di realtà virtuale. La lettura, da secoli, ha anticipato questo
mondo e questa moda attuale. Immergersi nelle pagine di un libro significa
abbandonarsi e abbonarsi all’immaginazione, significa lasciarsi andare a
sentimenti ed emozioni che in altri contesti, forse, faremmo difficoltà a
sostenere e a mostrare. E il leggere e – per alcuni – lo scrivere, come
sostiene lo stesso autore, è l’evasione dalla realtà, è lo scrollarsi di dosso i
panni del quotidiano per rivestire, come proponeva Machiavelli, quelli curiali:
è un proseguire oltre, perché, appunto, il tempo volge presto alla fine.
Enea Biumi
martedì 25 ottobre 2022
Anna De Pietri, Nove stelle più una, Macchione Editore, Varese, 2022, € 15,00
“Stella” è il trait
d’union dei dieci racconti della recente pubblicazione di Anna De Pietri.
Ma esiste un altro filo conduttore non tanto nascosto che procede dalle prime
alle ultime pagine. Ed è quello che unisce le storie dei vari personaggi
riproducendo nomi e situazioni che il lettore ha trovato nei racconti
precedenti. In modo tale che ci pare di leggere
un unico romanzo, come se la trama si svolgesse in una specie di spirale in
grado di agganciare un elemento per riposizionarlo altrove. Si è proiettati, in
altre parole, entro una costellazione di avvenimenti tutti legati tra loro, in
primis dalle stelle, in secundis da alcuni personaggi. A ciò va
aggiunto una buona tecnica narrativa, a mio avviso “all’americana” (tanto per
intenderci: Fitzgerald, Hemingway, Kerouac) che derubrica fatti e azioni quasi
sempre borderline e con protagoniste donne, comunque convincentemente
avvolgenti e fotograficamente inquadrati. Anche la descrizione delle varie
figure, protagoniste o no, dei luoghi, dei sentimenti che si intrecciano tra
loro, appare del tutto sicura e decisa tanto che si viene stimolati nel
prosieguo della lettura, o come volgarmente si dice “per vedere come va a
finire”, e, senza nemmeno accorgerci, arriviamo alla fine delle pagine
consapevolmente soddisfatti. L’autrice scandaglia i particolari che
costituiscono l’originalità dei racconti infondendo agli stessi l’autorevolezza
del “verosimile”, ben chiarito nella nota finale in cui sostiene giustamente di
non voler porre nessun limite alla propria fantasia. Le storie infatti si
snodano in modo del tutto naturale e partecipano dei sentimenti comuni a tutti
noi. Anna De Pietri dispone di un repertorio che esplora l’intimo umano
attraversando e perscrutando paure, ansie, gelosie, amori, e via dicendo, che
sono esattamente condizioni legate alla psiche umana in determinate esperienze.
L’impressione che se ne coglie è quella di trovarci di fronte alla vita vissuta
da altre persone ma che, come in uno specchio, riflette in parte o in toto,
ciò che rientra nella nostra sfera emotiva. Ma non solo nostra. Alcuni episodi
appartengono a realtà distanti da noi che si traducono comunque, ipso facto,
in una comprensione e compressione collettiva e corale che, sebbene lontana,
non può non scuoterci e quindi appartenerci. Infatti, protagonisti e
deuteragonisti – semplifico per non essere troppo didascalico – si muovono
sotto un cielo stellato che li avvolge, colti alla ricerca di se stessi. Lo
rivela l’incipit del terzo racconto, “La visita”, in cui l’autrice,
attraverso il pensiero della protagonista, afferma “Guardarsi dall’alto fa
un po’ impressione. Non siamo abituati a vederci da quelle angolazioni che
sfuggono ad ogni specchio”. Ci si perde, allora, ci si sente un po’
smarriti. Ma ci si perde per potersi ritrovare, in noi o negli altri. E lo
smarrimento ci costringe ad indagare, a proseguire il viaggio (non per nulla
proprio il primo episodio si intitola “Il viaggio” ed il viaggio, da sempre, è
un topos della letteratura) anche se le incognite sono tante e i timori
non cessano. La sicurezza sta nelle stelle che ci guardano, ci conducono, ci
rafforzano. Sono un collante nella nostra coscienza e conoscenza. “Non ho la
minima idea di dove sto andando – afferma Fatimah, una bimba che viene
fatta fuggire dalla madre nella speranza di mettere fine alla miseria della sua
esistenza – ma spero che almeno sia un posto sicuro. Mi piacerebbe andare a
scuola e non dover lavorare. Mi piacerebbe giocare quando ne ho voglia. Chissà,
se almeno una di quelle stelle ha sentito la mia voce forse andrà così.” Queste
pagine di Anna De Pietri ci raccontano di noi stessi alle prese del nostro
viaggio – esterno ed interiore – per una maturazione in progress,
attenti a non perderci in futilità, ma costretti ad una riflessione che si fa
vitale e inderogabile. Le stelle sono anche questo. Un momento per calarci in
noi stessi. Un passo verso un miglioramento spirituale. Da farsi però non con
la fronte aggrottata e pensierosa, bensì con estrema leggerezza e naturalezza,
in un gioco letterario costruito con sapienza e abilità, consapevoli che si può
meditare non solo con le lagrime e il rimbrotto, ma anche col sorriso e il
perdono, a seconda dei casi che la vita ci presenta, reali o surreali,
piacevoli o drammatici, affascinanti o apprensivi.
