Possiamo osare
scrivere di felicità? Solo parlando dal limite, forse, dalla frontiera. Allora
dovrà costituirsi lo spazio della pagina; dove si compiono i riti inesausti di
strappo e sedimentazione, fecondazione e ferita. Dove il pensiero poetante
insorge, ponendo la radicalità del tracciato e del verso. Parti del foglio,
seduzione binaria al cospetto degli elementi. Un avvio che apre a “La terza
pagina”, opera poetica di Laura Caccia, esemplare esito testuale che propone
un’architettura del verso davvero preziosa. La scrittura qui osa tendere alle
radici lessicali, costruendo una figurazione sapiente di rara maestria tecnica.
Ogni singolo esito scritturale coniuga una prima parte costituita da una
versificazione per lo più in due strofe brevi, a cui fa seguito un passo che
potremmo definire in prosa poetica, sviluppato in una formula orizzontale che
utilizza l’interpunzione dello slash nei casi in cui è invece la prima parte a
comporre un andamento prosastico. Laura Caccia evoca gli esseri felici
descritti da Maria Zambrano, coloro che sanno superare i contrasti, le
antinomie tra ragione e passione; sapendo che proprio la Zambrano si avvaleva
di categorie specificamente agostiniane, come bene osservava, a suo tempo,
Giuseppina Rando. Si cerca una terza pagina, allora, assente ma intuibile,
perfino necessaria. E i tralci diventano versi, accenni di prologo come
antivoce, contatto in bilico sul tempo, resti di un’epoca nell’avvolgente
brusìo che si fa esodo, traccia, quasi equivoco, ma di una potenzialità evocativa
aperta all’oltre. Diaspora è il passato, “fino a dove la parola/ era caos che
non ha finito di/ scrivere il proprio/ nome né provare a voltarsi/ a specchio
ustorio”; debilitano allora gli esterni “soprusi di senso”, atteggiano alla
interposta persona, verso una puntualità ricevibile di cura. E la cura, per
Laura Caccia, si trasforma in definizione strutturale della composizione nel
suo proporre l’iniziale verticalismo dei versi innestati nella base a tessitura
orizzontale, epicentro di condensazione episodica. I sussurri di vento, le
tramature di luce sono tante e tali da portare dove “a metà di dissensi
antisensi/ alla deriva ad un passo dal mondo/ si esiliano i nomi/ noi esiliati
per primi/ eppure un nome non mente/ tiene a mente il nulla la luce”. La scrittura
si fa viatico dentro la corposità di elementi e frammenti, tonalità e
ricognizioni, ingorghi e braci, solchi e fondali. Le pensose articolazioni dei
fonemi concedono un controcanto dicibile e avvolgente, dove il gesto rimanda
alla dicitura capace di esplicitare nitidamente la parola esatta. Sembra di
cogliere eco della voce di Friedrich Creuzer quando affermava che la natura
parla all’uomo attraverso i segni, tali da essere percepibili solo da quanti li
conoscono. Esprimendo la necessità, quindi, d’individuare quel codice profondo
che concede l’opzione del passo, l’intuizione del tracciato. Ma avvalorando
anche le inestinguibili fragilità delle percezioni che declinano l’usurante
passività delle mancanze. Davvero qui la pagina è sciame; conduce alla
possibile verifica di un itinerario esperto che “precipita dove manca/ la voce
in grembo ancora”, e l’episodio costruisce l’avanzata delle ipotesi,
l’irrimediabile esitazione di fronte alla conduzione del margine, della nota,
della posizione acquisita dalla difesa speculativa verso l’evidenza di un
concettualismo materico che veicola il pensiero. E il pensiero, nell’opera di
Laura Caccia, si fa poesia che abita la pagina, quella terza, forse, invocata,
cercata, esposta alle ferite, diurna e notturna allo stesso tempo, episodica e
globale, condotta e sospesa, vulnerabile e intatta, esaustiva e incompiuta, “un
malcelato amore/ quasi una leggerezza irrisolta”; i rischi esondano, le domande
intensificano con insistenza la loro prestanza, accudiscono il timore e
accendono l’indirizzo dello sguardo e dell’ascolto, improvvisano rimandi e
tentazioni, stimoli che sembrano affrettarsi verso una meta, “raccogliere
questo suono inavvertito che si tuffa a precipizio”; tutto assume una pratica
ancestrale attraverso l’osservazione del dettaglio, del particolare che
s’innesta nel dedalo del contingente, poiché l’evento è il farsi della poesia
nella sua scansione, dove “il foglio ci somiglia” come l’abluzione artata ma
cedevole nell’insonne turbamento, oltre le fedeltà abrasive, nell’inattesa
rifrazione insaputa, nelle feste feriali, nelle seduzioni innocenti, in quella
terza pagina ad esito dialettico che risuona perché l’insieme diviene poesia e
la poesia, come scriveva Novalis, è il reale, il reale veramente assoluto. Quanto
più poetico, tanto più vero.
Andrea Rompianesi