Enea Biumi
venerdì 7 ottobre 2022
Alberto Mori “Dettagli Fuori Campo” (Fara Editore, 2022)
Il dettaglio è innestato nella rapidità fluida dello sguardo che percepisce, registra, comporta le sezioni e le tonalità evidenti nella compostezza della collocazione in spazi adibiti a scenario. Già il primo testo di questo esito di Alberto Mori, poeta e performer dei non luoghi urbani, “Dettagli Fuori Campo”, la poesia che avvia la prima sezione annuncia una versificazione calibrata nella tenuta delle strofe. Culmina aprendosi un varco, l’espediente pronto a raccogliere il minimo, quotidiano, concreto evento: “Avanzando nel ronzio acuto/ il taglio dell’affettato/ deposto disteso/ a rilascio della pinza/ ricopre il foglio”. Alberto Mori scolpisce la realtà togliendo il prevedibile e rendendo nitido il particolare anche periferico ma svelante. Ci sono accorgimenti graficamente incisi sulla pagina a rivelare le fissità inagibili, le distinzioni dei caratteri affioranti dalle luminosità in evento, con “Intermittenza fioca/ d’arancione diluito”. Il minimo accadimento è conforto contestuale a vocazione d’argine per la difesa occorrente, quando l’episodio rischia d’indicare l’eclissi ontologica. La risposta di Mori è contingente, materica, ostinata nella iterazione dei referenti; comporta l’azione dicibile, la risposta provvisoria ma tangibile. Poi, però, qualcosa insinua il dilemma e il segreto; “Nel buio nascente/ appaiono due pianeti/ allineati in segmento cosmico”... dove l’evanescenza tace e allora si dispone una progettualità onerosa, una configurazione evoluta dalla prossimità estensiva, come “Quello che era stato/ oppure poteva essere// Spazio esteso/ Pianura percepita”. E fuori campo continuano a scandirsi i passaggi alle attenzioni, nella seconda sezione del libro, dove gli anfratti tenui sono opposti ritagli alla condensazione condotta oltre i sintagmi diffusi, operanti nel solco del commento fulmineo, intonato sulla prospettiva di un cenno suggestivo all’evento reso tale, composto nel fotogramma: “Corpo per aria sola/ Respiro risacca mare”. Molti gli elementi e i temi della poetica di Mori che qui ritornano e rimarcano la centralità del passaggio o, meglio, della successiva sosta concentrata nella ricezione sensoriale capace di trasmettere sussulti episodici. Le tensioni vitali rimarcano l’ossessiva presenza delle cose che ritornano, della fisicità acquietata nella posizione inerente a ciò che appare. L’apertura indugia su prospettive ritratte ed estrapolate al fine di una evidenziazione concentrata sul dato colto e individuato come inquadratura: “Tempo limite d’orizzonte/ La ripresa in campo lunghissimo/ avanza nel presagio della prima pioggia”.Richiesta che Alberto Mori pone al reale di un contesto colmo di effetti stimolanti energie che il poeta trasforma in indizi linguistici capaci di far emergere la parola esatta; qualcosa allora si rifletterà nell’oltre che si origina dalla calibratura attenta del verso breve.
Andrea Rompianesi
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